Interrogarsi sulla trasgressione

Anita Saccani, Matricola: 792514
Tirocinio professionalizzante – Albo A, Area Sociale
Tipo di attività: Stage esterno
Periodo: 15 Aprile 2021 – 14 Ottobre 2021
Titolo: Interrogarsi sulla trasgressione

Caratteristiche generali dell’attività svolta
Ho svolto il secondo semestre del mio tirocinio professionalizzante presso il Gruppo della Trasgressione, una realtà composta da studenti, detenuti e liberi cittadini, fondata e coordinata dal Professor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta. L’associazione opera nelle case di reclusione di San Vittore, Bollate e Opera, e nel territorio milanese, con l’obiettivo di favorire la collaborazione e il dialogo tra detenuti e cittadini.

Il Gruppo della Trasgressione utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza per generare riflessioni sull’essere umano e sulla società in generale. Lo scambio reciproco di pensieri e idee favorisce la costruzione di un rapporto sincero tra i membri del gruppo, vengono abolite le etichette, non ci sono più detenuti, studenti, ex-detenuti o parenti di vittime, ma ci sono cittadini che insieme lavorano per costruire una società in continua evoluzione e miglioramento. È fondamentale ricordare che la trasgressione è una componente presente nell’animo umano e non basta “rinchiuderla” in una cella e dimenticarsi della sua esistenza per far sì che cessi di esistere, al contrario è necessario interrogarsi su di essa, formulare domande sulle sue origini e i suoi sviluppi e, in seguito, proporre risposte che possano aiutare a comprenderla e, nel possibile, a contrastarla.

Il particolare tipo di approccio del Professor Aparo consente ai membri del gruppo di interrogarsi su loro stessi, sulle proprie fragilità e certezze, sulle esperienze di vita e sui valori in cui ognuno crede, consentendo così un percorso di crescita e di conoscenza del sé atto a comprendere e riconoscere le responsabilità che ogni persona possiede nei confronti della società, sia come individui che come collettività. Le iniziative del Gruppo della Trasgressione mirano quindi a costruire relazioni e dinamiche di gruppo che consentano a un detenuto, o ex-detenuto, di sentirsi parte integrante della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte
Nel Gruppo del Trasgressione il tirocinante è prima di tutto un membro del gruppo
; quindi, è richiesta la sua partecipazione attiva a tutte le attività e iniziative del gruppo. A livello pratico, inizialmente ci si occupa della stesura dei verbali degli incontri; in seguito, man mano che si prende confidenza e conoscenza della filosofia del gruppo, si partecipa ai vari progetti in corso. Nel mio caso ho partecipato alle Interviste sulla Creatività e alla costruzione di progetti di prevenzione della devianza da attuare nelle scuole di Rozzano. Inoltre, lo studente è invitato a contribuire alle riflessioni trattate dal gruppo producendo degli scritti argomentati e coerenti, che verranno in seguito pubblicati sul sito.

Personalmente, ho avuto anche la possibilità di partecipare agli ultimi mesi di vita della Bancarella di Frutta & Cultura che si teneva il sabato mattina al mercato di Viale Papiniano, dove studenti e detenuti lavoravano insieme per promuovere le attività e ampliare le reti di conoscenze del gruppo, oltre che per vendere la frutta.

Infine, ho partecipato ai vari eventi organizzati dal gruppo durante il periodo del mio tirocinio, quali:

  • Il Concerto della Trsg-Band a Parabiago (24 Giugno)
  • L’evento di Pulizia del Parco delle Memorie Industriali di Milano e la messa in scena dello spettacolo “Il mito di Sisifo” (17 e 18 Luglio)
  • L’incontro tra Scout e detenuti nella casa di reclusione di Opera (18 Settembre)

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati
Gli incontri tradizionali del Gruppo della Trasgressione si tengono il Lunedì e il Martedì (14-17). Durante gli incontri vengono trattati diversi temi e ognuno può contribuire alla discussione, arricchendola con le proprie riflessioni. Quando ho iniziato il tirocinio, l’incontro del Lunedì verteva sulla “Banalità del Male”: ogni settimana si sceglieva un film da vedere e durante l’incontro si sviluppavano riflessioni intorno al film scelto. È stato molto arricchente, soprattutto perché sono state analizzate varie strade che portano al “male”: dall’abuso di sostanze stupefacenti alla carenza di affetto da parte dei famigliari, dalla nascita in contesti socioculturali sbagliati alle micro-scelte che portano sulla via della perdizione. Gli incontri del Martedì invece erano focalizzati sul rapporto “Genitori e Figli”: venivano quindi discusse le dinamiche famigliari che portano alla costruzione di rapporti difficili tra genitori e figli, soprattutto quando il genitore è un detenuto e, di conseguenza, è impossibilitato ad esercitare il proprio ruolo di genitore.

Successivamente, con l’attenuarsi della situazione pandemica, mi è stato possibile frequentare anche gli incontri interni alla casa di Reclusione di Opera, sia con i detenuti in alta sicurezza che con i detenuti comuni. Gli incontri interni sono molto simili come “modus operandi” agli incontri esterni: detenuti e tirocinanti si confrontano sui vari temi che tratta il Gruppo della Trasgressione e in questo modo contribuiscono alla crescita reciproca. Il detenuto, che spesso ha il doppio dell’età del tirocinante, condivide pezzi della sua vita ed elabora riflessioni sulle possibili origini della propria devianza e in che modo il percorso fatto all’interno del carcere lo abbia aiutato a prendere coscienza di sé stesso e delle proprie azioni; il tirocinante, d’altra parte, offre un punto di vista giovane, sincero e da esterno ai fatti, cercando di silenziare i pregiudizi e di mettersi in gioco attivamente.

Inoltre, ho partecipato anche al progetto delle “Interviste sulla Creatività”: sono state progettate interviste da rivolgere ad artisti, figure istituzionali e giornalisti, utilizzando la creatività come tema centrale. Lo scopo di questo progetto è duplice: da una parte, si vogliono evidenziare le funzioni che la creatività può avere nella prevenzione della devianza e nelle attività di recupero di un detenuto, dall’altra si cerca di suscitare un maggiore interesse da parte del “pubblico” verso il mondo della devianza anche per fare prevenzione e per poter divulgare ed ampliare le relazioni sociali del gruppo.

