Marisa Fiorani al carcere di Opera: «Aiutiamoci parlando»
La terapia degli incontri, in collaborazione con Libera, per superare il passato. Faccia a faccia tra chi ha visto sua figlia uccisa (Marcella, rapita e ammazzata dai clan nel ‘90) e chi ha ucciso
Marisa Fiorani e Pisapia agli Ambrogini 2013: ritirò il premio alla memoria di Lea Garofalo (Fotogramma)
È stato organizzato nell’ambito delle attività promosse dal Gruppo della Trasgressione che lo psicologo Angelo Aparo manda avanti in carcere da anni non solo a Opera ma anche a Bollate e San Vittore. A favorirlo un pm antimafia, Francesco Cajani, insieme con il lavoro congiunto di Libera — l’associazione contro la mafie fondata da don Ciotti — e del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano. Il cui obiettivo principale, come spiegano Federica Cantaluppi e Luana De Stasio che per questo Centro lavorano, è quello di favorire l’incontro tra vittime e autori dei reati. Non tanto alla ricerca di parole pur profondissime nella loro essenza ma qui banali e addirittura irritanti nei luoghi comuni che evocano, quali «perdono» o «scuse», ma in qualcosa che la signora Marisa sintetizza «a modo mio, perché non so parlare difficile: io mi porto il mio dolore da ventisei anni ma so che anche voi che state qui dentro avete il vostro, forse parlarci può aiutarci tutti».
Un impegno lungo e fatto di tanti avanti e indietro, sottolinea Federica, che richiede pazienza e delicatezza. Ma che alla fine ha prodotto, per esempio, un esito come quello di questa mattina a Opera. I detenuti non lo sapevano che oggi avrebbero incontrato Marisa. Per loro era la riunione settimanale solita. Ma anche per lei è stata la prima volta. Con tutto che aver trasformato la sua tragedia in impegno, nel suo caso, non è storia di adesso: da molto tempo la va raccontando nelle scuole e tre anni fa era stata lei a ritirare l’Ambrogino alla memoria di Lea Garofalo, altra uccisa per essersi ribellata alle cosche, a nome della figlia Denise.
E così adesso eccoli che le parlano, questi uomini. Come appunto Squillaci che dice «a fare i miei primi omicidi a Catania mi ci mandava mio padre». Che dice ancora «è terribile ma il problema del dolore altrui non me lo ponevo proprio, neppure quella volta che avevo ucciso e seppellito uno di cui conoscevo bene la madre e quando la incontravo e mi diceva “secondo te che fine ha fatto mio figlio?” le rispondevo “vedrai che tornerà” senza fare una piega e solo qui, dopo tanti anni, ho capito che anche uno come me può cambiare». O come Rosario Casciana, di Gela, che ora ha 45 anni e «sono in carcere da quando ne ho 19 per avere ammazzato più volte, anche io, e quando avevo una pistola in mano non pensavo a nulla, e dirlo ora mi fa impressione». O altri che il loro nome non lo dicono, come quest’altro killer che «ho 54 anni e ho chiesto tante volte di incontrare i parenti di quelli che ho ucciso, senza averlo mai ottenuto e li capisco… perché io appartenevo allo stesso tipo di mondo che ha ucciso sua figlia — dice a Marisa — e per questo anche se non sono stato io mi sento colpevole anche per lei, e le chiedo scusa». Così tanti altri ancora.
Marisa dice che «ai processi, dove ho fatto l’errore di non costituirmi parte civile, non ho mai chiesto una vendetta ma la verità». E si capisce che questo sarebbe un altro, lungo, discorso su quel che chi sta in carcere per mafia potrebbe raccontare dopo avere chiesto scusa. Ma non è questo il senso dell’incontro di oggi. Che finisce così: «Non finiamola qui».
10 settembre 2016