“Fiori per un fiore”

Caro dott. Aparo,

alla fine “pago anche io il biglietto” per il 21 marzo 2017 a Operaeccolo qui.

Una somma di piccole cose, tra le quali – per quanto possa valere, dopo 15 anni di frequentazione – un personale attestato pubblico al valore del Gruppo della Trasgressione e alla bellezza di quello che sei e che fai.

IL 21 MARZO A LOCRI E IN 4000 LUOGHI D'ITALIA

Quanto può fare 940 diviso un mah?!” … così penso la sera del 20 marzo mentre devo decidere quante pagine ragionevolmente dovranno essere stampate per la lettura, al carcere di Opera, degli oltre 940 nomi delle vittime innocenti delle mafie. Un conto davvero complesso, soprattutto per uno come me che non ha mai amato la matematica ma, soprattutto, non ha la più pallida idea di quante persone l’indomani avrebbero avuto il coraggio di alzarsi in piedi e farsi avanti verso un leggio.

Di una sola cosa eravamo certi: che il leggio dovesse stare non sul palco ma sullo stesso piano dei presenti…. per riavvicinare, per quanto possibile, le distanze. Ma anche per altri motivi, non facilmente spiegabili a parole.

Alla fine mi convinco che 30 poteva essere un giusto compromesso, tra la speranza e il timore che caratterizza ogni prima volta.

Nonostante per me sia questa lettura il vero senso del mio 21 marzo 2017, decido comunque di attraversare tutta la città per arrivare a Quarto Oggiaro, in Piazzetta Capuana.

Non sembra per niente il primo giorno di primavera mentre, con il mio scooter, cerco di ripararmi dal vento freddo di Milano mentre il centro città degrada, sempre più, a periferia.

Le scritte sui muri però segnano costantemente tutto il mio percorso, oltre che la storia del nostro bistrattato Paese… del resto quel “Più lavoro meno sbirri di Locri assomiglia da vicino a quel “meno giudici, più libertà di quel 19 marzo 2010 a Milano, trentesimo anniversario dell’uccisione di Guido Galli.

Per un attimo realizzo così che sono proprio quelle due scritte, paradossalmente, ad aver segnato il punto di partenza e di arrivo non solo dei miei pensieri ma anche della mia fortunata coincidenza a ritrovarmi legato ai percorsi di riparazione con alcuni Familiari delle vittime di mafia, i cui sentimenti mi sconvolsero per la prima volta durante un incontro presso il Centro culturale San Fedele: era il 20 marzo 2010.

Ma non c’è però tempo per soffermarmi su quel pensiero perché sono ormai arrivato a destinazione: ho difficoltà a capire dove sia il palco perché sono subito colpito dall’immagine di diverse centinaia di fogli colorati appesi dappertutto… i numeri diventano visioni, e la prospettiva diventa necessariamente più complessa. Anche perché, su quei fogli, ci sono non solo i nomi ma anche le storie.

Nel ricercare quelle poche che davvero conosco, mi lascio interrogare dalle altre.

Non sono il solo, e allora simbolicamente immortalo anche la speranza di questa bella gioventù:

Da un altoparlante sento la voce, come sempre pimpante, di Lucilla che si rivolge ai moltissimi ragazzi presenti… grida a squarciagola quello che Peppino Impastato era solito dire a Cinisi, anche lei senza timore: “La mafia è una montagna di merda!”. Applausi.

Mi avvicino per vedere meglio l’effetto che fa… ha tra i capelli un bellissimo fiore arancione e continua il suo accorato discorso introduttivo.

Poi è il turno di Nando Dalla Chiesa…. ricorda amaramente come “quel Peppino Impastato è diventato noto solo grazie ad un film”, dopo tanti anni dalla sua morte e dalle calunnie fatte trapelare ad arte sul suo conto. Tanto che sua madre ebbe a dire di aver finalmente ricevuto giustizia: “Ha ottenuto giustizia non da una sentenza dello Stato italiano, ma da un film!”.

Ricorda i nomi e le storie di chi, nell’impiego pubblico (giudice, carabiniere, direttore di un ufficio di registro non importa), ha fatto il proprio dovere, pagando per questo con la vita. E conclude ricordando che “la lettura dei nomi mal si concilia con il brusio”.