Infine, ho avuto la possibilità di partecipare alla stesura di un progetto di prevenzione della devianza nel comune di Rozzano. I membri del gruppo, insieme ad altre associazioni e a figure istituzionali, hanno progettato attività utili a informare i cittadini sulle varie forme di devianza e a comprendere come prevenirla, con particolare riguardo ai più giovani. A questo proposito, è stato organizzato un ciclo di incontri con due scuole superiori che partirà a Novembre e vedrà collaborare studenti, detenuti ed ex-detenuti nel cercare di comprendere le varie definizioni di devianza e, soprattutto, come contrastarle.

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte
Il professor Angelo Aparo è il fulcro del Gruppo della Trasgressione. È presente ad ogni incontro e sprona continuamente gli studenti tirocinanti a togliersi di dosso fin da subito la definizione di “tirocinanti” e ad essere membri attivi del gruppo, invitandoli a contribuire con riflessioni e scritti personali. Si mette personalmente in contatto con i tirocinanti e chiede aggiornamenti continui sulle attività svolte e sull’andamento dei progetti.

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)
Trovo estremamente difficile definire e catalogare tutte le conoscenze che ho acquisito durante questo tirocinio. In linea generale, ho compreso l’importanza e le funzionalità di un lavoro di gruppo: le relazioni tra i membri devono essere incentrate sul rispetto, sull’ascolto reciproco e sulla presenza costante, in questo modo si crea un clima positivo e stimolante.

Inoltre, ho compreso come sia necessario utilizzare le proprie energie mentali per costruire, analizzare ed elaborare una linea di pensiero che sia coerente con la persona che si crede di essere. Ho passato molte ore a rielaborare le varie discussioni avvenute durante gli incontri, cercando di analizzarle attraverso diversi punti di vista per arrivare a formulare un mio pensiero personale. Il Gruppo mi ha insegnato che ad analizzare le situazioni mettendosi nei panni dell’altro: questo permette di non cadere nell’errore di cercare verità assolute e consente di elaborare al meglio ogni aspetto di una determinata situazione.

Infine, mi sono avvicinata al mondo carcerario e ho avuto la possibilità di conoscere meglio sia le nozioni prettamente tecniche, sia i percorsi educativi che sono presenti all’interno. Credo che la cosa più significativa che ho imparato sia l’importanza di non parlare del carcere durante gli incontri con i detenuti: in questo modo, loro possono sentirsi liberi anche dentro il carcere; parlare troppo delle ingiustizie subite all’interno, come sostiene il dott. Aparo, rende i detenuti più rabbiosi verso le istituzioni e, spesso, dispensa dall’impegno su riflessioni e strategie volte al miglioramento del sé.

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)
In primo luogo, l’esperienza al Gruppo mi ha permesso di sviluppare un ascolto empatico e “puro” dell’altro. La condivisione di storie di vita così diverse dalla mia mi ha aiutato ad abbattere i pregiudizi e a cercare di sviluppare relazioni fondate sul rispetto reciproco. In secondo luogo, partecipare alla stesura dei verbali e alla trascrizione di interviste e testi di detenuti, mi ha consentito di migliorare la mia capacità di scrittura, aiutandomi nella rielaborazione dei contenuti. Infine, mi sono anche avvicinata al mondo organizzativo, imparando come si costruiscono progetti di prevenzione e di miglioramento del benessere.

Caratteristiche personali sviluppate
Questo tirocinio mi ha permesso di crescere professionalmente mostrandomi la psicologa che vorrei diventare, ma soprattutto mi ha aiutato nella crescita personale. Ho imparato che ci vuole del tempo per conoscere le diverse realtà e che non sempre la prima impressione è quella giusta.

Il Gruppo mi ha spinto a prendere conoscenza di me stessa, spronandomi ad uscire dal mio guscio e ad affrontare le mie fragilità senza vergognarmi di essa. Trovo enormemente soddisfacente l’essere riuscita a combattere la mia ritrosia a parlare in pubblico ed essere riuscita ad intervenire senza il bisogno di stimoli esterni.

Il lavoro prodotto dal Gruppo della Trasgressione dimostra come ognuno di noi può e deve avere un ruolo nella società e, di conseguenza, come siamo tutti responsabili nella costruzione di un percorso volto al miglioramento. La società ha il dovere di stimolare chiunque a sentirsi parte di essa, partendo da chi è sul gradino più basso e coinvolgendolo attivamente nello sviluppo di una responsabilità collettiva: solo così saremo in grado di costruire un futuro migliore, per tutti.

Il mio mito

Caro Dott. Aparo,
mercoledì mi ha chiesto di produrre uno scritto sulla mia vita “vissuta”.

Non sono tanto bravo con carta e penna, ma gli incontri con il gruppo mi stimolino tanto e trovo giusto almeno provarci, non solo per produrre uno scritto, ma più che altro per imparare che ogni limite affrontato può essere anche superato.

Vengo dalla Sicilia, più precisamente da Catania, terra che lei conosce abbastanza bene (abbastanza perché lei rappresenta la parte per bene, io quella fatta di male: una moneta che mostra le due facce).

Quando avevo quattro anni mamma e papà hanno divorziato, e si sa che queste decisioni, quando vengono prese non civilmente, finiscono per ripercuotersi sui figli. Io e mia sorella siamo cresciuti con mia mamma, donna che ha sempre lavorato per provvedere ai nostri bisogni; quindi, per motivi nobili diventava assente nella nostra vita quotidiana, diversamente da mio padre che era assente semplicemente per una sua scelta.

Frequentavamo la scuola delle suore proprio per le necessità lavorative di mia mamma, la scuola delle suore infatti ci teneva impegnati per tutto il giorno, dalle 8.30 alle 18.30 e sapere che noi eravamo a scuola permetteva a mia mamma di sentirsi sicura.

Purtroppo, tante volte si guarda al problema più lontano e non a quello che abbiamo davanti agli occhi, infatti la possibilità di una mia devianza era proprio in famiglia. Mio cugino, il nipote di mio padre, era più grande di me e aveva una visione della vita distorta, deviante: era un rapinatore. Purtroppo, nel nostro contesto sociale è più facile nascondere una devianza che una cosa buona. Con mio cugino ci trascorrevo tanto tempo, ero affascinato da lui, dal suo modo disinvolto che aveva verso la vita quotidiana. Io non ero un bambino stupido, anzi ero molto sveglio: nel quartiere dove sono cresciuto, o eri furbo o eri scemo.

