Il masso di Sisifo

A volte mi viene chiesto come funziona il gruppo della trasgressione, cosa faccio, quale metodo uso per coordinarlo. Non ho ancora scritto il libro sul gruppo e non è detto che riesca a farlo; al momento ho solo il titolo: Il corriere dei panni sporchi. Ogni tanto, però, mi sembra di riuscire a individuare qualche aspetto del metodo… uno di questi è che a volte, quasi senza rendermene conto, tratto le persone (e tra queste detenuti che sono in carcere per avere spacciato, ucciso, fatto parte di organizzazioni criminali come Mafia, Ndrangheta e Camorra) come fossero bambini che possono divertirsi andando alla scoperta del mondo e che possono giocare a mettere le mani sul mondo senza toccare pistole, soldi e senza ubriacarsi di potere e di eccitazioni a basso prezzo.

Fra le tante piccole cose, una di questi ultimi giorni riguarda la necessità di costruire il masso di Sisifo, visto che fra meno di due settimane detenuti e comuni cittadini si troveranno a spingere il masso di Sisifo alla fine di due giornate al parco delle memorie industriali.

Per rendere il masso visibile e autorevole, mi sono convinto che debba avere circa un metro e mezzo di diametro. Qualcuno, fra studenti e detenuti, ha suggerito che un volume così grande potrebbe essere riempito con bottiglie d’acqua minerale, piene d’aria e ben chiuse, e dunque con lo stesso volume che le bottiglie hanno da piene. Qualcuno, un Achille pie’ veloce decisamente fuori allenamento, ha suggerito che ne sarebbero occorse un centinaio. A questo punto ho chiesto al tavolo del gruppo quante bottiglie d’acqua da un litro e mezzo sarebbero state necessarie. E da qui il gioco.

L’aritmetica sembra a molti una disciplina che non c’entra nulla con gli obiettivi del gruppo della trasgressione, ma a me diverte stimolare le persone a ingegnarsi per arrivare alla soluzione (se non altro, quando la soluzione riesco a vederla) e così, al tavolo del gruppo del carcere di Opera, con carta e penna, detenuti e laureati in psicologia (per quel che riguarda l’aritmetica, te li raccomando!) tutti a chiedersi (i maschi, ognuno cercando di arrivare prima; le ragazze, aiutandosi l’una con l’altra) quante bottiglie sarebbero state necessarie per riempire una sfera di un metro e mezzo di diametro.

Al gruppo mi servo anche di queste piccole cose per stuzzicare le persone a svegliarsi dal torpore e per stimolare l’affezione al ragionamento, pur se l’obiettivo principale è il ragionamento sulla relazione e, soprattutto, la coltivazione della relazione con l’altro.

Ma anche la matematica è un gioco di relazioni. Inoltre, dopo avere speso tempo per capire quante bottiglie occorrono per riempire il masso di Sisifo, viene più voglia a detenuti, studenti, ma forse anche a comuni cittadini che possono giocare con noi, di raccogliere le bottiglie necessarie a riempire il masso (vanno bene anche da mezzo litro), di provare a dare voce domenica sera a qualcuno dei personaggi del nostro Mito di Sisifo e, infine, di spingere il masso… fino alla montagna dalla quale il masso non torna più giù, cioè “La palestra della creatività”.

Certo, il masso sarà pesante, ma domenica 18 luglio saremo in tanti a spingerlo. A proposito, se fosse pieno d’acqua e avesse effettivamente il diametro di un metro e mezzo, chissà quanto sarebbe pesante…

Dedicato a Gloria Marchesi

Perché il mito di Sisifo? – Angelo Aparo

Parco Memorie Industriali

Il Gruppo della Trasgressione con Municipio 5
sabato e domenica 17 e 18 luglio
al Parco delle memorie industriali

 

L’obiettivo di Municipio 5 è quello di intervenire sul quartiere Spadolini per arginare la deriva che spesso i giovani del quartiere prendono e per valorizzare la zona e il suo parco. A tale scopo, su suggerimento di Municipio 5, si è pensato di intervenire con la Squadra Antidegrado del Gruppo della Trasgressione con un programma di cui elenco i momenti principali:

  • Sabato, ore 10:00: Gruppo della Trasgressione e abitanti del quartiere fanno conoscenza intanto che lavorano a pulire il parco e la roggia;
  • Ore 12:30, Pranzo a sacco comune fra residenti che avranno lavorato e gruppo con cibo acquistato a spese della cooperativa e/o anche offerto dai residenti;
  • Primo pomeriggio, continuazione della pulizia fino alle ore 16:30
  • Ore 17:00, Gruppo della Trasgressione all’aperto per favorire la reciproca conoscenza fra detenuti e abitanti del quartiere;
  • Ore 18:30 fino alle 19:30, esibizione di un gruppo musicale che ha già preso accordi con Municipio 5 e con studenti musicisti del Gruppo della Trasgressione;
  • A seguire, primo approccio col Mito di Sisifo
  • Fine evento alle ore 22:00 circa
  • Domenica mattina ore 10:00, continuazione della pulizia del parco, con approfondimenti sul Mito di Sisifo e mentre giovani e abitanti della zona vengono coinvolti nello studio ed, eventualmente, nella interpretazione di alcuni personaggi del mito;
  • Domenica ore 20:30, rappresentazione del Mito di Sisifo;
  • Domenica, ore 21:30, teatro forum e dibattito sulla rappresentazione
  • Domenica ore 22:00, Componenti del gruppo e abitanti del quartiere spingono il masso di Sisifo e lanciano l’idea della Palestra della creatività per i giovani della zona.

 

Cooperativa Trasgressione.net

Rapporto genitori figli

Sono Gianni Tramontana, vorrei raccontare la mia esperienza carceraria e il rapporto tra un genitore e i propri figli. Sono genitore di due gemelli che oggi hanno tredici anni. Quando mi hanno arrestato i miei figli Silvi e Davide avevano due anni. Dopo un periodo passato in carcere, mi hanno mandato ai domiciliari, ho seguito il processo da casa. Siccome mia moglie lavorava, ai miei figli ho fatto da mamma e papà. Mi sentivo cosi bene che non volevo più uscire di casa per stare in loro compagnia. Ma il sogno è durato solo quattro anni. Quando ho avuto la condanna definitiva mi sono costituito spontaneamente.

Per i miei figli, abituati a stare sempre con il loro papà, gli è crollato il mondo addosso. Quando mi venivano a trovare a colloquio, non avevo il coraggio di dirgli che mi trovavo in carcere, e ogni volta era una continua presa in giro, gli dicevo che ero qui per lavoro e che presto sarei tornato a casa. Più passava il tempo e più mi mancava il coraggio di ammettere la verità, anche perché mia figlia aveva provato a farsi del male e ancora adesso questo mi provoca dolore solo a ricordarlo.

Quando compiono dieci anni, nel silenzio assoluto, sono venuti a conoscenza dei veri motivi per i quali io sono qui a Opera, però non me lo dicevano, pensando di dovere essere loro a cautelarmi. È finita al contrario; adesso sono loro che incoraggiano e proteggono me.

La rabbia che loro avevano addosso l’ho sentita soltanto io, perché si sono sentiti traditi dal loro papà, che nella natura è la persona che non può mai tradirli e allora loro hanno perso fiducia nei miei confronti.

Al Gruppo della Trasgressione è un tema che abbiamo affrontato spesso quello di come comportarsi con i propri figli. Io dicevo tra me e me che prima o poi gli avrei detto la verità del perché mi trovo qui, e intanto il tempo passava, ero consapevole di ciò che poteva succedere, ne avevamo già parlato diverse volte al gruppo della trasgressione.  E infatti dopo si è verificato ciò che non volevo che succedesse.

Se mi sono comportato cosi nei confronti dei miei figli, non era perché volevo crearmi un alibi. Col passare del tempo, sono sicuro che grazie a mia moglie sarebbe stato detto tutto, e infatti lei gli ha raccontato quello che non avevo avuto il coraggio di fare io.  Adesso mi sento molto più tranquillo e spero che i miei piccoli mi perdoneranno per il male che gli ho recato.

Per la mia esperienza personale vorrei trasmettere ai miei compagni di sventura che sono genitori di non comportarsi come mi sono comportato io precedentemente. È meglio raccontargli piano piano come è la realtà, perché da quanto ho capito, è meglio che la verità gliela dice il proprio genitore, invece di sentirselo dire da una persona estranea; anche per essere più credibili in futuro.

Avendo perso la credibilità di padre, la paura mia più grande è che un domani si possano trovare con dei ragazzi che li portano sulla cattiva strada. Io spero che non succeda mai, anche perché mia moglie in questo periodo gli sta facendo da entrambi genitori e spero che al più presto potrò riprendermi il posto di papà.

Giovanni Tramontana

Genitori e Figli

La paura di aprirsi

Non sono mai stata una persona chiacchierona. Sin da quando mi ricordo ho sempre preferito ascoltare gli altri, nutrendomi delle loro storie e senza dare nulla di me in cambio. Ho sempre utilizzato la scusa di avere una vita banale: una famiglia amorevole, un percorso scolastico nella media, un fidanzato stabile. Nulla che valesse la pena di essere raccontato.

Il tirocinio con il Gruppo della Trasgressione mi sta dando la possibilità di accorgermi che la mia è solo paura: paura di prendermi la responsabilità di aver detto una cazzata. Parlare di fronte ad altre persone mi provoca ansia e ho vissuto i primi incontri con un peso sullo stomaco che compariva alla mattina e se ne andava solo alle 17, ad incontro finito. Vivevo le tre ore dell’incontro con la paura che mi chiamassero in causa per avere la mia opinione, e avevo il terrore di dire inutili banalità.