Rimarrà immobile in mezzo al palco per tutto il resto del tempo, mentre un vento freddo ritorna alla carica e anche molte Autorità presenti, complici altri impegni istituzionali, scendono dal palco e si allontanano subito dopo aver letto alcuni nomi.

Gli altri Familiari sono ugualmente sul palco: intravedo Francesca seduta sul fondo mentre Lorenzo dall’altra parte è in piedi con la felpa di Libera. Nel mezzo Emanuela che, nervosamente, si tocca i capelli.

Quando finisce la lettura, mi complimento con Lucilla per la sua forza d’animo e, in cambio, ricevo due fiori di carta che avevano fino a quel momento abbellito la piazza: “questi li devi portare in carcere, mi raccomando!”.

Sorrido al pensiero di essere ricevuto dal Direttore Siciliano con due fiori in mano, ma ogni desiderio di Libera mi risuona – quasi sempre – come un ordine. Mi allontano non prima di aver staccato alcuni di quei fogli colorati, da recapitare ai rispettivi Familiari (impegnati come testimoni in altri luoghi d’Italia) come un ricordo milanese.

All’arrivo ad Opera c’è il tempo solo per venire a conoscenza che 180 detenuti avevano chiesto di partecipare all’incontro e tentare di conseguenza di rivedere, con Federica e Luana del centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano, tutto l’impianto che avevano immaginato pensando invece ad una dinamica di un piccolo gruppo …… ma nel frattempo sono arrivati anche tutti gli altri ed entriamo nella sala del teatro interno al carcere.

Eccoci qui: una piccola delegazione della cd. società civile, 20 persone tra Familiari, mediatori del Comune di Milano, volontari di Libera e componenti esterni del Gruppo della Trasgressione. Più altre persone interessate a capirne di più, tra le quali intravedo anche Fabio e Maurizio, i due Carabinieri che lavorano ogni giorno con me e che, liberi dal servizio, hanno deciso di accettare il mio invito.

Dobbiamo iniziare perché sono già passate le 15.00, e del resto io non vedo l’ora perché il peso della corresponsabilità di questo momento iniziava ad essere insopportabile… per fortuna, accanto a me che riesco a dire solo poche cose e peraltro male, Giacinto Siciliano invece sapientemente parla di un concetto di sicurezza inteso quale restituzione di uno spazio di responsabilità alle persone che vogliono confrontarsi.

Silenzio.

Inizio a essere anche io più tranquillo: mi siedo mentre tiro un sospiro di sollievo perché realizzo che, comunque vada, l’importante era davvero iniziare.

Ed è Federica che, alzandosi dalla seconda fila, inizia con la pagina n. 1…. dalla sua voce, generalmente pacata, escono nomi e cognomi quasi urlati.

Ricordo quello che lei disse all’inizio del primo incontro, il 7 settembre 2016, tra Marisa e alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, incontro durante il quale fu il mio amico Lorenzo Frigerio a buttare lì l’idea che si potesse continuare un percorso così importante con la lettura dei nomi delle vittime innocenti proprio in quello stesso carcere: “Il mediatore ha il compito di dare la parola alle persone”. Ed in quel momento mi sembra proprio che, con quelle piccole urla, stia ben assolvendo il suo compito: nomi che, dal 1893 ad oggi, chiedono a gran voce non solo Memoria ma anche, e soprattutto, Impegno.

Federica non fa a tempo a tornare al suo posto con in mano la pagina che ha appena letto che subito si avvicina al leggio un detenuto, e poi un altro. E un altro ancora.

Ognuno con il proprio timbro ma tutti con la voce spesso rotta dall’emozione….ma non è quello che a me colpisce, come invece sottolineerà Manlio Milani. Io sono rapito dal silenzio di tutto quello che gira intorno a quel leggio.

Perché, negli anni, sono stato a Modena, Roma, Milano e Firenze e mi ricordo perfettamente delle letture dei nomi delle vittime innocenti durante quelle Giornate del 21 marzo… ma un silenzio così, davvero, non riesco proprio a ricordarlo.

