Ci sono parole che evocano disagio solo a pensarle. Parole che vengono evitate, sussurrate. Parole che vengono lasciate sospese, parole non dette.
La parola “fallimento” è una di queste. Si cerca di evitare poiché evoca una sensazione sgradevole, sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. A volte viene usata in modo impersonale: “è stato un fallimento”. Un fallimento di chi? Mio? Tuo? Nostro?
Fallire è un verbo che non ci piace, ci ricorda che siamo umani e che possiamo sbagliare. È difficile anche solo pensare di aver fallito, figurarsi dirlo. E quando si trova il coraggio di ammetterlo, spesso gli altri tendono a trovare parole di conforto: “non preoccuparti, ti rifarai, avrai un’altra occasione, non pensarci”. Spesso è vero, in molti casi il fallimento ci permette di riprovarci, con sforzi ancora maggiori, e, nella maggior parte delle volte, così dicono, dopo il fallimento arriva il successo. È raro che si parli della sensazione di fallimento. Spesso si preferisce cercare le cause, oppure trovare soluzioni.
Il fallimento si affronta da soli, non se ne parla a cena con gli amici o al bar con i colleghi. Eppure la maggioranza di noi, prima o poi, fallisce almeno una volta nel corso della sua vita. Fallisce in amore, in famiglia, nella carriera, nello studio. Si può fallire in qualsiasi cosa, eppure non si riesce a confrontarsi con gli altri. Non si riesce a rendersi responsabili del fallimento.
Da quando frequento il Gruppo della Trasgressione, spesso parlo volentieri con amici e conoscenti di quello che faccio e delle sensazioni che il gruppo mi crea. Tuttavia a volte vengo liquidata con un “mah si, tanto i detenuti sono il fallimento della società”. Ma noi facciamo parte della società giusto? Ognuno di noi è la società. E allora perché riusciamo a parlare a cuor leggero di un fallimento generale, ma fatichiamo a pensare ad un nostro fallimento personale? Forse, se parlassimo di più dei nostri fallimenti riusciremmo ad accettarli più facilmente. E una volta accettati, potrebbe essere più facile cercare soluzioni e comportarsi in modo che non capitino di nuovo.
Di una cosa sono abbastanza certa: parlarne con qualcuno, senza vergogna o sensi di colpa, può aiutare a comprendere che qualcuno ha già vissuto e, nella maggior parte dei casi, anche superato quello che noi crediamo sia un fallimento insuperabile.
Il fallimento fa parte della natura dell’essere umano e, a volte, è giusto ricordarci che possiamo anche fallire.
Anita Saccani
Ti ringrazio, Anita!
Quanto è prezioso il tuo testo, intrigante per l’attualità dell’argomento!
È decisamente sconfortante che la nostra società non tolleri la possibilità di fallire, tanto nel lavoro quanto nella vita privata: prima o poi, tutti nella vita ne facciamo esperienza e non c’è un’unica ragione che giustifichi il perché la società, nei secoli, non abbia saputo costruire una cultura che accettasse “l’errore” come fattore insito delle vicende umane.
Occorre effettuare un cambiamento “per evitare l’aura di negatività e di discredito cinico”, sprezzante delle vite di molti, che si riducono a sentirsi incapaci di reggere il peso delle aspettative altrui.
La speranza è che il cambiamento non sia solo lessicale, ma diventi anche culturale.
Una sana e naturale educazione sul rapporto stretto fra “l’errore ed il fallimento” faciliterebbe un viaggio di “scoperta di sé, dei propri limiti e dei propri talenti”.
Sarebbe più naturale conquistare nuove certezze, scoprendo che il “contrario di fallimento” non è “il successo”, ma “la realizzazione” di un progetto”.
Ciascuna persona non può misurarsi in dati economici, bilanci di impresa o voti scolastici, ma nella propria capacità di “divenire esseri umani completi”, consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, tolleranti con gli altri e con se stessi.
“Fallire” e superare la “mancata realizzazione di ogni scelta” dovrebbe diventare – umanamente – un “mantra” per abbattere uno stigma sociale indelebile ed invalidante per tutti.