Una volta iniziate le scuole medie mi sono sentito più adulto, in grado di scegliere la mia vita; mentre in me crescevano tutte queste domande, un giorno arriva una risposta tanto concreta: ammazzano mio cugino. In quel momento in me entrò il buio totale, l’odio: il male peggiore. Era stato ucciso il mio idolo, il mio mito, quello che aveva dato un senso a tutto quel vuoto della mia vita.

Da quel momento in me era sparita ogni traccia di quel bambino dalle scelte insicure: sapevo cosa volevo, vendicare mio cugino, l’unico modo per scacciare quel dolore che premeva dentro.

Dopo un po’ anche a scuola la mia rabbia era padrona, infatti alla prima occasione è emersa, esplosa. Una convocazione con la preside per un mio comportamento in classe fu l’occasione per farmi allontanare dalla scuola: alzai le mani sulla preside.

Il mio allontanamento da scuola per cinque anni e gli impegni lavorativi di mamma favorirono la mia “libertà”. Ho iniziato a vivere la strada, meditare sempre di più la mia vendetta. Da quel momento in poi la mia vita è stata un continuo progredire verso la delinquenza, affinché chi della strada era padrone potesse accorgersi di me. Con gli anni si sono accorti di me, del dolore che avevo dentro, della rabbia e dell’odio cresciuto in me, della mia sete di vendetta, alla quale non ho nemmeno provato a resistere quando se ne è presentata l’occasione. Il giorno in cui ho ucciso l’uomo che aveva ucciso mio cugino, mi sono sentito bene.

La mia vendetta era stata fatta, ma anche il mio futuro era stato segnato.

Angelo Cacisi

Percorsi della devianza

Il bambino che non sono mai stato

Buongiorno a tutti, sono Nunzio. Ultimamente al gruppo si è parlato molto del contesto sociale dal quale proviene una persona e delle scelte di “vita”. Ripenso alla mia adolescenza deviante e, in fondo, non vissuta: collegio, carcere minorile e a San Vittore a 20 anni. Ripenso a quello che mi ha portato in collegio, a quello che poi ha permesso alla mia rabbia di prevalere su quella che poteva essere un’infanzia più tranquilla. Ricordo che, in comune con quasi tutti i bambini del collegio, avevo i genitori separati e trascorrevo i weekend uno con mamma e uno con papà, alternandoli. Nelle volte in cui toccava al secondo, tante volte quel weekend si trasformava in paura, orrore, attese varie e alla fine pure in realtà: mio padre non ci veniva mai a prendere, stavamo lì alla finestra a vedere gli altri che andavano a casa… E stai lì a distrarre il mio fratellino e consolarlo.

Quando andavo con mamma a casa sua, c’era sempre suo fratello, che ai tempi era un delinquente affermato, uno dei capi della zona di Giambellino. Con la sua presenza e il suo “affetto”, riusciva a mettere in ombra l’assenza di mio padre, mi sentivo sicuro: il suo essere presente anche economicamente mi portava a pensare, sognare che anch’io un domani avrei potuto prendermi cura di mamma e del mio fratellino.

Qualche anno dopo feci la mia prima esperienza al Beccaria (carcere minorile) per furto con altri cinque ragazzi. Arrivati lì, neanche il tempo di entrare che le guardie mi fecero sapere che mio zio Michele aveva detto di stare tranquillo, che tra pochi giorni sarei tornato a casa e che lui era molto orgoglioso di me. Oltre al messaggio, mi depositò un milione di lire sul libretto, per poter aiutare qualcuno che era in difficoltà: una cosa normale per uno come lui, entusiasmante per me. Penso, anzi oggi ne sono certo, che il carcere minorile sia la scuola di delinquenza più grande in assoluto, quella che forma un vero delinquente. La cosa che mi colpì di più in tutto questo, che mi rese orgoglioso di me stesso, fu la considerazione che quel falso “mito” aveva da parte di tutti: sempre più spesso dove andavo mi sentivo dire non che ero il figlio di Giovanni, ma il nipote di Michele.

Questa è stata la costruzione del “mito” di me stesso. Inutile raccontare quanto la mia vita criminale sia stata sempre a crescere, tant’è che oggi sono un ergastolano. Non do minimamente colpa a mamma o papà o alla compagnia; mamma lavorava dalla mattina alla sera per non farci mancare nulla, papà aveva una piccola impresa artigianale e mi ha sempre voluto al suo fianco (solo al lavoro) però io avevo “scelto” altro e tutt’ora ne pago le conseguenze. Però, come dice il Dottor Aparo, col tempo trovi quello che coltivi nell’orto. Oggi, l’importante è che uno, dalle sofferenze che ha creato e sta patendo, trovi il modo per costruire un presente meno cupo, come le tante mattine che mi alzo, girando e camminando, ammazzando il tempo per anni, non giorni, senza meta.

Oggi quando sento dire che il contesto sociale è il “motivo” di devianza, mi fa un po’ rabbia, anche se, a guardarla così, il contesto dove sono cresciuto sarebbe per me un’attenuante per i reati che ho commesso. Penso che il contesto sociale possa favorire la devianza, tenendo però presente che la scintilla è dentro di noi. Sicuramente oggi ho la consapevolezza di riconoscerla nella rabbia accumulata da bambino, assieme alla delusione di un padre assente che potevo solo immaginare, mentre aspettavo alla finestra tra la rabbia e le lacrime che rendevano buia anche una giornata di sole.

Mercoledì, come altre volte, il Dottor Aparo ha notato che sembra che io non partecipi agli incontri. Le chiedo scusa, questa non è una mia scelta, ma la voglia di capire, di imparare, di riflettere e di guardarmi più in profondità. Come vede non lascio tutto al tavolo: lo porto con me, in me, in quello spazio vuoto che è il carcere, per riflessioni come queste. Scrivere è un modo certamente più facile per me, che non nascondo di essere un po’ timido, ma sono più concreto con carta e penna, perché mi aiuta anche ad ascoltare me stesso come non avevo mai fatto prima: fragile, debole, ma anche tanto curioso di scoprire e di scoprirmi curioso come quel bambino che non sono mai stato.