Per un periodo ho anche pensato di annullare il tirocinio, bloccare le ore e trovare un altro ente più strutturato, dove qualcuno mi assegnasse un compito che avrei fatto fino alla fine delle 500 ore e basta. Sono andata a leggermi tutte le relazioni di tirocinio precedenti: molti dicevano che inizialmente si sentivano spaesati quanto me ma in seguito prendevano sicurezza e riuscivano ad integrarsi con il gruppo. Ingenuamente, ed egoisticamente, ho pensato che sarebbe arrivato anche per me il momento di svolta e che avrei dovuto solo aspettare. Mi sono accorta che non funzionava, anzi mi sentivo sempre più a disagio e quasi presa di mira. Poi, piano piano, ho iniziato a partecipare più attivamente, senza parlare perché ancora adesso mi terrorizza, prendendo parte alle interviste e alle trascrizioni delle stesse. Quando ho finito di trascrivere la prima intervista mi sono sentita utile per il gruppo, e vederla pubblicata sul sito mi ha fatto provare la soddisfazione di contribuire ad un lavoro comune.

Ho imparato ad apprezzare ciò che prima consideravo assenza di struttura, ovvero la molteplicità di argomenti trattati e la richiesta continua di partecipazione attiva. Mi sono resa conto che proprio questa è la forza del Gruppo poiché dà la possibilità a chiunque di esprimere la propria opinione e consente a tutti gli ascoltatori di arricchirsi. Non ci sono distinzioni tra detenuti, studenti e liberi cittadini: ci sono solamente persone che si confrontano su diversi temi per arrivare ad una soluzione finale comune.

Devo dire che per comprendere in pieno la forza del Gruppo mi sono servite le parole del professor Aparo: “Le persone s’innamorano e, quando sono innamorate, fanno cose. Dopodiché le persone si disinnamorano, però le cose che hanno fatto rimangono”. Ciò che mi ha fatto riflettere è stato l’utilizzare la parola amore per descrivere le relazioni interne al gruppo. In primo luogo, perché l’amore ha i suoi tempi: ci sono persone che s’innamorano a prima vista, c’è chi ci mette mesi o addirittura anni e c’è anche chi si nega l’amore, per paura o per orgoglio. Allo stesso modo, ci sono persone che s’innamorano del Gruppo sin dal primo momento, e altre, come me, che ci mettono un po’ di più, per il timore di lasciarsi andare. In secondo luogo, l’amore implica fiducia e apertura nei confronti dell’altro: solo donando qualcosa di se stessi si possono gettare le basi per costruire un rapporto solido. Io mi sono approcciata al gruppo con la pretesa di ricevere senza dare e mi sono resa conto di aver gettato le basi sbagliate, che portano alla costruzione di un rapporto instabile. Adesso so che devo lavorare anche su me stessa, provando ad aprirmi di più con gli altri senza avere la paura del giudizio e dandomi la possibilità di sbagliare.

Forse il peso sullo stomaco che sentivo, e sento ancora adesso, erano solo bruchi. E magari, quando si trasformeranno in farfalle mi consentiranno di parlare senza timore per una decina di minuti consecutivi. Speriamo che ciò avvenga entro la fine del mio tirocinio.

Anita Saccani

Tirocini

Carla Chiappini

Carla Chiappini – Intervista sulla creatività

Carla Chiappini, laureata in lettere moderne e in giornalismo, docente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, si impegna da più di vent’anni nella scrittura autobiografica, utilizzandola come strumento di aiuto nelle realtà carcerarie. Carla Chiappini è la coordinatrice di un gruppo di detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Parma, con i quali lavora alla redazione di Ristretti Orizzonti”, il giornale nato all’interno della Casa di reclusione di Padova e diretto da Ornella Favero. L’incontro tra cittadini liberi e cittadini reclusi è alla base dell’umanizzazione della pena; per questo Ristretti Orizzonti lavora in favore dell’apertura delle carceri al mondo esterno e alimenta il dialogo tra queste due realtà. Va nella stessa direzione il suo lavoro su frammenti autobiografici dal carcere.

 

Ottavia: cos’è per lei la creatività?

Carla Chiappini: per me la creatività è un atto generativo; è mettere al mondo qualcosa che prima non c’era, anche solo un pensiero, un’intuizione, un progetto. È inventare, generare qualcosa di nuovo.

 

Alice: come si sviluppa la creatività? In quali condizioni?

Carla Chiappini: penso che la necessità di essere creativi sia qualcosa con cui si nasce; la creatività caratterizza alcuni individui, ma ha bisogno di stimoli per essere mantenuta viva, necessita curiosità. Non riesco ad immaginare un creativo che non sia curioso.

 

Ottavia: secondo lei, esiste un’immagine che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Carla Chiappini: la prima immagine che mi viene in mente è una lampadina che si accende, ma essendo la creatività fatta di connessioni, penso che possa essere ben rappresentata dall’immagine di due mani che si uniscono.

 

Alice: quanto è importante il riconoscimento degli altri per un artista? Come può incidere sulle relazioni?

Carla Chiappini: io credo che l’atto creativo dia gioia e soddisfazione all’artista già di per sé. Se però l’arte diventa la propria fonte di sussistenza, è evidente che serva anche un riconoscimento, oltre che una critica costruttiva da parte degli altri.

 

Ottavia: chi sono i principali destinatari del prodotto creativo?

Carla Chiappini: è difficile definire quali siano i destinatari di un prodotto creativo; io direi tutti: la creatività arricchisce il mondo ed io, personalmente, amo l’arte che riesce ad arrivare a tutti. È chiaro, però, che ci sono diversi tipi di creazioni e che alcune di queste non comunicano con tutti.

 

Alice: La creatività ha o può avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Carla Chiappini: Sicuramente sì, credo che la creatività sia una delle forme più elevate della comunità. Secondo me, attraverso la creatività viene rappresentato il meglio di noi stessi. Un gesto creativo può essere anche un gesto d’aiuto, non concepisco la creatività come atto riservato agli artisti. Un atto creativo è rappresentato anche dalla domanda giusta al momento giusto, ben esemplificato da ciò che fa il Gruppo della Trasgressione. La creatività è qualcosa di interdisciplinare e che può apportare benefici a tutti.

 

 Ottavia: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente, per la persona adulta?

 Carla Chiappini: Per quanto riguarda l’infanzia, io trovo molto creativa la mia nipotina di tre anni che fa parlare i suoi peluche, si vede che ha una grande fantasia e non tutti i bambini sono così. Inoltre, nei bambini piccoli, la fantasia permette di creare un mondo che non c’è. Per quanto riguarda gli adolescenti, mi sembra che la creatività venga maggiormente canalizzata, non si tratta più di creare un mondo ma di esprimersi all’interno di quel mondo. Per l’adulto, invece, la creatività è ritornare bambino, è conservare quello scatto, quella forza che il bambino possiede. Credo che la creatività sia anche molto prepotente: se c’è, bisogna lasciarla parlare con tutta la sua forza.

 

 Alice: La creatività è un dono naturale, privilegio di pochi, o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Carla Chiappini: Secondo me è un bisogno che alcune persone sentono in maniera molto più forte di altri, non è uguale per tutti. Sicuramente la creatività può essere stimolata e incentivata, però conosco gente estremamente intelligente che non si sfida attraverso la creatività, non ne sente l’esigenza né il desiderio. In definitiva, non trovo sia un requisito comune a tutti come lo sono il camminare o il parlare.

 

 Ottavia: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

 Carla Chiappini: La curiosità si connette molto bene con la creatività, un autore che mi piace molto diceva che la persona curiosa è migliore un po’ in tutto. Oggi mi accorgo, rispetto ai miei tempi, che la creatività si esprime moltissimo anche in cucina, cosa che a me non interessava minimamente. Invece, vedo i miei figli e i loro compagni che in cucina sono estremamente creativi.

A scuola la creatività dovrebbe essere una dimensione trasversale, le materie dovrebbero aprirsi a un approccio creativo. Purtroppo, invece, le materie umanistiche incanalano le persone in strutture morbose e noiose. La scuola dovrebbe trovare lo spazio per la creatività, ma non mancano i problemi perché, se gli insegnanti non hanno interesse o propensione per la creatività, è difficile che si faccia qualcosa in tal senso. La creatività è difficile da giudicare e da contenere e la scuola è un’istituzione praticamente semi-totale.

 

 Alice: Pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

 Carla Chiappini: Sicuramente sì, l’espressione creativa potrebbe far provare alla persona detenuta un tipo di soddisfazione alternativa rispetto a ciò che provava prima dell’arresto. Penso che un progetto di rieducazione che non preveda la soddisfazione, il desiderio e la fantasia sia un progetto con forti rischi di ricaduta. Casa, lavoro e famiglia per un condannato non sono abbastanza ai fini di un reinserimento efficace. È importante far provare un tipo di soddisfazione diverso e più funzionale, in modo che non lo si vada a cercare altrove.

Intervista ed elaborazione di
Alice Viola e Ottavia Alliata

Carla ChiappiniFacebook –  Interviste sulla creatività

Claudio Brachino

Claudio Brachino – Intervista sulla creatività

Claudio Brachino è giornalista televisivo, opinionista per i programmi di informazione di La7 ed editorialista per Il Giornale e per l’agenzia di stampa ItalPress. Di recente ha scritto Avere o non avere.

