Hannah Arendt parla di “banalità” del male, mentre racconta l’operato di Eichmann, gerarca nazista al tempo dell’Olocausto, che riesce a commettere turpi atrocità continuando a pensare di essere nel giusto: dal suo punto di vista, egli non faceva altro che “rispettare le regole impartite dall’alto”.
La Arendt lo dice chiaramente: Eichmann non è altro che un burocrate che ha smesso di pensare, non riuscendo più a distinguere fra i valori che favoriscono la crescita delle persone e le ideologie che distruggono la dignità umana, pur se a volte si nascondono sotto una parvenza di legalità.
In fondo Eichmann non faceva altro che far tornare i conti: egli era uno “specialista” nell’organizzare il traffico ferroviario. Nella sua mente diceva a se stesso che il suo compito era solamente quello di muovere treni, mica di uccidere persone! Ed era anche bravo nel proprio lavoro, adempiva diligentemente ai propri “doveri”, quelli assegnatigli dalle autorità.
Mentre Eichmann aderisce completamente all’autorità del momento, il film mostra parallelamente il faticoso tentativo della Arendt di sottrarsi dallo scrivere quello che tutte le sue autorità di riferimento (il redattore del giornale, il preside dell’università dove insegna, i suoi vecchi amici) vorrebbero lei scrivesse: ovvero che Eichmann è un demone, un perverso e malvagio assassino senza scrupoli né coscienza. Ma lei non ci sta e, contro tutti, continua a battersi per ciò in cui crede: Eichmann, più che un “Mostro”, era un Signor Nessuno che, come tanti altri, eseguiva senza porsi troppe domande i compiti che gli erano stati assegnati.
Così, con il suo esempio, la Arendt ci mostra quanto sia difficile opporsi all’autorità, per il potere che l’autorità stessa esercita su di noi. È difficile mantenere la mente aperta al dialogo anche in un paese libero, figuriamoci in una dittatura quale è stato il nazismo.
Ma ciò che ci colpisce è che per Eichmann “opporsi all’autorità” non è nemmeno un’alternativa possibile. Egli non arriva neppure a porsi le domande: “Stiamo sbagliando qualcosa?”. “Sono responsabile?”. Imperturbabile e senza dar segno di sentirsi in alcun modo colpevole, ripete durante tutto il processo: “Io sono nel giusto, non ho fatto altro che eseguire gli ordini, ho adempito alle mie responsabilità”.
Centrale quindi è il tema dell’Autorità. Sembra sia fondamentale possedere prima di tutto un’autorità interiore che faccia da modello, da sestante, da guida, per orientarsi nella realtà e poter così distinguere sul nostro cammino le Autorità che ci chiamano a crescere dai falsi miti onnipotenti che si spacciano per autorità, ma che non hanno alcun interesse per la nostra crescita o evoluzione, e al contrario ci seducono attirandoci su scorciatoie dalla vita breve.
Questo ci porta ad interrogarci sulla “funzione” dell’autorità. Dopo diversi anni di frequentazione col Gruppo Trsg, mi sembra di poter dire che quando l’autorità è cieca, sorda e incapace di rispondere alla propria funzione, due sono le reazioni possibili:
- da una parte ci si arrabbia e ci si oppone, si attacca l’autorità e la si disconosce, smettendo così di sentirsi responsabili verso tutte le Istituzioni che quell’autorità deludente rappresenta;
- dall’altra parte, invece, si inserisce il pilota automatico quale potente “anestetizzante” della coscienza: progressivamente si mette a tacere la mente e si spegne il pensiero. Ancora una volta smettendo di sentirsi responsabili. Delusione e paura spesso contribuiscono a questa progressiva assuefazione, che è in grado di trasformare un “essere umano pensante” in un “automa manovrabile”.
Ma quand’è che l’Autorità ci induce a farci carico delle nostre responsabilità invece che a disconoscerle?
Al Gruppo della Trasgressione abbiamo avuto la possibilità nel tempo di imparare a riconoscere le due funzioni dell’autorità: non solo quella di “punire” e “misurare” quanto grave deve essere la punizione, ma anche e soprattutto quella di “orientare”.
Tanto più, quindi, l’Autorità svolge il proprio ruolo di contenimento e orientamento, ampliando così i nostri orizzonti e rendendoci più “liberi” di coltivare i valori che danno dignità agli esseri umani, tanto più sapremo di trovarci di fronte a un’autorità positiva e autentica. Al contrario le autorità ingannevoli, che ci inducono su una strada che porta a restringere progressivamente i nostri orizzonti, sono facilmente riconoscibili perché ci illudono con facili gratificazioni, ottenibili senza alcun lavoro o fatica; oppure si impongono con la forza, quasi sempre spacciandosi come invincibili e onnipotenti ed essendo nei fatti più autoritarie che autorevoli.
A volte diverse autorità di segno opposto convivono dentro di noi, entrando in conflitto tra loro e costringendoci a scegliere tra il combattere per mantenere vivo il dialogo con la nostra coscienza e lo spegnere il pensiero, favorendo l’assuefazione a ideologie e fantasticherie ingannevoli, che si propongono come facili e allettanti surrogati dei nostri valori.
Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio che ci ha permesso di lavorare a lungo su questo tema. Il mito di Sisifo, attraverso il dialogo tra Sisifo e Asopo, ci ha insegnato a riconoscere e a rielaborare la reazione di opposizione, rabbia e misconoscimento reciproco che provocano le autorità assenti e incoerenti. Sisifo si arrabbia con Asopo fino all’arroganza di farlo inginocchiare, in quanto vede in lui un padre che lo ha lasciato senza acqua e senza cure. Ma alla fine egli diventa anche consapevole che la sua rabbia e il suo ostinato opporsi alle Istituzioni, per via di quella grande delusione subita, lo porteranno solo a ripercorrere all’infinito i propri errori.
Il film della Arendt mi ha fatto però riflettere su quanto sia importante lavorare anche sulla seconda reazione possibile di fronte ad un’autorità deludente: quella del “pilota automatico”, del “burocrate senza pensiero”, dell’assuefazione all’onnipotenza.
Il dialogo tra Asopo e Zeus si presta bene a questo scopo. Asopo, nella nostra versione del mito, sembra aderire senza alcun pensiero critico alle seduzioni dell’onnipotente Zeus, che vende illusioni e si vendica crudelmente contro chi osa disobbedirgli, che esercita il potere utilizzando l’Olimpo come territorio di sua proprietà esclusiva.
A mettere in crisi Asopo, assuefatto e acritico verso gli abusi del potere, è solo la constatazione che adesso gli abusi di Giove riguardano proprio sua figlia Egina. Prima di questo, tutto il dialogo con Sisifo, è una evidente dimostrazione di come possa prodursi una progressiva distanza fra potere e attenzione ai bisogni e alla prossimità dell’altro.
Tiziana Pozzetti