“Mercy but murders, pardoning those that kill”
[W. Shakespeare – Romeo and Juliet: Act 3, Scene 1]
[1]
Solo da poco ho ripreso in mano un libro che il mio Professore di diritto penale, Federico Stella, tentò di farmi leggere all’età di 23 anni. Non poteva essere diversamente: è già difficile per un giovane studente di giurisprudenza comprendere il senso del diritto, figuriamoci quello della punizione… “Da millenni gli uomini si puniscono – e da millenni si domandano perché lo facciano”: inizia così il saggio di Eugen Wiesnet su “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita” e Stella, nella prefazione, ben sottolinea come “iniziare un cammino richiede che si vada alle radici”.
Ma quale sia stata l’idea che mi ha portato a tentare il concorso in magistratura è difficile indicarla in poche parole. Un embrione mi pare di trovarlo nelle pagine di un taccuino del 1994 quando, terminate le sessioni di esame, avevo l’abitudine di recarmi a Novo Mesto con alcuni amici ed amiche. Non certo in vacanza perché, all’epoca, era in corso un conflitto bellico e lì si trovava un campo profughi, nei pressi del confine tra Slovenia e Croazia.
Dietro quella abitudine la necessità, mia personale, di restituire “valore” al tempo che – all’epoca – ritenevo lo studio mi stesse sottraendo. E fu proprio in una di quelle occasioni che, per la prima volta, una persona mi raccontò – in un salone teneramente addobbato a discoteca con alcune luci natalizie – cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile.
Quando poi nell’estate del 2001, durante un campo di formazione antimafia organizzato da Libera a Villa di Briano, il nostro pullman diretto verso Casal di Principe fu scortato da quattro macchine blindate della Polizia capìì finalmente che non c’era più bisogno di andare oltre frontiera, perché la guerra l’avevo anche sotto casa.
Cercai allora più vicino alla città dove sono nato…. fui subito colpito dal fatto che, proprio in quel periodo, avessero trovato nell’hinterland milanese un uomo all’interno di una scatola di legno: forse pensava che il mondo potesse essere racchiuso in quelle sue quattro mura, o che lui stesso potesse chiuderlo fuori da quella scatola. E (forse così pensando) è morto.
Chiedendomi quante di quelle scatole ci fossero in giro nelle case di Milano, trovai sul mio cammino Angelo (chiamato Juri) Aparo e il “suo” Gruppo della Trasgressione: “officina, laboratorio, palestra”[2] frequentata da studenti di giurisprudenza, professori, magistrati e detenuti riuniti tutti intorno ad una comune esigenza dell’uomo, e cioè quella di condividere i propri (sia pure, a volte, diversi) punti di vista.
Giocando, paradossalmente, d’anticipo (per chi crede ancora che dovrebbe essere la società ad aprirsi al carcere, e non viceversa), dalla casa circondariale di San Vittore alcune persone chiedevano sottovoce a “chi sta fuori” di uscire dai soliti luoghi comuni che identificano il detenuto con la pena da scontare (riportata tra parentesi, come avviene ancora oggi su qualche articolo di stampa).
Accadde così che con “il dott. Aparo” suggellai quello che, in altre occasioni, ho definito “un patto tra macellai”. Nella mia incoscienza di educatore scout proposi uno scambio di prigionieri: carne giovane di ragazzi in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. Gli uni prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, gli altri prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.
L’idea risultò vincente: partimmo nel marzo del 2003 con il primo incontro in carcere e da quel momento non abbiamo mai smesso di vederci “dentro e fuori”, organizzando – da ormai 15 anni con l’apporto di numerosi educatori scout e altri esperti del settore[3] – un workshop capace ogni anno di restituire ad una trentina di giovani partecipanti una chiave di lettura di quanta complessità possa esserci intorno alla parola “Giustizia”.