Scoperto l’amore per le opere di Freud durante gli anni del liceo, decide di intraprendere un percorso accademico presso la facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma allo scopo di specializzarsi in Psichiatria. Tuttavia, dopo gli esami del primo biennio superati a pieni voti, abbandona il corso di studi per iscriversi alla facoltà di Lettere della stessa università, frequenta il corso di studi in Letteratura italiana presso la cattedra del maestro Walter Binni e si laurea nel 1985 con una tesi sperimentale e creativa su un poeta, quasi sconosciuto, precursore della scuola romantica: Ambrogio Viale.

Abbandonato il desiderio di intraprendere la carriera di ricercatore di letteratura italiana, si avvicina al mondo della radio per intraprendere delle collaborazioni con la RAI.

Gli anni della gioventù sono altresì caratterizzati da una passione per il teatro, ambiente in cui la creatività viene espressa al massimo grado. In quegli stessi anni un professore geniale come Ferruccio Marotti invita come professore di drammaturgia Eduardo De Filippo. Questi era convinto che la crisi del teatro italiano fosse innanzitutto una crisi della drammaturgia e non tanto una crisi dettata dalla carenza di attori o registi. Dopo un anno di lavoro, l’artista napoletano sceglie il testo di Brachino (dal titolo Mettiti al Passo!) e lo mette in scena.

Per un anno Brachino gira con la troupe nei vari teatri italiani e nel 1987 incontra Nikita Michalkov, il quale era in Italia per portare in scena, assieme a Marcello Mastroianni, uno dei suoi capolavori cinematografici: Partitura Incompiuta per Pianola Meccanica. Brachino scrive, in accordo con Mikhalkov e con l’introduzione di Maurizio Scaparro, il taccuino delle prove.

Nasce il suo secondo libro, La macchina da presa teatrale, pubblicato nei Quaderni del Teatro di Roma. Poco tempo dopo, nel 1987, il giornalista conosce, a una prima di Michalkov, Adriano Galliani che gli propone un lavoro a Milano come autore e consulente della Fininvest per la realizzazione di programmi di seconda serata.

Nel 1995, Brachino diventa vicedirettore del Tg di Italia1, dove conduce varie edizioni tra cui alcune edizioni straordinarie: dai disordini del G8 di Genova all’11 settembre, dalla cattura di Saddam Hussein alla morte di Papa Giovanni Paolo II.

Infine, riesce anche a diffondere l’interesse per la criminologia fra il grande pubblico insieme a Massimo Picozzi con cui ha scritto più di un libro a quattro mani: Top Secret e La morte di Diana.

 

Asia: Cos’è per lei la creatività?

 Claudio Brachino: Vi sono numerose definizioni di “creatività”. Ad esempio, quella che voi praticate fa riferimento all’ambito preventivo ed è perciò di stampo socio-pedagogico. È molto interessante, a questo proposito, soffermarsi sull’adolescenza, età molto importante soprattutto perché si possono verificare episodi di bullismo e da parte dei docenti vi è una totale impreparazione rispetto a questo fenomeno. Inoltre, il bullismo si ripercuote in maniera traumatica non solo sulla vittima ma anche sugli insegnanti che si ritrovano impreparati in termini psicologici. Penso che i professori non siano in grado di riconoscere i danni che gli studenti hanno subito quest’anno dalla Didattica a distanza (DAD) per svariati motivi come il coprifuoco, l’assenza delle relazioni, le nuove regole, ecc. Questo sistema ha provocato forme di rabbia, negazione e disperazione. Non possiamo pretendere che i ragazzi continuino a produrre intellettualmente come se non fosse successo niente.

Ritornando alla creatività, per me rappresenta l’essenza dell’uomo, è ciò che lo distingue dalle altre specie. La produzione di qualcosa di nuovo, che non c’è in natura, è il grande frutto della mente umana, che sia un libro, un brano musicale, ecc. Creatività è ad esempio mettere a punto un format televisivo che non esisteva prima. Un grande poeta che ho amato molto, Jorge Luis Borges, diceva: “Il primo verso della poesia lo fa Dio, l’ultimo lo faccio io”. Significa che nel mezzo dell’atto creativo c’è una sfida col destino, con la creatività, con la capacità di andare dal primo verso all’ultimo facendo un percorso. La creatività ha a che fare anche con la produzione estetica e l’uomo produce bellezza per altre persone che ne riconoscono il valore. La bellezza, come dice Kant, ha a che fare con una categoria dell’animo umano, che possediamo tutti in quanto uomini. È una categoria trascendentale e immateriale, l’architettura invisibile del palazzo. La nostra esperienza sensibile del bello non sarebbe possibile senza le categorie trascendentali del bello in quanto categoria. Davanti a un quadro come la Gioconda, o di fronte a un brano di Shakespeare tutti facciamo l’esperienza del bello.

Ci sono anche altre forme di creatività… prima di iscrivermi a Lettere ho fatto due anni di Medicina perché volevo diventare psichiatra, infatti avevo scoperto Freud al liceo e me ne ero innamorato, soprattutto dell’opera Il motto di spirito in cui analizza il meccanismo della creatività linguistica attraverso la battuta, cioè il motto di spirito. Quando ridiamo facciamo riemergere dal profondo due pulsioni, eros e thanatos. A questo proposito, facendo rassegna stampa per tanti anni mi sono accorto che anche i titoli di giornale spesso si basano su un gioco di parole. Quando mi accingo a scrivere un articolo mi piace iniziare sempre con uno slogan. Ad esempio, quando ho parlato della continua lotta tra lo Stato e le regioni sui vaccini, ho detto “Gian sei talmente arrabbiato che hai perso la ragione, anzi, le regioni”.

Per quanto riguarda la stesura degli articoli, se ne può scrivere uno denotativo in cui significante e significato sono in un rapporto diretto di causa ed effetto. Ad esempio, la parola “cane” significa l’animale a quattro zampe che ben conosciamo (io ho un cane di nome Beatrice e lo amo moltissimo); ma se dico “quel giornalista è un cane!”, il rapporto tra significante e significato diventa di natura connotativa e si apre il mondo della metafora dando al linguaggio un’accezione completamente diversa. I poeti prendono la lingua e, giocando entro un sistema di assonanze e riferimenti di rima e musica, producono effetti diversi nell’animo umano rispetto a quando si fa un uso denotativo delle parole.

 

Ottavia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Claudio Brachino: Tutto dipende dal tipo di creatività che vogliamo considerare: la scrittura, la commedia, la recitazione, ecc. Ricordo la tecnica che ci ha insegnato un maestro, il quale ci diceva sempre che quando si costruisce un personaggio, questo va messo a punto in maniera talmente precisa che dobbiamo sapere anche quante caramelle ha nella giacca. Attraverso il processo creativo creiamo delle immagini, le osserviamo e poi ci immergiamo. La creatività, dopo la prima idea di un personaggio o di una trama, necessita di una capacità mimetica che non è mai una fotocopia della realtà ma è un ulteriore processo creativo.

Grande creatività si esprime anche attraverso il corpo. Venne al teatro di Roma, nel periodo in cui c’era Eduardo De Filippo, Jerzy Grotowski, grande attore polacco degli anni ’60-’70. In quegli anni era stato inventato il “teatro povero” perché nella Polonia del dopoguerra non c’erano molti soldi per fare teatro e Grotowski diceva che la nostra vera ricchezza, che nessuno ci può togliere, è il corpo. Il corpo è il linguaggio dell’attore ed è quindi una forma di creatività. Lui aveva esteso questo rapporto del corpo fino a far tornare l’uomo alle origini. L’iniziativa si chiamava “per un teatro antropologico”. Una volta ci portò in un bosco, vicino a Orvieto, per tre giorni, dove rimanemmo le notti al buio per riscoprire il teatro dell’antichità. Grotowski ci diceva che il teatro nasce dallo sciamanesimo, così come nei riti Wudu: il dio entra nel corpo della persona che perde il proprio Io e accoglie l’Io del dio. Questo è lo stesso processo creativo che fa l’attore che entra in uno stato quasi di trance abbandonando il proprio Io e accogliendo l’altro Io immaginario.

Forse possiamo fare una definizione al negativo: quando la creatività non c’è, si vede…

 

Asia: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Claudio Brachino: Vivo in gruppi, sia teatrali sia relazionali, ho sempre lavorato a contatto con altri uomini… ma la verità è che sono un solitario, ho bisogno che la mia attività sia individuale e solitaria. Posso anche lavorare in mezzo agli altri ma ho bisogno di un mio spazio privato. Ogni giorno siamo circondati da eventi, riunioni, incontri, ma le persone creative si perdono dietro tutti questi appuntamenti e contatti. Io mi sono abituato eliminando al massimo le riunioni inutili e cercando di farne invece di creative. Se c’è un bel clima e una bella energeia possono nascere cose interessanti. Quando devo mettere a punto un format ho bisogno di concentrarmi, inizio con grande paura perché il foglio bianco spaventa sempre. Poi, da una frase, da un titolo o da una suggestione anche sonora, comincio a pensare allo studio, alla conduzione, alle luci, al ritmo, alla durata, agli schermi, ecc. e riesco a scrivere il format. Poi faccio leggere ad altri il risultato e ne colgo gli stimoli e i suggerimenti. Va precisato che il prodotto finale è il frutto di un’opera creativa collettiva, in cui centrali sono i contributi del regista, dello scenografo, del truccatore, ecc., anche se tutto parte dalla solitudine di un foglio.