Un silenzio nel quale quei nomi assumono finalmente un significato diverso, come se qualcuno avesse deciso di “rimasterizzarne” l’audio e, al contempo, di liberarli dalla polvere accumulatasi negli anni.

Ad un certo punto si alza Manlio a leggere una pagina, ma poi sono ancora i detenuti a fare la fila.

Uno dopo l’altro. Sempre tutti in silenzio.

Si alza anche Marisa ma, prima di lei, è Luana a leggere il nome di Marcella.

Ma Marisa, ugualmente, legge la sua pagina scandendo nome dopo nome con uguale intensità, come se fossero, tutti e tutte, figli e figlie sue.

Tra un detenuto e l’altro riescono solo ad “infilarsi”, oltre ad un Maresciallo dei Carabinieri libero dal servizio e pertanto in abiti civili, l’Ispettrice Visentin – orgogliosa della sua uniforme di Polizia Penitenziaria indossata non come uno scudo ma come un servizio – e Cristina, che da grande sogna di diventare un Pubblico Ministero.

Perché, per il resto, se ci fossero altri fogli sarebbero sempre loro a leggerli: uno dietro l’altro, i detenuti del carcere di Opera. Pluriomicidi che fanno la fila, in religioso silenzio, di fianco ad un leggio. Tanto che l’ultimo foglio devono, per forza, leggerlo metà per uno.

La lettura termina. Il silenzio ancora no.

Mentre le volontarie di Libera, che nel frattempo si erano messe anche loro in fila, capiscono che devono necessariamente ritornare al loro posto. Riconosco Aurora: è stata lei che sabato sera aveva avuto il coraggio di una spudorata “richiesta di intercessione”, via telefono cellulare, per entrare in carcere. Consapevole di essere in ritardo, voleva comunque esserci ….a tutti i costi.

Chiedo aiuto alla freschezza dei suoi 26 anni per la parte più difficile, ma che – immerso nell’interminabile silenzio di quei 45 minuti – ho sentito non poteva mancare: i fiori di Lucilla.

Ancora una volta una immagine di Shakespeare mi indica il senso di tutto: “Fiori per un fiore”.

Ci alziamo insieme e andiamo a legarli, uno per parte, sul leggio. Alla fine io richiudo la cartelletta che, ormai, non contiene più quei 30 fogli. E torno a sedermi.

Sto molto meglio: immagino che quei nomi così possano tutti riposare, come Ophelia, finalmente in pace.

Non più disturbati da quel fruscio che anche questa mattina, nonostante il delicato avvertimento di un Familiare prima della lettura, aleggiava ogni tanto sulla piazza. O dalla puzza di qualche spinello, come lo scorso anno in Piazza Beccaria con la complicità di insegnanti distratti ad accompagnare anche qualche alunno svogliato.

E ripenso a tutte le volte che io stesso devo combattere, dentro di me, quel senso di svogliatezza che caratterizza l’essere umano in alcuni periodi della propria esistenza.

Ma è Aparo a ridarmi la carica, mentre alcuni Familiari e alcuni detenuti decidono che è arrivato il momento di fare un altro pezzo di strada insieme, ad iniziare dalla distanza che li separa dal palco e da 10 sedie bianche fino a quel momento vuote: “Vorrei regalare a Marisa e agli altri Familiari qui oggi presenti alcuni beni confiscati alla mafia. Si tratta di Beni che la criminalità organizzata ha utilizzato per uccidere senza però fermare la loro capacità di evolversi. Non possono restituire la vita alle loro vittime ma, grazie alla comunicazione con se stessi e con la società avviata e coltivata in carcere, si fanno oggi portavoce dei loro valori di civiltà”.

Di quei piccoli beni confiscati alla mafia declama ad alta voce nomi e cognomi, come aveva fatto quel 7 settembre quando l’incontro era necessariamente entrato nel vivo. Ho imparato ormai quello che questo vuole significare: come il mediatore, anche l’educatore in carcere – nel riconoscere l’altro tramite i segni distintivi della sua persona e non del suo reato – è in grado di “dare la parola alle persone”.

10 sedie bianche sul palco… 2 mediatori, 3 Familiari, 5 detenuti. Viene spontaneo a tutti lasciare la parola a chi il reato lo ha subito.