Scriveva Aparo tre anni dopo: “in carcere è entrato un fiume vitale, capace di moltiplicare le possibili combinazioni del desiderio di riconoscersi”. Questo fiume vitale condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un manipolo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.
Ma nonostante questa nuova forza (e, con essa, una sempre maggiore “dispersione positiva di energie”), con il Gruppo continuammo a progettare insieme nuove possibili combinazioni. Fino ad allargare quel “desiderio di riconoscersi” alle vittime di reato.
Ma come si può passare dall’attenzione per chi deve essere punito all’attenzione verso chi ha subito un danno da colui che ha commesso un reato?
L’origine di questa domanda, che poi – a riguardarsi indietro – è il primo filo della trama di questo documentario sullo strappo generatosi da un fatto criminale, la ritrovo nel convegno sugli “obiettivi della punizione”, organizzato proprio dal Gruppo della Trasgressione il 30 giugno 2005.
Negli atti preparatori a quell’incontro[4] ricordavo come, fin dalla mia tesi di laurea, mi aveva molto affascinato il pensiero di Duccio Scatolero[5] sulla necessità di scoprire, praticare ed affermare una “giusta punizione” – intesa come vero e proprio diritto del reo minorenne – perché questa contribuisce a dare dignità alla persona in crescita, a patto però che tutti gli altri diritti che lo riguardano (e in primis quello di essere educato) siano egualmente rispettati e fatti rispettare.
E proprio quella mia positiva esperienza a contatto con il Gruppo della Trasgressione mi aveva consentito di percepire come davvero imprescindibile la necessità (anche culturale) di recuperare il vero significato di educazione per adattarlo così a tutti coloro che hanno, in particolari momenti della loro vita, necessità che sia qualcun-altro-da-loro a “trarre fuori”[6] qualcosa di utile.
Dove allora punire bene implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto da punire, indipendentemente dalla sua età, instaurando con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena, nel momento in cui – tramite l’atto del punire – riusciamo finalmente a prenderci idealmente carico del suo esito e della sua efficacia. In questo senso la punizione acquista anche significato dell’essere presente, laddove altri (la famiglia, la società, le Istituzioni) non ci sono stati. O ci sono stati ma in modo non del tutto soddisfacente, o parziale[7].
Ritenevo dunque, allora come oggi, di portarmi dentro un sentimento di continua preoccupazione circa gli effetti che scaturiscono dal mio operato, proprio per la difficoltà insita nel “punire bene” (che presuppone, in ogni caso, l’esistenza effettiva di un motivo per essere punito, all’esito delle indagini svolte e alla conseguente richiesta di punizione attuata dal Pubblico Ministero con l’esercizio dell’azione penale).
Tutto questo mio interesse, al momento dunque sbilanciato soprattutto su chi punisce/viene punito, divenne ancora più complesso quando – proprio a quel convegno – conobbi Walter Vannini.
Fu sostanzialmente lui a condurmi su una analoga traiettoria esperienziale, questa volta però tutta incentrata sul tema delle vittime del reato: perché effettivamente, come una volta ebbe efficacemente a dire ai ragazzi del workshop scout, noi “siamo più probabilmente vittime che probabilmente criminali”[8].
E fu così che poi, alla fine di questo nuovo percorso, il 19 marzo 2010 mi ritrovai – insieme a lui – con una richiesta, confusa tra timore e pudore, di aver accesso a zone di sofferenza immensa, a me peraltro quasi del tutto ignote: infatti proprio a Milano, quel giorno di marzo, la XV Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera si apriva con un incontro a porte chiuse tra i Familiari delle vittime di mafia.
Fu proprio l’esito di quell’accesso che impiantò in me il seme per una ulteriore crescita personale. Ed è così che da alcuni anni – insieme al Centro per la giustizia riparativa e la mediazione del Comune di Milano – cammino a fianco ad alcuni Familiari di vittime di mafia: un percorso che ci ha portati fino a quella silenziosa lettura dei nomi dei loro cari all’interno del carcere di Opera[9], il 21 marzo del 2017.