Nunzio Galeotta

Percorsi della devianza

Andrea Gianni

Andrea Gianni – Intervista sulla creatività

Andrea Gianni è un giornalista e si occupavdi temi diversificati inerenti alla cronaca giudiziaria, al mondo del lavoro e all’economia. Secondo l’intervistato, nel suo lavoro è fondamentale la capacità creativa, in quanto tutti i giorni deve trovare il modo per scrivere una notizia che altri giornalisti non hanno intercettato o, al contrario, una notizia largamente diffusa che deve essere riportata in maniera originale rispetto ad altre testate giornalistiche. Ogni giorno ha davanti a sé una pagina bianca di giornale da riempire e deve andare alla ricerca di una notizia interessante da raccontare, con l’obiettivo di attirare il lettore con un articolo sensato e non ripetitivo. Secondo Andrea Gianni però, la creatività nel suo lavoro si esprime anche nella capacità di risolvere problemi, come può essere, per esempio, l’andare alla ricerca della fonte più credibile di informazioni su cui poi scrivere la notizia.

 

Anita: Che cos’è per te la creatività?

Andrea Gianni: Definirei il concetto di creatività riportando ciò che fanno i miei due figli piccoli, uno di due anni e l’altro di sei mesi. I bambini sono pieni di creatività e tutto ciò che fanno è da intendersi come azione creativa. La creatività quindi, secondo me, è un’attitudine con cui si nasce, ma che tuttavia si perde crescendo. Sarebbe utile per ciascuno di noi cercare di prendere parte ad iniziative creative e sviluppare progetti che ci permettano di coltivarla durante l’intero arco della vita.

 

Elisabetta: Cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Andrea Gianni: La creatività scatta, in primo luogo, in una situazione di bisogno o in un contesto che in qualche modo riesce a rompere gli schemi della quotidianità. Per esempio, per quanto concerne la mia persona, credo che la creatività scatti dal mio soggettivo bisogno di esprimere qualcosa, attraverso metodi, strumenti e linguaggi che già possiedo, oppure andando alla ricerca di nuove forme di espressione. Anche per quanto riguarda lo sviluppo della creatività penso che esso sia favorito da contesti e situazioni di bisogno. Inoltre, per far sì che la creatività si sviluppi in modo prolifico, non è per forza necessario un ambiente ricco di stimoli. Infatti, una persona si può trovare anche in un ambiente sterile dal punto di vista creativo e proprio questo particolare contesto potrebbe indurla a cercare di renderlo fecondo. Questo diverso approccio all’ambiente circostante dipende dall’atteggiamento soggettivo di ogni singola persona.

 

Anita: Quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Andrea Gianni: Pensando al mio settore, mi viene in mente l’immagine di un foglio bianco da riempire e credo che la creatività possa essere rappresentata come la capacità di collegare insieme diversi spunti e riflessioni e riuscire a dargli un senso.

 

Elisabetta: Che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?

Andrea Gianni: La conseguenza principale di un approccio creativo alla vita è sicuramente un miglioramento della propria autostima e della propria immagine. Questo perché, dopo aver portato a termine un atto creativo, è inevitabile che la persona si senta meglio, in qualche modo più soddisfatta e appagata. Ciò vale sia nel rapporto con se stessi, sia con gli altri e, come se ciò non bastasse, l’azione creativa può portare benefici sia alla persona che la compie, sia all’individuo che la riceve o la osserva.

Se penso al mio lavoro di giornalista è chiaro che ogni atto creativo ha delle conseguenze benefiche per me in quanto, una volta terminato di scrivere il pezzo, mi sento appagato, soddisfatto e capace, ma provoca dei riscontri positivi anche nel caso del lettore, il quale apprende una notizia a lui sconosciuta o, se non altro, scritta in maniera originale e comprensibile. Io penso che la creatività abbia sempre delle conseguenze positive.

 

Anita: quanto è importante il riconoscimento degli altri per chi realizza un prodotto creativo?

Andrea Gianni: il riconoscimento degli altri è sicuramente molto importante per l’autore. L’atto creativo è difficilmente fine a se stesso ed è sempre rivolto ad una fruizione da parte di qualcuno. Il riconoscimento degli altri ricopre certamente un ruolo considerevole all’interno del processo creativo, da cui le frustrazioni di un artista che non si sente riconosciuto e di uno scrittore che non si sente apprezzato.

 

Elisabetta: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

Andrea Gianni: mi risulta difficile pensare ad un modo universale di usufruire del prodotto creativo, in quanto dipende dai singoli ambiti. Se penso per esempio al mio campo professionale, credo che il metodo migliore di fruizione di un articolo creativo si riferisca non tanto alle caratteristiche peculiari della persona che lo legge, quanto a quelle dell’ambiente in cui esso viene letto, il quale deve permettere al lettore di mantenere l’attenzione. Sicuramente è meglio leggere un articolo di giornale interessante e creativo in riva al mare, in silenzio e con la possibilità di avere il tempo necessario per riflettere su ciò che si è letto. Oppure seduti ad un tavolo di un bar mentre si beve un caffè, che sicuramente è una modalità di fruizione migliore rispetto a quella che si verifica quando un articolo di giornale viene letto di fretta in metropolitana.

I destinatari sono tutte le persone in generale, il pubblico in toto, in quanto credo che, quando un autore compie un atto creativo, difficilmente lo immagina come rivolto solo ad uno specifico settore del pubblico. Per esempio, quando uno scrittore realizza un libro, la sua ambizione è quella di raggiungere e di comunicare con una fetta della popolazione il più ampia possibile. Deve per forza essere così, altrimenti rimane un gesto creativo e artistico confinato ad una nicchia specifica e all’interno di un percorso già tracciato.

 

Anita: la creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Andrea Gianni: sì, sicuramente ha una funzione sociale. Tanto per citarne alcuni, molto importanti sono i progetti con i disabili o con gli alunni all’interno delle scuole. In questi contesti è facile trovare numerosi progetti e attività che si pongono come obiettivo quello di sviluppare la creatività fin dai primi mesi di vita.

La creatività ricopre una funzione sociale importantissima, in quanto senza di essa saremmo dei robot che si limitano a lavorare, mangiare e dormire. Inoltre, ha una funzione sociale utile non solo per gli utenti che fanno parte categorie svantaggiate ma, al contrario, per tutti i cittadini.

 

Elisabetta: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente, per la persona adulta?