In alcune occasioni, la creatività sul piano sociale ha lo stesso meccanismo della pubblicità. Un grande teorico del linguaggio come Jacobson, raccontando le funzioni del linguaggio, dice che ogni atto linguistico ha tre protagonisti: il mittente, il messaggio e il destinatario. Poi ci sono il contesto fisico, attraverso cui viene inviato il messaggio, e il contesto storico-culturale. A seconda degli elementi su cui l’atto linguistico appoggia, si hanno delle funzioni: una dominante e altre in una posizione gerarchica inferiore. Ad esempio, nella pubblicità e nella politica, tutta la comunicazione è incentrata sul destinatario. La pubblicità ha come obiettivo quello di convincere qualcuno affinché acquisti un prodotto mentre la politica cerca di convincere qualcuno di un’idea per ricevere il suo voto. Questa funzione si chiama “conativa”. Si pensi, ad esempio, a Peter George Peterson il quale aveva ideato, per promuovere il generale Eisenhower, lo slogan creativo che recitava “I like ike”, dove l’oggetto votato (Ike) si ritrova all’interno del verbo “to like”. La continua presenza della vocale “i” fa sì che vi sia un’allitterazione e tale musicalità produce un piacere nell’uditore. Con uno slogan musicale, tipico del marketing pubblicitario, Peterson cercava di far diventare Eisenhower presidente degli Stati Uniti.

 

Ottavia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Claudio Brachino: La produzione creativa è come il sesso, uno dei grandi piaceri ineliminabili della vita. Io metto la creatività e la produzione di opere allo stesso livello del piacere sessuale che è fondamentale per l’essere umano.

Anche il design di una macchina è creatività, io ho sempre amato macchine belle. Anche lo sport è bellezza e io dirigo lo sport. Penso a quando Ronaldo salta… è come se stesse toccando l’Olimpo: il pallone fa un arco sopra la testa ed entra nell’esatto punto geometrico della rete ed è proprio quel punto specifico a racchiuderne tutta la bellezza.

Secondo me la tecnologia ha poca bellezza ma contiene un’idea strepitosa ovvero quella di connettere milioni di persone contemporaneamente. Steve Jobs è stato un genio, l’artefice di un’invenzione senza cui non potremmo più vivere. Con lo smartphone lavoro, guardo le notizie, controllo le e-mail, scrivo gli articoli in viaggio, partecipo a incontri su zoom, ecc. Nonostante gli eccessi e gli abusi, non si può non riconoscere che sia stata un’invenzione strepitosa.

 

Asia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé?

Claudio Brachino: Per Freud la creatività deriva dal principio del piacere, che domina in età infantile, ma l’artista estenderebbe questo principio alla vita adulta, non sulla realtà in sé, ma sull’universo estetico e creativo. Io credo di essere un super bambino e questo mio aspetto mi ha permesso di divertirmi e trovare piacere per la mia creatività. Quindi posso dire che ho una buona auto percezione, molto consapevole e divertita, del mio essere creativo. Sono una persona che dà libero corso alle battute, per me divertirmi e fare battute è fondamentale, così come parlare con gli altri.

 

Ottavia: Nel rapporto con gli altri il suo atto creativo cosa determina?

Claudio Brachino: Per me dirigere non significa avere potere sugli altri, ma vuol dire realizzare le mie idee insieme alle persone che lavorano con me. In genere ho sempre avuto un rapporto molto bello con le persone sul lavoro, proprio perché non ho bisogno di avere controllo e potere su di loro. Questo mi permette di essere un capo che è sensibile anche alla creatività delle persone. Se si lavora in un team di persone capaci in cui si è in grado di sfruttare al meglio la propria creatività allora si realizzerà un progetto vincente.

 

Asia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Claudio Brachino: É fondamentale: l’altro esiste fin dall’inizio nell’immaginario, quando si pensa a qualcosa. Sicuramente non si pensa in funzione della vendita, però ogni atto di comunicazione ha sempre un messaggio e un destinatario, quindi un altro immaginario che poi diventa un altro reale. L’altro è importantissimo sia nell’idea che tu hai dell’altro, sia nell’idea sociale che tu hai degli altri. Tuttavia, non sempre il destinatario immaginario diventa reale nell’immediato; ad esempio, Van Gogh è morto suicida perché le sue opere erano troppo in anticipo rispetto alla possibilità sociale degli altri nel percepire e capire la sua creatività. Questo succede molto nella storia dell’arte, dove ci sono parecchi artisti sfasati rispetto al proprio tempo, che vengono riconosciuti molto dopo e mentre sono vivi fanno una vita misera e non godono della propria creatività perché gli altri non apprezzano i loro prodotti. Questi artisti pensano ad un altro immaginario che non è quello del loro tempo e questo forse sta nella loro grandezza.

La storia del rapporto armonico fra io e l’altro sia a livello psicoanalitico, sia a livello sociologico è davvero complessa. Io cerco sempre di immaginare un altro che possa amare la bellezza come la amo io, però non è detto che questa accada. Per esempio, ho scritto un saggio sulla disuguaglianza, “Avere o non avere”, che pensavo potesse essere apprezzato, invece non ha avuto successo. Ci sono rimasto un po’ male, ma rimango convinto di ciò che ho fatto. Ho scritto un libro che piaceva a me, ma che in un momento storico in cui la gente aveva paura di morire per il virus o di perdere il posto di lavoro è risultato troppo complesso. Probabilmente ho sbagliato il momento di pubblicazione e in questo caso ho dipinto male l’altro.

 

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Claudio Brachino: I fruitori sono tutti coloro che hanno accesso al prodotto creativo nel contesto in cui siamo. Per me nel contesto televisivo i fruitori sono il pubblico, l’audience, le persone senza le quali il messaggio non ci sarebbe nemmeno. Quindi potenzialmente i fruitori sono tutti. Ci sono poi persone che vivono anche senza avere bisogno della creatività e magari preferiscono fare altro, ma alla fine più o meno ci sono delle cose che mettono d’accordo tutti: il calcio, la musica, il grande cinema.

 

Asia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Claudio Brachino: Non saprei, probabilmente dovrei attingere alle mie reminiscenze della storia dell’arte. Per esempio, io ho sempre trovato molto affascinante Michelangelo, il quale stava lì con la sua donna che aveva fame, aveva sete, e lui scolpiva la sua pietra, questa massa dove aveva visto platonicamente una scultura, che ancora non c’era. Egli era talmente ossessionato ad arrivare a quella figura e a quell’atto di creare, sia materialmente, sia fisicamente, sia mentalmente, che si è dimenticato della sua compagna, che è morta di fame. La creatività può coincidere con una grande forma di autismo. Questo mi piace moltissimo perché la creatività diventa qualcosa di talmente esagerato da corrispondere alla più grande idea che si può avere del bello.

 

Ottavia: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Claudio Brachino: Probabile, io non sono un grande esperto di questi aspetti psicologici. Innanzitutto, la depressione può fare molta paura perché può essere una malattia che viene ignorata da molti, ma in cui noi cadiamo spesso. Io stesso credo di averne sofferto come tutti i creativi.

Nel caso del soggetto creativo ci possono essere due forme di depressione. La prima è non avere più la creatività, perché secondo me la creatività è un dono e si può arrivare ad un certo punto in cui non la si possiede più. Poi c’è anche la depressione che deriva dal vedere l’insuccesso della propria creatività. Perché noi viviamo anche nell’idea dell’approvazione degli altri.

Penso che chi genera un atto creativo stia producendo un’opera terapeutica anche nei confronti della depressione. Innanzitutto, perché è impegnato e in luogo secondo perché mette la sua libido in una posizione energetica, vale a dire nella condizione di uscire dall’impasse.

Quindi la creatività è sicuramente un buon antidoto per la depressione, però la depressione è una malattia sociale così vasta che ci si può cadere dentro per tanti motivi. Io sono dell’idea che la depressione dipenda più da delle deprivazioni sociali: il lavoro che manca, i soldi che mancano, gli altri che non ti vogliono bene. È una somma di tante questioni che sono legate al nostro essere relazionale e non sempre a questioni legate all’individuo in quanto tale. Quindi la creatività è un elemento della depressione, ma non è un elemento decisivo.

 

Asia: Quando un prodotto creativo è per lei davvero concluso?

Claudio Brachino: É concluso nel momento in cui la persona sente che ha dato tutto a quella struttura. Nell’opera l’artista mette dei segni fino a quando non raggiunge un determinato risultato. Quando poi questa operazione si chiude e si è soddisfatti allora vuol dire che l’opera è finita. Ognuno di noi ha un rito per cui ad un certo punto ritiene che la sua opera sia conclusa.

 

Ottavia: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Claudio Brachino: Assolutamente sì, la creatività non vive senza il sociale, proprio perché è un atto di comunicazione e non un atto fine a se stesso. C’è sempre un altro, che può essere fisico, immaginario, individuale, o di gruppo, ma la creatività vive sempre nel sociale. Questo è ciò che la contraddistingue. La creatività ha un effetto sociale di base e questo può essere benefico, ad esempio nella capacità di dare, di sfogare la libido, nel migliorare la vita del destinatario, il quale di fronte a qualcosa di creativo prova piacere. La creatività fa bene sia a chi la fa sia a chi la riceve. La creatività può anche essere terapeutica.

 

Asia: Come la creatività può essere utile a scuola o nelle attività di recupero del condannato?

