Cella parlante
Gabriele Tricomi
In ogni tempo, quando di tempo pareva non ne avessi, mi rinchiudevano nel mio spazio. Mio l’avevo fatto, insieme ai miei pensieri.
Il bagno mi aspettava per liberarlo da ogni sgradevole odore. il letto mi voleva solo poche ore, la notte, poiché il mio peso infastidiva il suo riposare. Quel pezzo di ferro m’addrizzava la schiena; se provavo a spostarlo qualcuno da sotto mi bussava: non volevano sentire il lamento acuto di quel ferro inumidito.
Eravamo io, il cesso e il letto, a comunicarci disappunto per la nostra solitudine. Di questo trio volevano far parte anche il lavandino e gli armadietti, il loro contributo non volevano fosse taciuto.
L’armadio più grande lamentava la pochezza di indumenti nel suo spazio, si sentiva sprecato; il più piccolo, poggiato su bombolette di gas vuote, non trovava giusto sopportare tutto quel peso di pasta, pelati e altre “ciberie”, appeso come un disabile su stampelle coperte di polvere e martoriate dai colpi di scopa che disturbavano il suo sonno.
Il lavandino soffriva, costretto in ogni stagione al freddo gelido dell’acqua. Tutti in disappunto comunicavano tra di loro e infine con me. Volevano che io trovassi soluzioni a quella solitudine e malinconica compagnia.
Cominciai così a farmeli amici, a rendermi utile a loro. Il letto non lo spostavo più, mi sdraiavo sotto di lui per pulirlo dall’umidità. L’armadio più grande lo riempivo di libri e di lettere, così da farlo sentire finalmente realizzato. Il più piccolo lo usavo per farci il forno, e il lavandino iniziò a conoscere l’acqua calda, resa tale dall’amico mio prediletto, il fornello.
Tutto pareva funzionare bene, nessuno più lamentava solitudine, gli spazi e le cose li usavo senza disturbare nessuno. Ma a volte la prepotenza di qualche “garante del nulla” voleva farci un dispetto, ci separava. A suo dire, quelle suppellettili a me care potevano diventare armi e strumenti per inganni. I miei amici finivano in magazzino, me li portavano via. Rimanevo nuovamente solo, io le mura e i cancelli.
Miei cari compagni di solitudine, branda, fornello, armadi e lavandino, e anche tu, mio fetente cesso, oggi che posso stare in mezzo a tanta gente e a tante cose belle, vorrei portarvi nei miei pensieri per raccontare chi sono stato ieri.