Andrea Gianni: Secondo me, per il bambino tutto è creativo: se penso alla mia esperienza pratica con i bambini, il fatto di riuscire a gattonare o di riuscire a superare un ostacolo per arrivare ad un giocattolo è tutto un atto creativo perché rappresenta un modo di risolvere i problemi nella maniera più efficace possibile. L’adolescente invece si trova in una fase di mezzo tra la perdita della creatività “pura” del bambino e il bisogno di ricercare una creatività che possa poi accompagnarlo nell’età adulta. Io credo che per la persona adulta sia più difficile sviluppare la creatività perché non si hanno strutture intorno che aiutino a incentivare la propria creatività e si è lasciati un po’ a sé stessi.

 

Anita: E in che modo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Andrea Gianni: Secondo me, l’incidenza della creatività nelle relazioni sociali è molto importante. L’atto creativo è sempre rivolto all’altro, quindi è parte fondamentale della costruzione della percezione che gli altri hanno di te. Inoltre, è sicuramente un modo per mettersi in comunicazione con gli altri, trasmettendo le proprie emozioni e sentimenti. Per esempio, la stesura di un articolo di giornale ha sempre lo scopo di trasmettere al lettore determinate sensazioni e vi è un lavoro creativo nella ricerca delle parole o della sintassi da utilizzare.

 

Elisabetta: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Andrea Gianni: Io credo che possa essere entrambe le cose: per un artista è un dono innato, che lo spinge durante lo sviluppo della propria arte; tuttavia, credo che chiunque possa svilupparla e coltivarla.

 

Anita: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Andrea Gianni: Sicuramente degli effetti positivi: è importantissimo secondo me iniziare a sviluppare la creatività da bambini; quindi, la scuola dovrebbe dare a tutti la possibilità di avere spazi comuni e ore dedicate allo sviluppo di essa.

 

Elisabetta: Pensi che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Andrea Gianni: Si, avendo la creatività un effetto sempre positivo, può essere utilizzata nelle attività di recupero sia all’interno che all’esterno del carcere. Credo che sia soprattutto un modo per educare alla creatività persone che magari non hanno mai avuto la possibilità di interrogarsi su di essa e quindi di scoprirne il potenziale.

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini

Interviste sulla creatività

Margherita Lazzati

Margherita Lazzati – Intervista sulla creatività

Margherita Lazzati è una fotografa, nonché volontaria in carcere da circa dieci anni. Racconta che ha sempre fotografato, malgrado non abbia mai fatto un corso di fotografia a causa della sua dislessia, scoperta durante gli anni del liceo; per lei un manuale è sempre stato qualcosa di inaccessibile rispetto alla realtà e all’utilizzo della macchina fotografica.

Nel 2009 un giornalista e critico d’arte ha visto i suoi scatti e le ha suggerito di pubblicarli. Con l’insosituibile lavoro di raccolta di scatti, di selezione e progettazione da parte degli amici della “Galleria l’Affiche” di Milano, è stato possibile realizzare esposizioni collettive e personali. Quindi ha iniziato a fare una serie di mostre a tema creativo. In occasione dell’Expo le è stato chiesto di fare una serie di scatti sugli homeless di Milano: una ricerca fotografica di visibili, le architetture nuove per l’Expo, e gli invisibili che vivevano le strade sotto queste architetture. In seguito a questa mostra Margherita Lazzati è stata contattata dal direttore della Sacra Famiglia di Cesano Boscone che desiderava effettuare un servizio fotografico sulle persone gravemente disabili, in occasione dei 120 anni dell’Istituto. Per sei mesi ha fotografato luoghi e volti di queste persone e ne sono nate due mostre. La prima dal titolo “Sguardi”, esposta nella Fondazione Ambrosianeum, la seconda dal titolo “Un paese aperto”, esposta in via Dante e in piazza a Cesano Boscone.

Dal 2011 Margherita Lazzati ha iniziato il suo lavoro di fotografa in carcere diventando volontaria nel laboratorio di lettura e scrittura creativa del carcere di Opera. Nel 2015 ha chiesto al direttore del carcere Giacinto Siciliano il permesso di fotografare quello che avveniva all’interno del laboratorio: il tavolo intorno al quale ci si trovava e i volti delle persone. Il progetto è talmente piaciuto al direttore che ne è nata una mostra: “Ritratti in carcere”. La sfida era riconoscere chi fosse il volontario e chi la persona detenuta. Il lavoro è stato presentato al MIA ed è stata installata una mostra nella casa di Rigoletto durante il Festival della poesia di Mantova.

 

In seguito, il direttore Siciliano ha chiesto a Margherita Lazzati di fotografare tutto il carcere di Opera e lei ha trascorso più di sei mesi a fare scatti nel carcere di settimana in settimana. Quando il dottor Siciliano è diventato direttore della casa circondariale di San Vittore Margherita ha iniziato qui un nuovo progetto di viaggio fotografico durato altri sei mesi, durante i quali ha conosciuto Carla Chiappini e Laura Gaggini, le quali avevano presentato un progetto di biografie delle persone che vivono in carcere: i detenuti e gli agenti penitenziari, ma anche una moltitudine di persone che gravitano nella casa circondariale per i motivi più disparati: lavoro, volontariato, missione. Con l’approvazione del dottor Siciliano, Margherita Lazzati ha usato parte delle fotografie raccolte durante il viaggio fotografico a San Vittore per questo progetto, ma con una determinazione assoluta nel non voler mostrare le persone. Infatti, desiderava che le persone emergessero dalle biografie raccolte e chi vedeva la mostra chiamata “San Vittore, quartiere della città”, vedesse i luoghi dove queste persone vivono, lavorano, operano. L’immagine dei luoghi che Margherita ritrae non vogliono essere né un racconto retorico del carcere né una denuncia, ma semplicemente una raccolta di immagini lungo un viaggio.

Michela: Che cos’è per lei la creatività?

Margherita Lazzati: per me la creatività è un capitale di magia. Io credo che sia qualcosa iscritto nel DNA e solo in un secondo momento questa capacità può trovare il modo di esprimersi.

 

Asia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Margherita Lazzati: innanzitutto trovare il linguaggio per esprimere questa creatività, che io considero un atteggiamento, uno sguardo sulle cose, sulla vita e su ciò che accade, compreso il modo di porgersi nei confronti delle persone, il vestirsi, il cucinare, la scelta dei colori, delle letture. È tutto un atteggiamento creativo.

