Un libro da leggere
Emmauel Fernandez Huaranga
Era un 24 dicembre quando una madre sacrificava la sua vita per salvare quella del proprio figlio. Le spararono 6 colpi di revolver, che in realtà erano indirizzati verso il figlio. Ma lei gli fece da scudo. L’omicida fuggì. Questo è stato l’avvenimento più tragico della mia vita. Molte volte, quando ero un ragazzino, fantasticavo su quali sarebbero state le mie reazioni se un giorno avessi incontrato la persona che mi aveva portato via mia madre.
Molte notti rivivo ancora quel giorno terrificante. Al risveglio, certe volte mi domando se potrei mai perdonare quella persona. Inizialmente mi ingannavo dicendomi avrei potuto farlo, se me lo avesse chiesto sinceramente, ma più crescevo e più mi rendevo conto che quel perdono non ci sarebbe mai stato! Perdonare una persona che aveva compiuto un atto cosi vile sarebbe togliere voce a una di quelle tante vittime di femminicidio; sarebbe come fare un patto vigliacco per una pacifica convivenza, spinti da quella voglia di tornare a vivere. Non ho mai avuto il bisogno di perdonare il carnefice di mia madre, non avevo bisogno di fare quel patto per tornare a vivere.
lo ho vissuto l’omicidio di mia madre nella maniera più positiva possibile, perché lei mi fece due volte il dono della vita. L’omicida di mia madre non fu mai arrestato, dato che si diede fin da subito alla latitanza. Quando ero bambino pensavo che prima o poi lo avrebbero arrestato, ma ciò non avvenne, anzi venni a conoscenza che fu bloccato alla frontiera italo-francese ma subito rilasciato per la mancata traduzione del mandato d’arresto. Questi avvenimenti crearono in me una conflittualità sul riconoscimento dell’autorità; crescendo come un adolescente arrabbiato e come una vittima a cui era stato fatto un torto, sentivo che potevo violare qualsiasi limite senza nessun rimorso o conseguenza.
Ad aggravare il tutto c’era anche un padre del tutto assente e, nelle poche volte in cui era presente, lo era solo per punire e l’unico modo per punire era la violenza. Da piccolo, ho anche subito atti di bullismo, perché figlio di immigrati in un paese straniero in cui l’inserimento sociale viene proclamato ma difficilmente applicato. Nonostante avessi chiesto aiuto a psicologi e professori, non mi venne mai concesso nessun aiuto. Per essere sincero, ci furono una professoressa di matematica del mio liceo che cercò di darmi una mano e due miei zii, ma ormai il mio processo di auto distruzione era cominciato.
Forse se l’omicida di mia madre fosse stato subito arrestato e portato a un giusto processo non avrei avuto quella conflittualità; forse se fossi stato ascoltato, preso in considerazione, messo sui binari giusti, non sarei sbandato cosi tanto; forse, se quel 24 dicembre mia madre non fosse tornata a prendere i regali che aveva dimenticato, sarebbe ancora qui, ma dei “forse” non si vive, ciò che è concreto è ciò che si è fatto e subito.
Accecato dal consumo sproporzionato di alcol, alla ricerca di compagnie che mi facessero sentir bene, mosso da quel senso di vacuità e da una continua ricerca di protagonismo, mi ritrovai in poco tempo a dovere rispondere di un concorso anomalo in omicidio. Mi sono ritrovato sulla stessa sponda del carnefice di mia madre.
Oggi sono recluso ormai da parecchi anni; so di avere acquisito i miei strumenti molto in ritardo, vivo questa carcerazione come una doppia condanna: per lo spreco del dono che mi venne fatto e per aver tradito tutta la fiducia che mi venne data da quelle poche persone.
Ma mi sento di dire che questi avvenimenti hanno fermato la mia autodistruzione completa. Questi processi, questa carcerazione sono stati anche una salvezza, ma dovrò pagare per le mie azioni. So che una vita è stata tolta. Mi sento sì di chiedere scusa alla famiglia della vittima ma mai il loro perdono perché so che non potrei mai ripagarli. L’unico modo è cercare di fare qualcosa di utile per la comunità. Vorrei concludere dicendo che tocca a noi dimostrare se siamo solo quelle due pagine bianche insanguinate o siamo un libro che vale la pena leggere.