Claudio Brachino: A scuola secondo me è importantissima, anche se il contesto scolastico non ama molto la creatività. Spesso ci sono dei ragazzi che sono molto creativi, molto intelligenti e a volte sembra che non siano apprezzati a scuola perché si discostano dagli esercizi intellettuali tradizionali. Bisognerebbe insegnare ad apprezzare la grande creatività degli scrittori e dei pittori. Stiamo andando incontro ad un mondo sempre più tecnologico, ma non bisogna sottovalutare le materie umanistiche.

Anche rispetto al recupero del condannato trovo fondamentale l’uso della creatività. Spesso scrivo di giustizia e trovo che questa fallisca soprattutto nel processo di restituzione dell’individuo alla società, ma soprattutto a se stesso rispetto al male compiuto. Anni e anni di pena spesso non corrispondono a nessun tipo di lavoro sulla persona. L’individuo non raggiunge una formazione adeguata ad essere riammesso nella società, non solo perché non gli viene insegnato un lavoro, ma anche perché durante la sua detenzione egli non viene guidato verso un uso formativo del tempo della pena, che viene spesso gestito da persone che non hanno la giusta preparazione e dedizione. In realtà bisognerebbe dare la possibilità al condannato di potersi reinserire nella macchina sociale e nel poter fare ciò tutte le vostre attività, e quindi anche la creatività, sono fondamentali perché intervengono sull’uomo.

Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Ottavia Alliata

Claudio Brachino – Interviste sulla creatività

Fabrizio Jelmini

Fabrizio Jelmini – Intervista sulla creatività

Fabrizio Jelmini pratica fotografia da quando aveva undici anni. La sua passione nasce grazie al contributo dello zio, fotografo di paese, che lo ospitava nel suo negozio durante le estati. Egli ritiene che la fotografia sia per lui un mezzo per approcciarsi alla bellezza e al lato artistico delle cose. Nel corso degli anni ha lavorato in vari settori della fotografia professionale, tra cui il reportage giornalistico e documentaristico, di cui è sempre stato molto appassionato.

 

Anita: Cos’è per te la creatività?

Fabrizio Jelmini: Per quanto mi riguarda la creatività è vita. Tutto quello che fa parte dell’ambito creativo mi ha sempre dato una grande energia. Cambiare l’ordine delle cose mi dà la possibilità di uscire dalla mia classica comfort zone e di attivare un percorso di crescita. L’approcciarsi alla creatività permette una visione di amore.

 

Gloria: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Fabrizio Jelmini: Fondamentale è la curiosità, intesa come capacità di non rimanere legati alle proprie convinzioni. Gli stimoli esterni diventano per me benzina che alimenta il motore della curiosità. Nelle mie esperienze trasversali tutto mi è servito per avere uno spettro diverso a livello visivo.

 

Anita: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Fabrizio Jelmini: Io considero la creatività una ricerca costante e di conseguenza non riesco a identificare un fattore determinato che avvia la mia creatività. Nella mia esperienza ho però notato che durante i momenti più pesanti a livello emotivo, il motore di ricerca della creatività era molto più forte.

Per quanto riguarda lo sviluppo, credo sia un susseguirsi di stimoli che alimentano la creatività e le permettono di evolversi. Per esempio, a me è sempre piaciuto scrivere per me e un mio limite è non sapere scrivere bene quanto mi piacerebbe. Il lavoro da documentarista mi ha dato la possibilità di aggirare questo limite: facevo raccontare ad altre persone quello che avrei voluto scrivere.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e il tuo stato d’animo la produzione creativa?

Fabrizio Jelmini: Dalla frustrazione alla liberazione più assoluta. La frustrazione può dipendere dal periodo di tempo passato per arrivare alla conclusione, durante il quale ti sorgono mille dubbi e domande. La liberazione invece è connessa alla gioia e alla leggerezza di essere riuscito a produrre ciò che prima era solo un’idea che girava in testa.

 

Anita: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in generale?

Fabrizio Jelmini: Io non smetto di essere fotografo quando appoggio la macchina fotografica. Per me la fotografia non è soltanto professione. Il concetto creativo non si limita soltanto al fatto del fare un progetto fotografico, anzi lo stimolo maggiore mi arriva nel rapporto con gli altri e nella ricerca.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Fabrizio Jelmini: Io credo sia fondamentale l’apertura reciproca: se io dovessi fotografarti, senza darti nulla di me ma cercando solamente di prenderti, mi ritroverei con un’immagine esteriore ferma. La mia apertura nei confronti dell’altro fa sì che ciò che mi ritorna è sempre superiore a ciò che do.

 

Anita: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Fabrizio Jelmini: C’è stato un periodo in cui quando producevo del materiale che trovavo estremamente interessante e trovavo qualcuno discorde, ci rimanevo malissimo perché lo portavo sul piano personale. Con il tempo però impari che non puoi piacere a tutti e ci saranno sempre persone con cui avrai più difficoltà a comunicare e a coinvolgere con il tuo prodotto creativo. Quindi adesso non mi pongo più il problema: una volta cercavo di convincere chi la pensava in modo diverso da me, oggi rispetto un punto di vista diverso dal mio e cerco addirittura di utilizzarlo per un’analisi personale, per vedere se può darmi una visione in più rispetto a quello che ho fatto.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Fabrizio Jelmini: Tutti possono fruire del prodotto creativo. Penso che sia importante che l’artista crei una connessione con coloro ai quali vuole mandare un messaggio. Io scinderei la fotografia professionale dalla fotografia con scopo introspettivo. Nella fotografia professionale ci sono dei costrutti da rispettare per arrivare ad uno scopo, mentre la fotografia introspettiva è più malleabile e può essere costruita di volta in volta. Questo per quanto riguarda coloro che diventano i soggetti del prodotto creativo. Per quanto riguarda invece il giovamento degli spettatori in generale, non so rispondere a questa domanda perché credo che il giovamento sia soggettivo ed ognuno ne usufruisce a modo suo.

 

Anita: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Fabrizio Jelmini: Io non credo ci sia un’immagine adatta a rappresentare l’atto creativo perché esso è soggettivo. In linea generale credo che debba essere un’immagine che ti faccia star bene. Potrebbe essere anche un’immagine di prospettiva: non quella che hai in mente ma quella che vorresti che fosse, perché diventa una proiezione. Io non ho un’immagine ideale perché preferisco approcciarmi all’atto creativo liberamente e senza essere condizionato da qualcosa di già prefissato.

 

Gloria: Pensi esista una relazione tra depressione e creatività?

Fabrizio Jelmini: Si. Le mie foto più particolari le ho fatte nei momenti di difficoltà. Ricordo che in quei periodi avevo una percezione, un livello di sensibilità, spaventosi. Nei momenti in cui si è più chiusi, si riesce ad ascoltarsi meglio e questo aiuta nella ricerca di nuovi stimoli.

 

Anita: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Fabrizio Jelmini: Non è mai concluso, perché è ciò che vivi in quel momento e ti rimarrà sempre qualcosa di quello che hai fatto. L’essere umano è in continuo movimento, di conseguenza può sempre riprendere un progetto e dargli una nuova vita. Come ho già detto, la creatività è un motore in costante movimento che porta alla continua ricerca di stimoli.

 

Gloria: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Fabrizio Jelmini: Si. Per quanto mi riguarda, i lavori che ho fatto in diverse realtà sociali erano spinti dalla necessità di entrare in un mondo diverso dal mio. Credo che sia necessaria la capacità di comunicare in modo chiaro e comprensibile gli scopi del progetto. Ad esempio, uno dei progetti che ho svolto in Brasile aveva come scopo la promozione di una raccolta fondi per la costruzione di un ambulatorio in una favela. Per fare ciò, sono stato ospitato nella favela per raccogliere materiale da esporre. Pochi giorni dopo il mio arrivo, si è presentato davanti alla mia porta un bambino di 7 anni circa, e con fare arrogante ha chiesto di essere fotografato perché aveva sentito dire che le foto sarebbero servite per la raccolta fondi. È stato bellissimo secondo me perché sono riuscito a comunicargli l’importanza del progetto, e a quel punto lui si è offerto volontario, riconoscendo il vantaggio che ne avrebbe ricavato.

 

Anita: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Fabrizio Jelmini: Se dovessi fare una risposta breve direi la seconda. Però bisogna sempre tenere in considerazione le informazioni e il contesto in cui una persona nasce e cresce. Io credo che a chiunque e in qualsiasi momento debbano essere dati gli strumenti per sviluppare la propria creatività. Essa, infatti, non è necessariamente legata ad un banale concetto artistico, ma piuttosto credo sia la capacità di mettersi in gioco in qualunque situazione, cercando di superare i propri limiti e uscendo dalla comfort zone.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Fabrizio Jelmini: Certo che sì. Io credo che la creatività sia un modo di comunicare e ognuno di noi ha bisogno di comunicare qualcosa agli altri, si tratta solo di trovare il modo giusto. A questo proposito, vorrei raccontarvi di un progetto che ho svolto nel carcere di Bollate, con l’aiuto di Claudio Villa. Il tema del progetto era legato alla libertà e alla giustizia e io volevo rappresentare i detenuti nei loro vari momenti, partendo dalla cella per arrivare ai corridoi e all’esterno. Il progetto è stato accolto positivamente dai detenuti ed è stato per me molto istruttivo, poiché mi sono resoconto che la fotografia non è un mezzo fine a sé stesso ma può essere utilizzata come mezzo per condividere i propri pensieri. Durante il percorso il mio punto di arrivo è cambiato: non mi interessava più far vedere il carcere e la vita interna ad esso, bensì mi sono focalizzato sull’uomo in relazione alla libertà e alla giustizia che lui stesso esprime. Un punto fondamentale deve essere la voglia di comunicare con chi sta dall’altra parte, per renderlo completamente protagonista. La creatività è servita come strumento, ma per realizzare il progetto è stata necessaria la partecipazione attiva e volontaria dell’altro.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani e Gloria Marchesi

F. Jelmini InstagramGalleriaInterviste sulla creatività

Giovanna Di Rosa

Giovanna Di Rosa – Intervista sulla creatività

Giovanna Di Rosa è magistrato e Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano.  Come affermato da lei stessa, il suo incarico le piace molto perché nell’esercizio del suo ruolo ha la possibilità di esprimere la sua creatività, nonostante si tratti di un lavoro di grande responsabilità e accompagnato dal rischio di poter prendere decisioni sbagliate o di non riuscire a intercettare un particolare importante per una migliore visuale della situazione in esame.