 

Michela: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Margherita Lazzati: la mia creatività credo che nasca da una difficoltà, cioè dalla mia dislessia. Ai miei tempi non si sapeva assolutamente di che cosa si parlasse. Mi ricordo di essere stata considerata una pessima scolara, quando invece ci mettevo tutta la mia volontà possibile.

Durante le lezioni di matematica guardavo le cartine geografiche che erano dietro la cattedra e viaggiavo guardando queste mappe, per cui non imparavo i numeri.

Un’altra grande difficoltà era la scrittura: mi chiamo Margherita e nel mi nome c’è la H che non sapevo mai dove mettere. Per me la scrittura era un disegno e cercavo di ricordare la composizione delle lettere per scriverle. Quindi per me la creatività è riuscire a fare uno slalom nelle tue difficoltà.

 

Asia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Margherita Lazzati: se per produzione creativa parliamo solo della fotografia, questa è una cosa che mi piace da pazzi. La fotografia è il mio modo di raccontare, che sia per le strade di Milano o stando coi miei nipoti o in carcere o in un viaggio, la fotografia è il mio linguaggio di espressione silenzioso. Questo linguaggio ha un impatto molto positivo sulle mie emozioni.

 

Michela: Nel rapporto con gli altri il suo atto creativo cosa determina? Per esempio, nel lavoro in carcere con i detenuti, la sua creatività cosa determina con gli altri?

Margherita Lazzati: in carcere è una cosa bellissima, è successo qualcosa di veramente sorprendente quando mi hanno visto arrivare in laboratorio con la macchina fotografica. C’è stata un’accoglienza molto fiduciosa: io non avrei mai usato le fotografie che scattavo se non per mostrare una realtà nella quale anche io ero immersa alla pari. Loro donano le proprie composizioni poetiche e io ricambio con i miei scatti. La cosa sorprendente è quella del lavoro con i ritratti perché la maggior parte delle persone non si è riconosciuta perché non è abituata a vedersi allo specchio. Tutti, compresi i più giovani, vedendo il proprio ritratto si sono visti vecchi o si immaginavano diversi in quanto la loro immagine interiore corrispondeva a vent’anni prima. È stato un lavoro che mi ha fatto molto riflettere. Alcune persone invece si sono talmente riconosciute da mandare felici il proprio ritratto a casa come se fosse un trofeo.

 

Asia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in genere?

Margherita Lazzati: io lo considero il mio modo di esprimermi. L’unico social che uso è Instagram, ma non sono solita inserire commenti: inserisco il luogo e poi sottopongo il lavoro allo sguardo degli altri.

 

Michela: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Margherita Lazzati: diciamo che fino al 2009 erano le persone alle quali regalavo le fotografie che sceglievo come dono… possiamo chiamarle cartoline di viaggio o ritratti. Questo instaurava un rapporto privato tra me e chi riceveva questi doni. Ho una raccolta di album tematici con foto stampate… poi dal 2009 ci sono le mostre. Mi stupisco sempre molto dell’accoglienza che ricevono i progetti nel pubblico e anche in alcuni giornalisti sensibili.

 

Asia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Margherita Lazzati: non saprei. Credo che centri in un qualche modo nello star bene con sé stessi. C’è chi scrive un diario, c’è chi raccoglie immagini, io raccolgo immagini.

 

Asia: Siccome ha parlato dell’importanza di raccogliere immagini, quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Margherita Lazzati: non ce n’è solo una. Posso dire che io lavoro con una macchina fotografica semplice, una Leica, in modo quasi automatico e uso tantissimo il telefonino. Questi due mezzi sono molto diversi nella raccolta delle immagini. Oltre al fatto che in carcere non si possa portare il telefonino, capisco che la raccolta di foto da me scattate con la Leica richieda un’elaborazione, una archiviazione complessa. Invece la raccolta di immagini per mezzo del telefonino è come un “prendere appunti” sulla vita. Alla fine della giornata seleziono sempre la mia scelta ma vedo, per esempio, i miei nipoti prendono spesso in mano il mio telefonino e guardano le foto che scatto loro…quasi come se le foto che scattassi raccontassero dei momenti di vita insieme. Per me è il modo di rivedere una giornata.

 

Asia: Quindi, se dovesse paragonare l’atto creativo a una fotografia, a un’immagine o a un dipinto, quale potrebbe rappresentarlo al meglio?

Margherita Lazzati: per me è una fotografia. Rubo una frase del grandissimo Giovanni Gastel, il quale diceva “la più bella fotografia è quella che non ho ancora scattato”.

 

Michela: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Margherita Lazzati: su questa domanda ho riflettuto parecchio. Secondo me dipende dal tipo di espressione artistica. Io se ho delle preoccupazioni o dei pensieri importanti, non vedo e non fotografo. Lo sguardo è come rivolto a me stessa e al mio vissuto. Io fotografo nel momento in cui sto bene, in cui mi accorgo del sole. Credo che, invece, un poeta abbia molta più confidenza con l’espressione della propria depressione rispetto all’emozione di un atto felice che forse considera più banale.

 

Asia: Quando un prodotto creativo è per lei davvero concluso?

Margherita Lazzati: io credo mai. Anche quando si progetta una mostra, è sempre tutto un divenire, non si riesce mai veramente a mettere un punto e dire “non potrebbe esserci altro”.

 

Michela: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Margherita Lazzati: sì, è importantissimo. La scuola difficilmente aiuta questa sensibilità o fa crescere questo capitale di magia. Per lo meno, questo avviene fino alle scuole materne, dopo è l’apprendimento ciò che prevale e non si cerca di capire se la difficoltà nell’apprendimento può essere invece espressione di creatività. Io sono molto preoccupata di questo…concedere ai bambini o ragazzi più grandi di creare o produrre qualche cosa di diverso dall’apprendimento stesso, è un dono di pochi insegnanti.

 

Asia: Quindi, collegandoci anche a questa domanda, la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata in qualche modo?

Margherita Lazzati: entrambe le cose. Ci sono persone che hanno nel proprio DNA qualche capitale di magia in più, ma in tutti va educato il senso creativo del vivere. E, soprattutto nelle persone che possiedono questo capitale di magia, va sostenuto, va fatto crescere e va riconosciuto.

 

Michela: Già in precedenza abbiamo parlato del ruolo della scuola nello sviluppo della creatività e dell’importanza della stessa per il condannato. Vorrei chiederle se, secondo lei, lo sviluppo della creatività potrebbe essere gestito in modo migliore sia all’interno delle scuole che nelle carceri?