Si spiega allora come, quantomeno nella mia testa, questo documentario nasce – sostanzialmente – dall’esperienza ormai quindicennale del workshop scout. E da una serie di “incastri” lungo il mio percorso esistenziale che, alla fine, hanno portato le nostre riflessioni a trarre nuova linfa vitale anche dalla sensibilità professionale di Carlo Casoli, con il quale per anni mi sono confrontato nei corridoi del Palazzo di Giustizia (perché nel mio ufficio non lo facevo entrare) sulla reale funzione dei media.
E si capisce dunque che siamo oggi di fronte ad un “noi” molto numeroso, non più limitato a detenuti da una parte e ragazzi dall’altra[10].
In mezzo a questo “noi” ci sono (e ci sono sempre stato) anche io… io che pensavo di “essere dalla parte delle vittime” solo per il fatto di essere poi diventato, nel 2004, un Pubblico Ministero. Senza, in realtà, aver mai riflettuto seriamente[11] su quanto esse fossero un territorio da me completamente inesplorato. Fino a quando poi arrivò, anche per me, il primo processo per omicidio e quella lettera di una giovane donna (che, nello stesso tempo, aveva perso padre e fratello) che ancora conservo tra le cose più preziose….. stava ottenendo Giustizia, ma a lei questo interessava poco: lei invece voleva parlare con l’assassino.
Ecco dunque che nel ritornare alle radici di questo percorso, occasione per voltarmi a rivederlo limpidamente, riscopro il tesoro dei miei ultimi 15 anni passati insieme a questi miei tre preziosi compagni di viaggio…. perché – altro tema ricorrente del coach Aparo e che ho riscritto sul mio taccuino di strada anche il 7 settembre 2016 nel carcere di Opera seduto accanto a Marisa Fiorani[12] – “la riflessione è un lusso che non sempre l’essere umano si vuole concedere”.
Da buon macellaio che volevo essere, il primo che si è “fatto tagliare a pezzetti” da tutta questa storia sono stato io.
Perché, da un lato, il Gruppo della Trasgressione è stato una palestra vitale anche per il mio essere Pubblico Ministero, e di questo esercizio porto ancora con me il peso della maggior fatica nell’affrontare il mio ruolo istituzionale ogni giorno.
Perché, dall’altro, i Familiari delle vittime interrogano nel profondo la mia coscienza di uomo, nei momenti in cui tende ad essere assonnata e pigra. Le loro parole, vive perchè non vogliono arrendersi al lutto e al ritornello del “tanto nulla può cambiare”[13], mi riportano prepotentemente – come un pugno nello stomaco – al concetto di distacco, che illumina di luce nuova i loro volti ma che invece troppo spesso noi tendiamo a dimenticare, a partire da quello apparentemente più semplice: il distacco da sé stessi. Ossia comprendere che è possibile fare qualcosa di più per gli altri che ci stanno accanto, ogni giorno.
Ri-svegliarmi dunque e non rimanere invece quel giudice dormiente, ben raffigurato da Thomas Couture.
Ed essere così in grado di ri-comprendere, insieme al reo, anche la vittima. Perché non esiste solo un diritto riconosciuto dall’art. 27 della nostra Costituzione al reo, ma anche un preciso dovere verso le vittime: quello di mettere in campo forze positive in grado di “scongelare”[14] il dolore affinchè possa, per quanto possibile, ri-trasformarsi in qualcosa di vivo.
In tutto questo non posso però non ripensare, ancora una volta, alle tante cose che, per un lunghissimo attimo, hanno bussato alla mia pancia tutte insieme, inaspettate, durante il dialogo che è seguito a quella lettura dei nomi delle vittime di mafia ad Opera.