Essendo questo un lavoro sull’uomo, la dott.ssa Di Rosa ritrova la creatività in tutti i compiti che è chiamata a svolgere. Ogni giorno si trova nella posizione di dover prendere delle decisioni che incideranno drasticamente sulla vita delle persone coinvolte e adempie al suo compito nella speranza di fornire la risposta più adatta ad ogni singola domanda. Ella ritrova la creatività proprio all’interno di questo tentativo di fornire una decisione che sia ritagliata e cucita nel migliore dei modi per la singola storia in esame, che oltretutto non è mai uguale rispetto ad un’altra storia anche in presenza di condizioni oggettive molto simili.

Secondo l’opinione dell’intervistata, in tutto il mondo della giustizia, anche se può suonare strano, deve essere costantemente applicata la creatività. Basti pensare all’indicazione secondo cui si deve cercare di adattare la norma al caso singolo, che altro non è che un’attività di interpretazione delle leggi. È un compito molto difficile che spesso espone alle critiche dei cittadini, i quali si chiedono come sia possibile che a due imputati che hanno commesso lo stesso identico reato vengano comminate due condanne differenti. Ciò è possibile in quanto ognuno ha la propria storia soggettiva alle spalle, le condizioni che lo hanno portato a delinquere sono differenti rispetto a quelle di qualsiasi altra persona e lo sono anche le modalità con cui il reato è stato commesso, il valore dell’oggetto che è stato utilizzato e una condizione diversa in cui si trova la vittima. Nel campo della giustizia, pensare in maniera creativa significa essere capaci di adattare il ragionamento scientifico e razionale del Diritto alla situazione specifica, in modo tale da far applicare, all’interno di un ventaglio di pene, quella più consona. È grazie a questo principio di azione che viene garantito il sistema della giustizia, in quanto si fa in modo che ad ogni colpevole venga data la punizione che si merita.

Il lavoro svolto dalla dott.ssa Di Rosa risulta essere un’attività interpretativa molto ricca in quanto le parole riportate all’interno delle leggi sono perentorie e pongono dei limiti, quasi come se fossero delle equazioni matematiche. Tuttavia, tra le stesse parole e la realtà concreta in cui dovrebbero essere applicate le leggi, l’immaginazione e la creatività trovano ampi spazi e permettono di applicare delle variazioni, le quali ovviamente devono essere ragionate e motivate.

Il compito del magistrato è quello di fare giustizia applicando la legge, rimanendo all’interno dei canoni prestabiliti ma cercando di modularli, arrivando così certe volte a soluzioni completamente opposte, all’interno di casi apparentemente identici, ma diversi sotto mille sfaccettature.

Tutto questo è il frutto di un’operazione creativa.

 

Elisabetta: Cos’è per lei la creatività?

Giovanna Di Rosa: Io penso che la creatività sia una capacità produttiva della ragione e della fantasia. Penso che la creatività sia un modo di guardare il mondo superando ciò che si vede e cercando di dare risposte diverse da quelle che sono immediatamente percepibili. La creatività è una forma di consapevolezza anche propria perché si dà nuova forma a quello che si vede e quindi ci si appropria di ciò che si vede o si pensa e lo si rende valore interiore. In conclusione, credo sia un modo di esprimere la propria libertà interiore.

 

Anita: Cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Giovanna Di Rosa: La forma tradizionale in cui si sviluppa la creatività è la forma artistica, ma in generale io credo che la creatività sia un modo di orientarsi della mente che genera idee per trovare soluzioni alternative. Credo quindi che si sviluppi in tutti gli ambiti e che non sia solo legata alla forma espressiva, si può anche tradurre in comportamenti tangibili. Per quanto riguarda le condizioni in cui si sviluppa credo che sia particolarmente importante un ambiente stimolante. Ci sono sicuramente persone che sono più propense, per propria natura, a mettersi in discussione e, facendo ciò, riescono a valutare le cose e a pensare in modo più ricco, originale e creativo rispetto a alla prima risposta. Ma credo che la stimolazione esterna possa aumentare le capacità creative anche di persone meno talentuose o con altro tipo di talenti.

 

Elisabetta: Quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Giovanna Di Rosa: In prima battuta, direi un cervello che lavora. Ma andando oltre, penso al mare. Il mare a prima vista può sembrare sempre uguale ma in realtà è in costante movimento e si può presentare in forme diverse. Ciascuno di noi può vedere il mare in questo movimento continuo e lo può personalizzare a seconda di come lo vuole fare proprio.

 

Anita: Che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

Giovanna Di Rosa: Parto dall’arte perché è la risposta più immediata che mi viene, ma la traspongo anche nel mondo quotidiano, in quello che stiamo facendo adesso. Secondo me, è un orientamento della mente che genera idee per trovare soluzioni e risposte alternative, anche utilizzando la fantasia.

 

Elisabetta: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per chi realizza un lavoro creativo?

Giovanna Di Rosa: Io penso che il riconoscimento altrui sia molto importante anche se credo che per alcune strutture di personalità, come per esempio le più chiuse o le più autonome, può essere meno significativo. Personalmente, credo che ottenere il riconoscimento degli altri significa percepire che gli altri hanno compreso quello che si voleva dire e quindi che c’è stato uno scambio. Il riconoscimento spesso è associato al gradimento ma io non credo sia solo questo, piuttosto implica la capacità di comprendere i messaggi mandati dall’artista e la possibilità di avere uno scambio con gli altri. Quindi fa parte della relazione sociale che è alla base di quello che fa qualunque artista.

 

Anita: Esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

Giovanna Di Rosa: Io non credo che la fruizione del prodotto creativo sia destinata solo agli altri, ma ritengo che sia destinata anche a sé stessi, poiché è un bisogno interiore di manifestarsi. Il modo ideale di fruirne credo sia quello di comprenderla a fondo, quindi di mettersi a disposizione con la volontà di ascoltare e di farsi trascinare da quello che è stato il prodotto creativo. Io credo che il principale destinatario sia colui che l’ha prodotto, il resto è l’insieme delle relazioni sociali a cui si vuole offrire questo prodotto. Di norma ritengo che il prodotto creativo sia rivolto a tutti e che non sia differenziato in base a singole categorie. Forse gli artisti che operano settorialmente si orientano verso i settori ai quali sono destinate le loro opere, per esempio immagino che la creatività per bambini sia difficilmente comprensibile dagli adulti, tuttavia anche in questo caso si possono trovare dei messaggi e dei contenuti che possono essere compresi da tutti.

 

Elisabetta: La creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Giovanna di Rosa: Assolutamente sì. Nella mia esperienza professionale ho visto che ci sono state molte iniziative e molti laboratori con questa funzione sociale all’interno delle carceri e sono stati costruiti progetti di vera e propria inclusione sociale. La creatività è una forma per conoscere sé stessi, esprimendosi tramite una tela o un foglio di carta.  La destinazione di questi laboratori creativi è stata quella dell’inclusione sociale ma anche dell’acquisizione delle competenze. La funzione sociale è anche realizzata, secondo me, dal contatto con la materia viva che aiuta ad organizzare la conoscenza e la coscienza propria perché ci metti qualcosa di tuo in ogni prodotto che realizzi. La funzione sociale si esplicita quindi nel far transitare all’esterno queste produzioni proprie, facendo così comprendere che si è tutti esseri umani. Infine, questi laboratori permettono anche di acquisire competenze che possono essere utilizzate per avere una seconda possibilità una volta concluso il periodo di reclusione, soprattutto quelli che hanno utilità più pratiche.

 

Anita: parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

Giovanna Di Rosa: finora abbiamo parlato di quella forma di creatività che è maggiormente legata alla consapevolezza del sé. Tuttavia, è necessario prendere in considerazione anche la creatività meno legata alla consapevolezza e, di conseguenza, maggiormente influenzata dall’emotività.  Quest’ultima è più sviluppata nel bambino ed è maggiormente istintiva, meno influenzata dalle sovrastrutture mentali, dalle abitudini e dalle esperienze pregresse. Progressivamente, con l’avanzare dell’età, l’atto creativo diventa sempre meno istintivo e libero e viene sottoposto alle esperienze di vita passate. Più l’individuo cresce, diventa adolescente e poi adulto, più viene addestrato a pensare e razionalizzare ciò che fa e meno riesce ad agire in maniera istintiva e creativa.

 

Elisabetta: in che modo la creatività può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Giovanna Di Rosa: partiamo dal presupposto che realizzare prodotti creativi significa dare vita ai propri pensieri ed esternarli. Offrire agli altri le creazioni personali, frutto del proprio mondo interiore, rende l’autore disponibile alla relazione con l’altro. Quindi credo che la creatività favorisca una migliore comprensione di se stessi e aiuti ad  aprirsi verso gli altri, a stabilire relazioni migliori, più prolifiche, più sincere e più genuine.