Margherita Lazzati: sicuramente, in entrambi i casi, ma è qualcosa che dipende molto dagli incontri. É chiaro che se una persona detenuta dovesse incontrare la poetessa Silvana Ceruti, il poeta e giornalista Alberto Figliolia o il Professor Aparo, avrebbe un’occasione di espressione e di scoperta delle proprie doti creative al di là del crimine commesso, a differenza di chi, non avendo il dono di questi incontri, rimane recluso nella propria condanna. Lo stesso discorso vale per la scuola. Dalle elementari fino all’università, la fortuna di incontrare un buon insegnante a tutto campo che, oltre all’apprendimento riconosca nello studente qualche cosa su cui puntare e su cui far crescere l’interesse per lo studio, è quanto di più importante si possa fare. Io penso che questa scuola “a crocette”, di risposte a test, sia un massacro dell’educazione.

Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Federica Turolla

Interviste sulla creatività

Gruppo della Trasgressione: Istruzioni per l’uso

La mia esperienza di tirocinio al gruppo si è quasi conclusa, ma mi ritengo fortunata: ho imparato tanto. Per questo motivo, vorrei condividere con i futuri tirocinanti alcune istruzioni per trarre il maggior vantaggio possibile dall’esperienza che, se vorranno, andranno a fare.

  1. Non fatevi spaventare. Ricordo che durante i primi incontri ero sconvolta e terrorizzata dai modi del prof. Non posso promettervi che i modi cambiano con il passare del tempo, ma ci si abitua e si comprende che sono più utili di quanto sembrano, perché permettono di uscire dal proprio guscio e di crescere individualmente e professionalmente.
  2. Prendetevi il vostro tempo. Imparate a conoscere il gruppo partecipando agli incontri, se è possibile di persona, e prendetevi il vostro tempo per conoscerlo e interagire con esso. Ognuno ha i suoi tempi, e non siete obbligati a rimanere se non vi trovate a vostro agio. Non abbiate paura di fare domande e di mettervi in gioco, vi assicuro che con il passare del tempo imparerete ad apprezzare la fluidità e l’essenza del gruppo. L’importante è provarci!
  3. Sentitevi liberi di sviluppare un pensiero critico. Al gruppo si può parlare di qualsiasi cosa, basta riuscire ad argomentarla. Sentitevi liberi di proporre nuovi argomenti o di contribuire alla discussione, l’importante è essere coerenti con il proprio discorso. Per esempio, una leggenda narra che un componente del gruppo abbia parlato per un ora delle emorroidi, costruendo un discorso logico e utile ai fini della discussione.
  4. Partecipate in modo attivo. Gli eventi e le attività, sia all’interno che all’esterno del carcere, sono una componente fondamentale del gruppo e sono utilissimi per comprendere le funzioni che il gruppo svolge. Partecipando agli eventi avrete la possibilità di comprendere le strategie che il gruppo adotta per affrontare diversi temi, e magari, se siete fortunati, avrete anche la possibilità di assistere ad una rapina!
  5. Create un rapporto con gli altri membri. Probabilmente è banale dirlo, ma la forza principale del gruppo è il gruppo stesso. Per questo motivo credo sia fondamentale creare un rapporto di fiducia reciproca con gli altri componenti, poiché permette di creare un ambiente in cui chiunque possa sentirsi accolto e protetto, e magari anche di amicizia. E credetemi, se si stabilisce un buon rapporto, è anche più facile svegliarsi alle otto di sabato mattina per andare a vendere la frutta.

In conclusione, non abbiate paura di buttarvi e farvi travolgere da questa esperienza. Vi assicuro che ne trarrete vantaggio, sia a livello personale che professionale. E se provate una strana sensazione allo stomaco non preoccupatevi: sono solo farfalle!

Anita Saccani – Tirocini

La differenza tra me e loro

C’è una vecchietta seduta davanti a me. È molto minuta e sembra quasi scomparire dentro la sedia gialla delle metro milanesi. Osservandola attentamente, però, è facile notare come la sua fragilità sia solo un’apparenza: il piede della gamba destra continua a fare avanti e indietro, ad un ritmo regolare e veloce, che ad osservarlo a lungo si rimane quasi ipnotizzati, e dietro i piccoli occhiali viola, due grandi occhioni vispi e allegri osservano il mondo intorno.

Il suo sguardo interrogativo e vivace si posa su ogni persona e cosa e, a un certo punto, arriva anche il mio turno diventando così un altro oggetto della sua curiosità. A mia volta la osservo, di sottecchi però, con fare intimidito, cercando di non farmi notare, ma mi ci vuole poco per capire che, anche se la guardassi dritta negli occhi, lei non se ne accorgerebbe, tanto è l’interesse con cui analizza ogni centimetro della copertina del libro che sto leggendo.

Di lì a pochi istanti, mi rivelerà che non è stato tanto il titolo ad attirarla, “Di cuore e di coraggio”, quanto l’associazione insolita tra questo titolo, il quale le ricordava i romanzi rosa che amava leggere da ragazzina, con l’immagine di una stereotipata uniforme arancione da detenuto, tuttavia vuota, senza un corpo che la riempia, e dalla quale si libra uno stormo di uccelli bianchi che attraversano gli interstizi tra le sbarre di una prigione.

“No, non è un romanzo” le rispondo facendo viaggiare a cento all’ora la sua curiosità. “È il racconto di un direttore di carcere e della sua esperienza decennale all’interno di numerosi istituti di pena italiani”.

E via subito che inizia ad incalzarmi ed interrogarmi: perché una ragazza giovane come me dovrebbe interessarsi di argomenti così complessi e ispidi? Perché mai una studentessa ventitreenne dovrebbe aver voglia di frequentare degli uomini che sono reclusi da anni a causa di condanne e sentenze gravose, come ad esempio spaccio, rapina, associazione mafiosa e omicidio? Quale può essere il giovamento di una ragazza derivante dall’incontro con delle persone, in definita, tanto diverse da lei?

E io inizio a chiedermi: ma io e “loro” siamo davvero così tanto diversi?

