L’incontro di mercoledì 3 novembre 2010, avvenuto nella Casa di Reclusione di Opera, ha permesso a 14 detenuti provenienti da 3 diverse aree del Gruppo della Trasgressione di riflettere insieme sul tema del suicidio. E’ doveroso, oltre che motivo d’orgoglio per tutto il gruppo, riferire che le riprese TV sono state possibili grazie alla professionalità del dott. Mimmo Spina, alla volontà del dott. Luigi Pagano, Provveditore regionale della Lombardia, del dott. Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera, del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dott. Franco Ionta.
I membri del Gruppo della Trasgressione presenti erano: Francesco Ranieri, Rosario Giuliano, Alessandro Crisafulli, Mullah Genti Arben, Salvatore Morabito, Giuseppe Carnovale, Antonio Tango, Giovanni Crisiglione, Antonio Catena, Bruno De Matteis, Massimiliano De Andreis, Gualtiero Leoni, Gabriele Tricomi.
I protagonisti della giornata, a due settimane dall’incontro, rimangono fieri di essersi impegnati, di aver saputo integrare i loro interventi (essendo membri di gruppi diversi, molti di loro si vedevano per la prima volta quel giorno), di aver potuto vivere un’esperienza non comune: collaborare con le forze istituzionali per un obiettivo che ha permesso facilmente di abbattere i confini di categoria.
Riassumendo, i detenuti hanno detto che il suicidio:
- è l’ultimo atto di un percorso nel quale si riduce gradualmente la possibilità di guardare con fiducia al proprio domani;
- è la fuga per la libertà da una tortura sempre più insopportabile, pur se condotta dal soggetto ai danni di se stesso;
- è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi e vive un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire ad ogni costo.
Il Gruppo della Trasgressione, dopo mesi di confronto sul tema, conclude che, in un grande numero di casi, il suicidio può essere inteso come l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di se stessi, un gesto con cui l’oppressore e l’oppresso raggiungono un accordo paradossale e drammatico: attuare il volere del tiranno e, allo stesso tempo, sottrarsi alla sua tirannia.
Chi entra in carcere dopo anni di pratica deviante porta dentro un despota che non ha voglia di cedere le armi con cui negli anni dell’ubriachezza ha squalificato le proprie componenti più sane. Per poterlo fare ha bisogno di trovare all’interno dell’ambiente istituzionale alleanze capaci di sostenere e rinvigorire le componenti che, pur se per propria responsabilità, avevano avuto la peggio. Non è facile, ma è possibile; ed è quanto dice la Legge.
I detenuti, nel corso dell’incontro, non hanno mai preso la strada più facile, cioè quella di delegare ad agenti esterni la responsabilità del gesto suicidario, e hanno dato, invece, prova tangibile di quanto un ambiente appropriato e un buon tavolo di confronto possano motivare a cercare dentro di sé le ragioni del proprio malessere invece che espellerle.