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Atiqullah, l’afghano

Ricordo quel suo sguardo gentile. Si chiamava Atiqullah e veniva dall’Afghanistan, da cui era scappato per non soccombere alla tracotanza dei Talebani.

Così mi era parso di capire da quelle comunicazioni faticose cui ogni tanto non mi sottraevo. Ne coglievo l’importanza per loro. Erano comunicazioni basate sulla conoscenza di pochissime parole e che avvenivano a gesti, sguardi, espressioni facciali, qualunque cosa servisse a procedere nel cogliere il senso o a farlo credere.

Insegnare italiano a un gruppo di giovani uomini provenienti da svariati paesi, africani e asiatici, si stava rivelando un’esperienza estrema. Il contatto, prima di essere linguistico, era umano. I ragazzi che avevo di fronte provenivano da un altro mondo, nel senso letterale del termine.

Avevano nel cuore la nostalgia per gli affetti lasciati e per una terra ancora in gran parte immersa in una cultura atavica, per lo più pastorale. Avevano nella mente la violenza cui non si erano sottomessi ma che avevano dovuto rivolgere contro se stessi per non colpire altri. Erano spaesati.

Atiqullah in particolare. Era analfabeta nella lingua madre e nessuno più di lui seguiva le lezioni di alfabetizzazione in cui, oltre a imparare a parlare, poteva finalmente impadronirsi del segreto che ciascuno dei grafemi proposti racchiudeva.

Un giorno, intorno alla Pasqua, mi chiese dove poteva procurarsi una pecora, perché avrebbe voluto prepararla lui e mangiarla insieme con i propri connazionali. Mi mostrò la foto del suo ba-ba (papà) a cavallo di un asino in aperta campagna. Dalla foto l’uomo sorrideva mite, come nella realtà mi sorrideva suo figlio Atiqullah.

Poco dopo scadeva il permesso di permanenza in Italia e Atiqullah proseguì per la Germania, paese verso cui intendeva dirigersi fin dall’inizio, portando con sé un fratello diversamente abile che era riuscito in qualche modo a proteggere.

Non l’ho dimenticato. Non so più niente di lui. Non sono riuscita a procurargli la pecora, ma sono contenta di averlo iniziato alla lettura e alla scrittura. Forse, grazie a me, la permanenza in Germania gli sarà risultata meno gravosa e la permanenza nel consesso degli uomini meno straniante.

Una linfa vitale

Elisabetta Vanzini

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