Al fatto che, come si è lasciato sfuggire un detenuto, “certo, non tutte le carceri sono come Opera…quello che riusciamo a fare qui difficilmente si può fare in altre realtà”. E al fatto che, come si è lasciato invece sfuggire un Familiare, “in carcere ho trovato una umanità che fuori spesso non riesco a trovare”. Affermazioni entrambe vere. Ma considerazioni, per me, terribilmente amare. Come cittadino, prima che come magistrato. Ma, a dire il vero, anche come magistrato: perché non capisco come sia possibile che la fecondità dell’idea del Gruppo della Trasgressione, e con essa le fatiche quotidiane e molto spesso neppure retribuite di Juri Aparo, non venga doverosamente considerata dalle Istituzioni come un Patrimonio dell’Umanità intera.
Ma ancora una volta la strada da percorrere me la indicano con forza proprio quei Familiari che – nonostante la ferita, che resta sempre aperta – fanno memoria[15] senza retorica[16], richiamando inesorabilmente tutti noi alla indicazione di Peppe Diana: “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte”. E a quel concetto di rivoluzione dell’agire umano[17], nel senso che intendeva Gaber quando invece dissacrava quelle “tante cose belle” che abbiamo “nella testa ma non ancora nella pelle”.
E per questo che, seduto accanto a Marisa, quel giorno rileggevo ad alta voce: “Per farsi coraggio, allora bisogna restare in contatto con sè stessi, con la propria autenticità, e averne cura, per non rischiare di inaridirsi. È necessario, poi, coltivare la speranza e mantenere lo sguardo su un futuro desiderabile nel nome del quale agire e vivere, serve custodire e nutrire la passione per qualcosa, perché sarà il bacino a cui abbeverare il coraggio quando vorremo lottare proprio in nome di quella passione, circondandoci di coloro che condividono e sostengono questo stile di vita e questo modo di vedere il mondo. Per questo serve anche riconoscere dei modelli di coraggio positivi per noi, da imitare guardando i valori che esprimono, per poterli incarnare a nostra volta”[18].
Anche se il documentario volutamente non vuole prendere posizione sul tema dello strappo ma solo restituirne l’estrema complessità, tutto nella mia testa ora – finalmente – torna. Così i quaderni dei fratellini di Margherita Asta, che ancora oggi ci parlano di una “primavera” che “si avvicina”, di “mani… piccole” per lasciare un segno sulla “mia terra”, sono anche per me pungolo per un rinnovato impegno come magistrato e cittadino. Ora a Milano come allora a Novo Mesto, quando alla fine su quel taccuino ricopiavo – per tenerla bene a mente – questa strofa di De Gregori: “… e adesso per favore dimmi quando finirà la guerra. Sono stufo di stare nella mia trincea di lusso”[19].
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[1] contributo tratto dalla Guida alla visione del documentario Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine
[2] Così efficacemente Carmelo I. definisce, nel documentario, il Gruppo della Trasgressione.
[3] Cfr. www.vocidalponte.it/2017/05/13/la-storia-siamo-noi.
[4] www.trasgressione.net/pages/trasgressione/int_teorici/Cajani.html (nov. 2004-feb. 2005).
[5] D. Scatolero, Atti delle giornate nazionali di studio e di riflessione sulla applicazione del nuovo codice di procedura penale, Milano, 23-24 ottobre 1991, p. 136; ID, La questione punitiva in “Punire Perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici” a cura di M. Cavallo, Franco Angeli Editore, 1993, p. 19.
[6] Cfr. Platone, “Teeteto” (in particolare: 149 a-151 d).
[7] Cfr. A. Aparo, Il giudice, un padre mutilato: (1998).
[8]www.ilworkshopsulcarcere.wordpress.com/2012/04/21/siamo-piu-probabilmente-vittime-che-probabilmente-criminali.
[9] www.vocidalponte.it/2017/03/31/fiori-per-un-fiore-2.
[10] www.ilworkshopsulcarcere.wordpress.com/2010/03/06/dialogo.