 

Anita: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Giovanna Di Rosa: anche rispetto a questa domanda ho parzialmente risposto prima. Abbiamo detto che la creatività è una qualità e un atteggiamento mentale che alcune persone possiedono sotto forma di dono naturale. Quest’ultime sono individui più estrosi, versatili e predisposti a manifestare se stessi attraverso la creatività.

Detto questo, credo che sia possibile stimolare alla creatività anche le persone meno propense ad essa. La creatività è una potenzialità di qualsiasi cervello umano e, se si spinge un individuo alla riflessione e alla messa in discussione dei suoi limiti, allora chiunque può essere portato alla manifestazione di questa potente qualità umana.

Inoltre la creatività, essendo uno strumento per lo sviluppo della personalità, è strettamente legata alla storia individuale di ciascun individuo. Certamente, chi è vissuto in condizioni di deprivazione affettiva, non credo abbia avuto la possibilità di sviluppare questo talento. Magari egli ha un mondo interiore ricchissimo ma, avendo avuto dei modelli di vita improntati solamente su rapporti autoritari non credibili e avendo avuto da sempre l’esempio di valori che vanno contro il rispetto delle regole, non può che avere una percezione alterata di cosa possa voler dire esprimere se stessi in maniera creativa.

Sono convinta che l’essere umano sia fondamentalmente buono. Non credo che esista il male predeterminato e penso che l’uomo sia buono per natura. È compito delle istituzioni cercare di risvegliare l’umanità di chi ha sbagliato attraverso la creatività.

 

Elisabetta: a scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Giovanna Di Rosa: la scuola è sicuramente il primo ambito all’interno del quale prende avvio l’esercizio alla creatività.

La scuola insegna che ci sono due tipi di approccio alla realtà. Il primo è quello matematico e razionale, secondo cui ci può essere un solo risultato corretto alle operazioni matematiche. Allo stesso tempo però, gli insegnanti abituano gli allievi ad essere mentalmente flessibili, spiegando loro che esiste un altro tipo di approccio. Questo viene presentato come maggiormente legato all’emotività, permette di cambiare prospettiva e potenzia l’intelligenza dei ragazzi, in quanto permette di avere numerosi angoli di prospettiva rispetto alla medesima questione.

 

Anita: pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Giovanna Di Rosa: certamente sì. Non solo perché favorisce l’interrogarsi su se stessi, sulla propria storia, su chi si è nel presente e sul proprio progetto di vita, ma anche perché, la modalità di espiazione della pena del condannato deve essere utile, altrimenti è solo una quantità di tempo fine a se stessa che non porta a nessun giovamento.

Gli anni di pena in carcere dovrebbero rappresentare un tempo contenitore della devianza, il quale offre reali possibilità di cambiamento e rieducazione. In caso contrario, il tempo della reclusione non porta a nessun giovamento anzi, favorisce un cambiamento in peggio, caratterizzato da rancore e frustrazione.

Per evitare il rischio di una pena inutile e senza contenimento della devianza, è necessario ricondurre il soggetto al suo progetto di vita.

Poco fa ho utilizzato l’immagine del mare per descrivere la creatività e questo perché immagino l’essere umano come immerso in un continuo flusso in divenire, all’interno del quale nessuno rimane sempre uguale e immobile.

Un’altra qualità dell’essere umano in cui credo fermamente è che l’uomo è capace di cambiare ed evolversi. Io non sono uguale alla persona che ero ieri. Le sollecitazioni di qualsiasi giornata, anche la più banale, portano indubbiamente alla riflessione e aumentano il nostro bagaglio di esperienze. Ciò fa sì che in ogni persona ci sia qualche cambiamento, positivo o negativo, rispetto alla giornata precedente.

Non avrebbe senso far trascorrere ai detenuti interi anni di reclusione senza impegnare positivamente il loro tempo. E allora cosa potrebbe essere utile per il condannato? Lo studio e la formazione, realizzate attraverso la creatività, costituiscono una forma di riparazione, la quale può aiutare a reinventare azioni utili per se stessi e di conseguenza per la collettività.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini

Giovanna Di RosaSui dirittiInterviste sulla creatività

Raul Montanari

Raul Montanari – Intervista sulla creatività

Raul Montanari è scrittore e docente di scrittura creativa. Spiega ai suoi allievi le tecniche applicate dagli scrittori. Si dedica allo studio teorico della creatività espressa attraverso la prosa narrativa e la sceneggiatura cinematografica. Con altri della sua generazione, ha attirato nel campo della narrativa un pubblico giovane che leggeva fumetti con un linguaggio molto avanzato e che era interessato ad espressioni anche estreme della narrativa. Si è espresso nel genere Noir, che si occupa del conflitto tra bene e male. Nel 1991 ha pubblicato il suo primo romanzo “Il buio divora la strada” portando il Noir all’attenzione dei grandi editori.

 

Gloria: Cos’è per te la creatività?

Raul Montanari: Ogni atto espressivo è creativo in sé. La scrittura creativa adopera una serie di stratagemmi perché è una creatività sottomessa a leggi molto precise volta a ottenere il massimo dell’efficacia per il lettore. Lo scopo? Che i sentimenti e i pensieri che l’autore vuole trasmettere diventino risonanti anche per il lettore, diventino pubblici, possano quindi avere un significato per gli altri. La creatività è una disposizione dello stare nel mondo molto diffusa. La creatività disciplinata, per potersi rivolgersi a un vero pubblico, comporta delle regole e difficoltà.

 

Arianna: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Raul Montanari: La creatività si esprime in vari ambiti. Nell’ambito della narrativa e dei formati espressivi del cinema e del fumetto ci sono due condizioni a monte dell’idea creativa e che appartengono alla persona creativa: uscire dalla propria vita ed incontrare la vita degli altri, perché la nostra vita non dà materiale sufficiente per scrivere un romanzo. Qui risiede anche la differenza tra prosa e poesia: poeti illustrissimi passano tutta la vita parlando solo di sé stessi, ma siccome nella poesia l’accento è messo sull’arte della parola, l’aspetto di apertura del mondo esterno può essere quasi superfluo. Invece, quando si scrive in prosa è impossibile scrivere solo attingendo alla propria vita; infatti, chi scrive vive, oltre alla sua vita, tutte le vite dei personaggi, e per poter moltiplicare i punti di vista occorre curiosità per la vita degli altri.

Per scrivere una buona prosa occorre attingere a tre magazzini: quello della propria vita, quello della vita degli altri che raccontano le proprie esperienze (e l’atto di ascoltare le storie degli altri è un’esperienza soggettiva) e infine quello comprendente tutto il resto (i libri che si leggono, i film che si vedono…).

Per fare un esempio, nel 2006 ho pubblicato un romanzo dal titolo “L’esistenza di Dio” il cui personaggio principale volevo fosse un ex detenuto, uscito dal carcere per presunto uxoricidio. Volevo che avesse una fobia e così ho esaminato le fobie che potessero andare bene per un personaggio del genere e ho pensato alla claustrofobia, la più temibile per un recluso. Nel primo magazzino sulla mia vita non trovavo niente su questa fobia, quindi ho esaminato il secondo magazzino e ci ho trovato mia madre, che mi ha parlato dei suoi problemi con la claustrofobia; nel terzo magazzino, attraverso ricerche, ho scoperto nuove curiosità su questo genere di paura.

Il secondo ingrediente a monte della creatività nella scrittura è il fascino per l’espressione di parola scritta che nasce leggendo: alle spalle di un grande scrittore infatti c’è sempre un grande lettore.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Raul Montanari: L’idea non ho mai capito da dove viene; sono sempre state usate metafore per descrivere lo scaturire del processo creativo, come ad esempio la metafora del Big Bang, ovvero qualcosa a cui nessuno ha assistito ma delle cui conseguenze noi tutti facciamo parte: non vedi nascere l’idea ma te la ritrovi lì.

L’idea può venire dalla vita o dalla narrativa. Ad esempio, nel mio ultimo romanzo, l’idea è nata da una ragazza che esiste realmente e che si è presentata alla mia porta per vendermi un giornale;  da questo episodio ho cominciato a chiedermi cosa potesse causare una simile epifania nella vita di un uomo solo; di solito ragiono per contrasti: cosa ci può essere di più contrastante tra una giovane ragazza raffigurante il massimo della socialità vendendo giornali alle porte delle case, e un uomo che si è chiuso a riccio nella sua solitudine?

 

Arianna: Che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Raul Montanari: Io mentre scrivo sto male. Il mio procedimento creativo è diviso in tre momenti: preparazione di circa un mese (scaletta cronologica, ricerche sui luoghi e su tutti gli aspetti coinvolti nella storia, creazione dei personaggi, scaletta dei capitoli), prima stesura in circa un altro mese, ed infine correzioni e aggiustamenti.

Il vero momento creativo è la prima stesura, il mettere sulle pagine delle parole che prima non esistevano. Questo atto di creazione lo reputo estremamente doloroso perché provoca una immensa astrazione dal mondo reale e lo stare dentro al mondo immaginario è alienante, corri anche il rischio di contaminare il mondo ideale col mondo reale e viceversa.

Diventi un vampiro della vita perché succhi energie alla vita per metterle nelle pagine del tuo romanzo.

Una volta concluso il romanzo sento delle dinamiche bellissime di rispecchiamento, mi rivedo nelle mie pagine. Ma anche il mancato rispecchiamento provoca un piacere narcisistico: anche se si racconta un episodio, una paura, un sogno che appartengono ad un’altra persona, lo si fa con le proprie parole.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso e sulla percezione dell’autore in generale?