Marisa non esita un secondo di più: “da quel 7 settembre ho potuto incontrare qui in carcere tanti altri figli. Marcella non c’è più da quasi 27 anni ma oggi la sento viva come non l’ho mai sentita”.

Piango senza vergognarmi: l’ho sentita parlare ormai tante volte in pubblico della bellezza di Marcella e oggi, per la prima volta, finalmente riusciamo tutti a vedere – in primo piano – la bellezza di Marisa.

Tocca a Rosa…. aveva paura di non arrivare in tempo – una volta terminato il suo lavoro – a Opera ma, camminando di fianco a lei durante tutto il percorso che ci separava dal teatro, capisco che la vera paura era quella di voler entrare in carcere. “Quando hanno ucciso mio nonno all’inizio non riuscivo a capire…. Come un uomo può uccidere un altro uomo? Marisa una volta mi ha portato a Bergamo, c’era un ex camorrista che diceva che a Scampia i bambini non possono scegliere. Io, in prima fila, scuotevo la testa in completo disaccordo. Io non ci volevo credere …. sono andata a vedere di persona, e mi sono ricreduta. Io non perdono ma posso dire, oggi, che il mio dolore non è molto diverso dal vostro, perché nella vita si sbaglia. E anche io mi ero sbagliata”.

E’ il turno di Manlio Milani: “io non sono una vittima della mafia, ma questa mattina – in piazza della Loggia a Brescia – abbiamo alla fine letto anche i nomi delle vittime della strage. Perché non c’è differenza tra chi ha ucciso, così come tra chi è stato ucciso. Molte delle vittime non le conosciamo, ma la stessa cosa vale per chi ha commesso il reato: chi è il colpevole? Quale persona è? Cosa conosciamo di lui?”. Con questa conclusione: “anche io non credo nel perdono, ma al recupero della relazione sì. Occorre quindi alzare lo sguardo su chi ha commesso il reato ma anche su di noi”. Aria pura per i miei polmoni.

Il primo detenuto che prende la parola torna a quel 7 settembre e a quella domanda di Marisa: “perché?”. “Io ti avevo risposto: eravamo delle bestie. Poi c’è stata una persona che aveva detto: non accetto questa risposta perché, seppur bestie, eravate bestie con la consapevolezza. Ecco… ho riflettuto molto durante questi mesi: quella persona aveva ragione!”.

Ripenso al mio personale verbale di quel primo incontro, che ho regalato a Marisa con la speranza che potesse un giorno finalmente condividerlo con altri. E a Walter, oggi invece assente, che sarebbe stato contento di sentire l’effetto di quella sua obiezione da criminologo.

Ma subito sono colpito da un altro paradosso che viene messo a nudo, davanti a tutti, con una semplicità disarmante: “Ho ucciso una persona, la figlia di 10 anni mi ha perdonato pubblicamente. Io invece mi vergogno…. in questo ci dovete aiutare anche voi”.

Uno dopo l’altro, i detenuti del carcere di Opera sono un fiume in piena: “mentre sentivo quei nomi è stato automatico pensare alle persone che ho ucciso io. La prima volta che ho ucciso un uomo ho provato soddisfazione, si chiamava Roberto. Sono in carcere dal 1994, all’inizio non mi ricordavo neppure più come fosse. Poi ho provato dolore”.

Sono stato combattuto… mi alzo o non mi alzo… non volevo sporcare quei nomi. Ma alla fine ho deciso che dovevo fare qualcosa, anche oggi”.

Finalmente riesce ad arrivare sul palco anche Michele, altro Familiare: “Vado a Messa ogni mattina. Stamattina il Vangelo parlava di Pietro e di quella domanda: quante volte io devo perdonare?

Prende la parola Luana, che confida a tutti: “io non ero sicura di voler leggere quei nomi, quasi sottraendo una pagina alla lettura di un detenuto. Ma ho pensato che questo fosse una cosa giusta e ugualmente importante oggi: mi sono alzata pensando che di poter rappresentare la comunità, che necessariamente deve essere anch’essa qui presente”.