[11] Per questo motivo il mio personale ringraziamento va anche a Federica Cantaluppi e Luana De Stasio del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione del Comune di Milano.[12] Madre di Marcella Di Levrano (ritrovata uccisa, in un bosco tra Mesagne e Brindisi, il 5 aprile 1990 dopo che aveva deciso di raccontare alle Forze dell’Ordine quello che sapeva circa i traffici di sostanze stupefacenti gestiti dalla Sacra corona unita: cfr. www.vocidalponte.it/2017/04/21/a-mio-figlio), Marisa ha avuto il coraggio di incontrare ad Opera detenuti condannati per reati di criminalità organizzata e, tramite essi, sé stessa: cfr. P. Foschini, Marisa Fiorani al carcere di Opera: «Aiutiamoci parlando», Corriere della sera, 10.9.2016, p. 7.
[13] Così Stefania Grasso (figlia di Vincenzo Grasso, commerciante ucciso a Locri il 20 marzo 1989 dopo che anni prima aveva denunciato alle forze dell’ordine le richieste estorsive ricevute) ha salutato papa Francesco all’inizio della veglia del 21 marzo 2014 con i Familiari delle vittime di mafia: “Ci guardi, Santo Padre. Guardi ognuno di noi, legga nei nostri occhi il dolore della perdita di un padre, di una madre, di un figlio, di un fratello, di una sorella, di una moglie, di un marito. Guardi nel nostro volto i segni della loro assenza, ma anche del loro coraggio, del loro orgoglio, della nostra voglia di vivere. Guardi le nostre mani, il loro continuare a fare. Ci guardi, capaci di andare avanti per testimoniare il loro esempio. Ma soprattutto guardi e legga nel nostro cuore la speranza di coloro che sono certi che le cose possono cambiare. Per questo continuano a combattere e noi guardiamo a lei, Santo Padre, per ringraziarla di essere qui adesso”.
[14] “Serve un lasciarsi andare vigile che ritroveremo confinato nel ghiaccio e il ghiaccio sarà pronto a liberarlo quando il sole avrà più forza e saremo pronti noi”: A. Ceolan, “Racconto di inverno”, Albert Ceolan edizioni, 2016, p. 15.
[15] “A molti di noi è mancato il riconoscimento sociale di quanto è accaduto alle nostre famiglie, come se fossimo figli di un’altra terra. L’indifferenza, soprattutto iniziale, delle nostre comunità ai tragici eventi accaduti alle nostre famiglie ci ha fatto sentire, spesso, soli nella nostra richiesta di giustizia. Da qui è nata l’esigenza di costruire un percorso che trasformi il ricordo individuale in memoria condivisa […] una memoria collettiva sulle vittime delle mafie”: così Daniela Marcone (figlia di Francesco Marcone, Direttore dell’Ufficio del registro ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 dopo che alcuni giorni prima aveva presentato un esposto in Procura contro alcune truffe perpetrate da ignoti falsi mediatori che garantivano, dietro pagamento, il più rapido disbrigo di pratiche del suo stesso Ufficio) nella introduzione al libro Non a caso, Edizioni la meridiana, 2017.
[16] “Perché non basta ricordare. Le vittime delle mafie non hanno vissuto per essere ricordate. Hanno vissuto per la giustizia sociale, quindi per tutti noi. E abbiamo solo due modi credibili per ricordarle: impegnarci a realizzare i loro ideali e non lasciare mai soli i loro familiari”: così Luigi Ciotti a Latina, il 21 marzo 2014.
[17] “Un’idea, un concetto, un’idea finché resta un‘idea è soltanto un’astrazione/ Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”: Un’idea, dall’album Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972.
[18] L. Campanello, Diventare coraggiosi (senza essere eroi), Corriere della sera, 3 settembre 2016, p. 33.
[19] Ultimo discorso registrato, dall’album Buffalo Bill, 1976.