Ieri, durante l’incontro al carcere di Opera fra gli scout e il Gruppo della Trasgressione, il dott. Francesco Cajani, in occasione della domanda “Cosa possono fare le istituzioni per restituire o per portare chi ha violato la legge alla nomina di cavaliere?”, ha parlato del “diritto alla punizione“, cioè dell’importanza per il reo di ricevere una risposta appropriata da parte della Legge.
Fra i detenuti, Pasquale Trubia chiedeva se e quando chi ha la condanna all’ergastolo può, attraverso l’attuale sistema punitivo, guadagnare tale nomina e poi metterla a frutto.
Da parte mia, osservo che quando si parla di punizione, si parla implicitamente dei soggetti coinvolti nella punizione: da una parte, colui che con la deroga dalla prescrizione si “guadagna” il diritto alla punizione; dall’altra, colui che, preso atto della violazione, decide ed eroga la punizione. Di solito i due personaggi sono un figlio e un padre; nella nostra mente, infatti, parlare di punizione equivale a parlare del rapporto fra genitori e figli, ma anche dei sentimenti e degli obiettivi della punizione.
A me sembra dunque che il nostro problema principale sia costituito dal fatto che:
- mentre il genitore cui si pensa quando si parla di punizione è una persona che desidera e si ingegna per promuovere l’evoluzione del figlio ed è, ai suoi occhi, una figura dotata della credibilità necessaria per esercitare la funzione paterna, dunque una figura cui si deve dar conto di quale profitto viene ricavato dalla punizione;
- viceversa, le figure che si occupano della punizione nella prassi istituzionale, con la frammentazione che la risposta punitiva subisce nel corso della sua erogazione, lasciano la persona da punire senza un interlocutore riconoscibile e con il quale monitorare a che punto si è con gli obiettivi e i sentimenti che della punizione sono parte integrante (ovviamente parliamo della punizione prevista dalla nostra costituzione, non della condanna che esclude una volta per tutte il reo dal consorzio civile e che, proprio per questo, non può meritare l’appellativo di “punizione”).
Se a questo si aggiunge che il condannato, nella grande maggioranza dei casi, è una persona che non ha mai superato i sentimenti turbolenti e oppositivi dell’adolescente verso l’autorità, il problema diventa ancora più grave. Sappiamo, infatti, che l’adolescente che agisce in modo da essere punito è, all’inizio e prima di ogni nefasta deriva, una persona che chiede, pur se in modo contradditorio, di poter tornare a credere nella funzione dell’autorità.