Sono le 17.20, abbiamo abbondantemente superato il tempo che ci eravamo prefissati di impiegare. Federica dal palco mi guarda come se dovessi anche io dire qualcosa, ma io invece passo la palla a Siciliano.

Non è da me non pagare il biglietto, come dice Aparo ogni volta che inizia un incontro del Gruppo della Trasgressione: l’ingresso è libero per tutti, ma tutti poi sono chiamati a pagare il biglietto esprimendo la propria opinione.

Ma io, questa volta, non ce la faccio.

Ripenso allo slogan di questa XXII Giornata della Memoria e dell’Impegno: “luoghi di speranza, testimoni di bellezza”. E non riesco a trovare nulla altro di bello da dire ai presenti, che sono stati così straordinari già di per loro.

Penso invece, per un lunghissimo attimo, a tante cose che bussano alla mia pancia tutte insieme, inaspettate.

A coloro che stanno in silenzio dietro le tende di quel palco e che invece potrebbero dire – come ha supplicato Don Ciotti anche domenica scorsa – “almeno dove li hanno seppelliti”: nomi ancora senza un corpo su cui piangere.

Al fatto che, come si è lasciato sfuggire un detenuto, “certo, non tutti le carceri sono come Opera…quello che riusciamo a fare qui difficilmente si può fare in altre realtà”. E al fatto che, come si è lasciato invece sfuggire un Familiare, “in carcere ho trovato una umanità che fuori spesso non riesco a trovare”. Affermazioni entrambe vere. Ma considerazioni, per me, terribilmente amare. Come cittadino, prima che come magistrato. Ma, a dire il vero, anche come magistrato: perché non capisco come sia possibile che la fecondità dell’idea del Gruppo della Trasgressione, e con essa le fatiche quotidiane e molto spesso neppure retribuite di Juri Aparo, non venga doverosamente considerata dalle Istituzioni come un Patrimonio dell’Umanità intera.

Non riesco poi a non pensare a quel filo rosso che lega Marcella Di Levrano, Gaetano Giordano e Giuseppe Tallarita: donne e uomini che hanno avuto tutti l’ardire di dire “no” alla mafia. E alla nostra società, invece così piena spesso di silenzi colpevoli.

Non riesco a non pensare a tutti quei rumori di sottofondo, brusii che spesso rendono banali le cose. Ai tempi veloci di quello che chiamiamo oggi il nostro vivere insieme, ai Familiari che stamattina ho visto scendere dal palco chiamati a testimoniare davanti ad una telecamera durante la lettura dei nomi dei loro cari, perché il TG di mezzogiorno ha tempi più stretti da quelli che la Memoria rigorosamente impone.

Non riesco a non pensare che sentenze dei Tribunali possano davvero essere sostituite dai film, sia pure importanti. E a quante volte ho sentito un Familiare lamentarsi contro questo o quel magistrato, tanto vicino al giudice dormiente raffigurato in un quadro che ogni tanto ancora oggi torna di moda.

Ma poi sento un Direttore di un carcere che sale sul palco e dice: “l’incontro di oggi da un senso al nostro lavoro” e la pancia inizia a farmi meno male.

Ci saranno altre occasioni, anche per dire ad Emanuela che, dentro un teatro che sta dentro un carcere, il nome di Piero Carpita è risuonato in tutta la sua bellezza.

E per restituire Memoria ad altre persone, anche perchè un detenuto, alla fine di tutto, si è avvicinato per chiedermi: “sono stato attento tutto il tempo ma nella lista dei nomi mancava la persona che ho ucciso io”.

Con l’Impegno di tutti.

Perché è vero che la mafia è una montagna di merda ma anche noi, molto spesso, siamo dediti a comportamenti maleodoranti. Ma riconoscere questo è già il primo passo per un cambiamento reale.

Come un lenzuolo bianco appeso da ciascun palermitano, speranza di Giovanni Falcone rievocata oggi all’interno di un carcere di massima sicurezza.

Nel quale, alla fine, ci sarebbe stata bene la musica della Trsg.band e quelle parole di De Andrè che abbiamo cantato anche al matrimonio di Sofia: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”.

Tra Opera e Milano, 21- 23 marzo 2017

Francesco Cajani