Raul Montanari: La dimensione dell’autore ha conservato un prestigio enorme nonostante la scrittura sia antichissima, ormai, e nonostante il rapporto con il destinatario abbia degli spazi sempre più ristretti perché le persone hanno sempre meno tempo per leggere. Rimane questo fascino perché si sente che questa forma di creatività che passa attraverso la parola ha un carattere esplosivo.

 

Arianna: Nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Raul Montanari: Per quanto riguarda le persone che entrano come personaggi nelle pagine, emerge l’aspetto vampiresco di cui parlavo prima: le persone sono spesso deluse da come vengono rappresentate in una narrazione. D’altronde, come scrittore tu non devi solamente obbedire alle leggi della vita ma anche alle leggi della narrazione: se ti serve che un personaggio sia stronzo e che metta in difficoltà il protagonista, devi fargli fare queste cose, è la storia stessa che ti detta le regole. Quando scrivi, oltre ad incontrare la vita degli altri, incontri anche una logica interna della storia che stai scrivendo e questa logica ti costringe a fare delle scelte, che spesso lasciano insoddisfatta la persona che si ritrova dentro il racconto.

Per quanto riguarda il rapporto con gli altri più in generale, io credo che la narrativa predisponga ad un’elevata capacità empatica. Una delle cose più difficili da fare quando si scrive una storia è per esempio tratteggiare il ruolo dell’antagonista, personaggio fondamentale perché la narrazione nasce sempre da un conflitto. Se si volesse fare una sintesi della narrativa, infatti, si potrebbe dire: un personaggio vuole far qualcosa ma fatica a farlo perché qualcuno si mette in mezzo. Per quanto riguarda l’ostacolo, vi possono essere tre tipi: l’antagonista, l’ambiente o un conflitto interiore. Tuttavia, nella maggioranza dei casi i diversi tipi di ostacoli vengono personificati in un antagonista: per esempio, si potrebbe dire che, se abbiamo un protagonista detenuto, il carcere è il suo ostacolo ambientale perché pone dei limiti fisici alla sua libertà. Tuttavia, è più facile identificare l’antagonista in una guardia sadica e cattiva, in questo caso l’ambiente diventa una persona.

 

Gloria: Quanto è importante l’apprezzamento degli altri per il prodotto creativo?

Raul Montanari: Varia molto, sia in base all’obiettivo dell’autore sia in base al tipo di espressione che ha scelto. Io conosco persone che producono atti creativi, i quali, ai loro occhi, hanno valore creativo in sé. Queste persone sono capaci di mettersi in una relazione con il loro prodotto creativo che non è mediata dal riconoscimento degli altri. Questo vale molto di più per la scrittura poetica, mentre la scrittura in prosa ha bisogno di un pubblico. A livello puramente economico, pubblicare un romanzo con una casa editrice ha dei costi e se tu/il tuo libro non piace, l’editore non guadagna nulla e tu ti estingui come narratore. Non ti pubblicano più! Per un romanziere quindi il pubblico è necessario. Ho conosciuto persone che avevano un rapporto molto intimo con il prodotto della loro creazione tanto da essere contenti così. Il riconoscimento altrui è un valore aggiuntivo di cui chiunque è felice. Sostanzialmente nessuno scrive solo per sé stesso, sostenere questo è solo un atteggiamento difensivo, paura del giudizio.

 

Arianna: Chi sono i principali fruitori del rapporto creativo e come ne traggono giovamento?

Raul Montanari: Nel caso della lettura ci sono lettori di ogni tipo, di conseguenza è impossibile piacere a tutti. In particolar modo è impressionante come quello che tu scrivi possa suscitare reazioni diverse nelle varie persone e soprattutto reazioni diverse da quelle che tu autore ti aspetti. Ogni cosa che scriviamo è sottoposta al famoso gioco della teoria dell’informazione: seduti intorno a un tavolo, tu riferisci una frase all’orecchio di una persona, la quale, a sua volta, la ripete al suo vicino e così via, fino a tornare a te ed è una frase completamente diversa dall’originale. Nella scrittura affrontare il giudizio degli altri porta anche a scoprire come ogni persona vedrà la tua narrazione a modo suo e prenderà dalla narrazione ciò che è entrato in contatto, in modo abrasivo o sintonico, con lei.

 

Gloria: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Raul Montanari: La prima cosa è la solitudine: l’atto creativo è un atto di raccoglimento. Sia la scrittura che la lettura sono atti di isolamento, attività che nascono come antisociali. Al contrario di altre attività creative come guardare un film, ascoltare una canzone oppure visitare una mostra, le quali possono essere svolte in gruppo, la scrittura prevede un rapporto uno a uno. Tutto ciò che avviene prima (ricerche, immedesimazione negli altri) e dopo (incontro con i lettori) sono invece attività sociali.

 

Arianna: Pensi che esista una relazione tra depressione e creatività?

Raul Montanari: Negli anni ’90 ho fatto molte traduzioni letterarie. Il primo libro che ho tradotto era un memoir sulla depressione scritto da William Styron. Il libro s’intitola “Un’oscurità trasparente” ed è la storia personale della depressione dell’autore. Questa storia racconta dello sprofondamento nella depressione e poi della rinascita attraverso due espressioni di tipo creativo: la scrittura e la musica. Da una parte, infatti, l’atto della scrittura implica apertura e fiducia, oltre ad aiutarti ad oggettivare certe tensioni e conflitti interiori rappresentandole su carta. L’oggettivazione permette di attribuire le tue sofferenze a qualcun altro e di conseguenza riesci ad avere una visuale diversa. La musica, d’altra parte, ha permesso all’autore di riconoscere l’entità della sua malattia e lo ha spinto alla ricerca di un percorso di salvezza. In particolar modo, l’ascolto di un brano musicale estremamente triste ha suggerito a Styron una distinzione tra tristezza e depressione. La tristezza è un sentimento nobile e necessario per l’uomo, al contrario la depressione è un aspetto autodistruttivo, da cui scappare.

 

Gloria: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Raul Montanari: Secondo la teoria dell’opera aperta di Umberto Eco, l’atto creativo non è mai concluso. Manganelli diceva che pubblicare un libro è un modo per disfarsene, altrimenti vai avanti a correggerlo all’infinito. Il prodotto creativo può venire cristallizzato ad un certo punto, l’atto creativo al contrario è energia infinita. Nel mondo della scrittura abbondano metafore di tipo procreativo: è normale infatti paragonare il libro ad un bambino e comparare il lavoro di scrittura ad una gravidanza. Sono tutte metafore che indicano un apparentamento analogico tra la creatività universale e il tuo atto creativo personale.

 

Arianna: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

Raul Montanari: Sì, sotto ogni punto di vista. Tutte le funzioni dei prodotti creativi sono sociali; non ce n’è una che non sia sociale. Non siamo capaci di vivere senza “narrativizzare” il mondo: trasformiamo sempre il mondo in un racconto. Se guardiamo noi stessi e la memoria che abbiamo di noi stessi, possiamo notare in che modo vediamo la nostra vita: come fosse un romanzo, con i suoi personaggi, i suoi colpi di scena, i capitoli, le svolte, i cambiamenti di ruolo…

Dei nostri primi anni di vita, non abbiamo un ricordo così ben strutturato. Si potrebbe dire che viviamo i nostri primi anni con un atteggiamento più poetico che narrativo; abbiamo delle poesie, dei flash, delle piccole immagini che contengono un’emozione. Cominciamo ad organizzare narrativamente lo sguardo che abbiamo sulla nostra stessa vita intorno ai 9-10 anni. L’atteggiamento narrativo è antropologico, connaturato alla specie umana, che applica questo atteggiamento a tutta la realtà esterna. Perfino il complottismo è indizio della nostra tendenza a narrativizzare: abbiamo una tale ripugnanza a pensare che le cose possano accadere senza che ci sia dietro una trama, che ci attacchiamo anche alle spiegazioni più improbabili per costruirci una storia. Questo pensiero complottista è la versione a volte comica e a volte grottesca di una propensione narrativa.

 

Gloria: Pensi che la creatività sia un dono naturale e dunque un privilegio di pochi oppure una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Raul Montanari: Penso che la creatività sia accessibile a tutti, altrimenti non avrei la scuola di scrittura creativa. Il talento esiste, ma l’atteggiamento creativo è universale. Ciò che fa davvero la differenza non è il talento, ma la determinazione, che è il vero carburante. La determinazione non va però confusa con la mitomania, che fa ottenere una soddisfazione parziale, temporanea, allucinatoria, ma spegne la volontà.

 

Arianna: Ritieni che la creatività possa avere un ruolo utile a scuola o nelle attività di recupero del condannato?

Raul Montanari: Sì, sicuramente. Innanzitutto, dal punto di vista psicologico, mette in moto dei meccanismi salutari come l’oggettivazione, il tentativo di entrare nei panni degli altri, che aiuta anche nell’organizzazione del proprio vissuto personale. Quando si rappresenta l’altro, naturalmente non in modo stereotipato in base alla sua funzione narrativa, ma come persona nella sua totalità, aiutiamo noi stessi a percepire il nostro vissuto, creando una nuova consapevolezza più salutare di quello che è il nostro ruolo nelle vite degli altri. Anche l’aspetto narcisistico non va trascurato: l’innalzamento dell’autostima che può seguire l’atto creativo può essere propedeutico a qualsiasi tipologia di recupero.

Intervista ed elaborazione di
Arianna Picco e Gloria Marchesi

 

 

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