Sono stato preparato a questo evento dalla lunga vita di mia madre e dagli ultimi suoi anni di progressiva perdita di autonomia.
Questa mattina ho visto un piccolo rattoppo sul pigiama e, inevitabilmente, mi sono ricordato delle numerose volte in cui le portavamo abiti da rammendare o da aggiustare, un po’ per darle da lavorare, un po’ per sentire addosso gli effetti del suo intervento.
Lei era decisamente brava a cucire e a riparare strappi che avresti detto insanabili. Ma negli ultimi due anni la capacità di cucinare, rammendare, stirare si era ridotta di molto, mentre cresceva la frustrazione di non potere svolgere le azioni che erano la sua identità.
Ma mia madre ha vissuto e ha seminato dentro di me e di mia sorella quello che noi oggi siamo, il modo in cui ci sentiamo l’un l’altro e che uso fare dell’ago e del filo. Gli occhiali con cui guardiamo il mondo sono stati forgiati quando non eravamo noi a decidere cosa e come guardare e toccare.
E in quell’officina lavoravano mia madre, mio padre, i miei nonni, le mie zie. Adesso sono tutti morti; ci rimangono gli occhiali che nel frattempo sono diventati i nostri occhi.