Durante la mia preadolescenza sono stata protagonista di un evento molto doloroso, il quale mi ha catapultato, senza tanti preamboli, nel mondo dei grandi e mi ha costretta a confrontarmi faccia a faccia con la Giustizia. Sono rimasta segnata profondamente da questo episodio e, durante tutti gli anni successivi fino ad oggi, ho dovuto imparare a combattere contro il retro pensiero immobilizzante che fossi una persona cattiva, maligna, sbagliata e inadeguata.

Tuttavia, più che l’evento tragico in sé, sono state le conseguenze ad essere ancora più distruttive. Le prese in giro dei compagni, l’isolamento sociale perpetrato dagli altri come se fosse una punizione della comunità allargata per ciò che (non) avevo commesso, il continuo giudizio, i pettegolezzi di paese, le dispute tra gli avvocati e la sofferenza dei miei genitori (a nulla erano valsi i loro immensi sforzi per difendere la propria figlia), hanno reso il mio terreno sempre più fertile per la rabbia e l’odio.

Percepivo continuamente una spada di Damocle al di sopra della mia testa, pronta ad infliggermi una punizione da un momento all’altro, e la cosa peggiore era che, in fondo, sentivo di meritare il castigo che di lì a poco sarebbe sicuramente arrivato. Dopo due anni di costante pressione e sofferenza psicologica mi sono convinta che, per essere accettata e lasciata in pace, avrei dovuto incarnare l’immagine della cattiva ragazza che gli altri mi avevano cucito addosso. Ho cominciato così ad uscire con una compagnia di “amici” molto più grandi di me, che non frequentavano mai la scuola ed erano impegnati in attività al limite del lecito.

Oggi mi rendo conto che cercavo di soffocare il dolore di non essere creduta e accettata, anche se vi sommavo altro dolore imponendomi di essere chi non ero, auto-punendomi, come se spargessi il sale su ferite già aperte. Tuttavia, l’enorme sofferenza che provavo reclamava una via d’uscita, e quindi mi ferivo per punirmi e sostituire il dolore fisico al dolore psicologico.

Intorno ai 15 anni, la trama della mia vita ha subito una brusca inversione. Mi sono iscritta in un liceo, pur se a scuola non studiavo mai. Ho cominciato a coltivare nuove amicizie, pur se non mi fidavo di nessuno. Ho incontrato dei professori che mi hanno fatto capire l’importanza di avere una guida credibile e autorevole, pur se fino a quel momento avevo odiato e avevo avuto paura di tutto ciò che rappresentava l’autorità e le istituzioni.

Oggi sono passati un po’ di anni, mi sono laureata con il massimo dei voti, ho al mio fianco una persona fantastica e degli amici che considero la mia famiglia, non di sangue ma per scelta, i quali spesso mi hanno letteralmente salvata nei miei momenti bui.

Ma se non avessi avuto la possibilità di andare in un’altra città a studiare in una scuola attenta al rispetto delle regole? E se non avessi incontrato professori capaci di non farmi più sentire sbagliata, malata, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo e se non mi avessero insegnato ad apprezzare valori importanti come la disciplina, il rispetto e la perseveranza? Se non avessi trovato un gruppo di amici capaci di farmi sentire parte di qualcosa, quando mi credevo non meritevole delle relazioni e del riconoscimento altrui?

Da piccola avevo una sorella gemella. Qualche mese prima che mia mamma portasse a termine la gravidanza, l’Altra Me non ce l’ha fatta e sono nata solo io. Spesso faccio questo gioco nella mia mente, in cui mi immagino che lei si trovi in un universo parallelo e che sia la me che non ha compiuto quella grande inversione a U a 15 anni. La immagino prima come un’adolescente allo sbando, lasciata a se stessa e provata dalla mancanza di guide che la riportino sulla strada giusta, e poi come una tossicodipendente fallita o una delinquente.

È un po’ come il film Sliding doors, non so se ce lo avete presente. È quello in cui, in base alla porta del treno su cui sale il protagonista, il corso della sua vita cambia completamente. Forse è proprio per questo che la voce della signora della sedia gialla ha continuato a domandarmi per giorni quale fosse la differenza tra me e “loro”. Forse si tratta solo di condizioni di vita diverse in cui si cresce, di possibilità fortunate di redimersi e di salvifici incontri con guide credibili che riconducano sulla strada giusta.

Quindi innanzitutto cancellerei la parola “loro”, riferita a questi fantomatici esseri mitologici senza cuore che sono approdati in carcere perché hanno solo saputo fare del potere, del denaro e dell’arroganza gli unici binari della propria vita. La differenza tra NOI esseri umani sta spesso nelle condizioni soggettive e oggettive, ambientali e contestuali, materiali ed emotive a cui siamo sottoposti, le quali influenzano fortemente il percorso di vita verso una direzione piuttosto che un’altra.

Ora che si è detto ciò, potremmo anche concludere che sembra quasi che si tratti, in buona parte, di una questione di fortuna, quella di nascere in condizioni favorevoli al proprio sviluppo. E se accettassimo tale conclusione, non verrebbe facile pensare che noi cittadini civili non possiamo fare niente per prevenire e combattere la devianza?

Tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Dobbiamo prendere una decisione: o subiamo passivamente ciò che accade all’interno di una società che ci vuole spaventati da tutto ciò che non conosciamo per tenerci lontani e per percepire gli “altri” come diversi, oppure diventiamo partecipanti attivi della nostra società ed esercitiamo il potere di cambiare il mondo e rivoluzionare il pensiero. Badate bene a quale strada scegliete perché, nel caso optaste per la seconda opzione, allora dovrete cominciare ad impregnarvi oggi stesso, seduta stante, a rivoluzionare il vostro pensiero e, di conseguenza, la società stessa.

La cosa più semplice da fare sarebbe quella di impegnarsi affinché quanto più cittadini possibile inizino a portare la società civile all’interno del carcere, contaminandolo come un morbo benefico. È bene che sempre più persone entrino come volontari negli istituti di pena e ascoltino le storie di quei “loro” tenuti tanto lontani da noi da sembrare alieni.

Non abbiate paura del dolore altrui e del male perché soltanto conoscendo e studiando il male, lo si può affrontare con le armi giuste per poi riuscire addirittura a prevenirlo. Studiamo le condizioni che conducono alla devianza non usando come cavie gli ex criminali, ma servendoci del loro aiuto di neonati cittadini responsabili per salvare chi oggi ha bisogno di un salvagente per ritornare sulla terraferma.

Il tempo per diventare una società responsabile è arrivato, ed è oggi.