L’ultimo incontro mi ha permesso di capire quanto sia importante l’impegno dei detenuti, delle istituzioni,dei familiari delle vittime, della società civile.
Molti dei detenuti con i quali abbiamo avuto modo di parlare hanno raccontato di aver ucciso e di non aver provato, nel compiere quell’atto, alcuna sofferenza o compassione per la vittima, in quanto la ritenevano solo un ostacolo da eliminare, un oggetto piuttosto che una persona umana.
In questi giorni, guardando in quello specchio che il Dottor Cajani ha donato ad ognuno di noi, mi sono resa conto di quanto anch’io abbia compiuto quell’errore, perché, prima di questa esperienza in carcere, ho ridotto, più di una volta, i delinquenti al reato che avevano commesso, etichettandoli come colpevoli, assassini, devianti, senza rendermi conto che, in realtà, sono anzitutto degli esseri umani.
Forse così, metaforicamente, anch’io li ho uccisi e, solo ora che ho avuto modo di conoscerne l’umanità e la fragilità, mi accorgo di quanto ancora io debba lavorare per avviare in me un cambiamento, che non si arresti al pregiudizio, ma che vada oltre, verso la comprensione dell’altro, consentendomi di restituire loro quella dignità, anzitutto di esseri umani, di cui io per prima li avevo privati.
Nessuno di noi è perfetto, ognuno ha i suoi limiti, ognuno ha commesso degli errori nel proprio percorso, ma credo vivamente che ogni persona sia passibile di un cambiamento ed è per questo che ritengo che tutti noi dobbiamo prendere esempio da Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani che, nonostante il dolore che hanno provato da familiari di vittime, hanno saputo credere nel cambiamento dei detenuti e hanno teso loro una mano, per aiutarli a cambiare.
Se tutti facessimo così, se ognuno di noi facesse un passo verso l’altro e ognuno di noi donasse un pezzo della propria esperienza agli altri, forse si potrebbe, tassello dopo tassello, ricostruire quel “puzzle” che si è distrutto, si potrebbe riparare la frattura sociale che si è creata attraverso la commissione del reato e lo si potrebbe fare proprio grazie alla riconciliazione con il prossimo.
Il Gruppo della Trasgressione offre al detenuto l’opportunità di mettersi a nudo, di raccontarsi e di imparare dai propri errori, gli permette di provare, forse per la prima volta, dei sensi di colpa e sono propri questi sensi di colpa a responsabilizzarlo, in un’esperienza quale quella carceraria, che spesso, invece, è tutt’altro che responsabilizzante.
Anche dare un ruolo ai detenuti, farli sentire parte di una comunità e fare in modo che possono svolgere un compito importante per la società può responsabilizzarli.
Questo, però, non basta. Non è sufficiente la rieducazione sociale e il recupero del condannato all’interno delle mura del carcere, ma c’è bisogno di un impegno collettivo reale per garantire, anche nel momento in cui si raggiunge il fine pena, un reinserimento sociale e lavorativo effettivo affinché queste persone non siano portate a rivivere quella esperienza di emarginazione che, come i detenuti hanno raccontato, li aveva portati a delinquere.
Ecco che allora, ed è per questo che sono grata di aver avuto l’opportunità di vivere questa esperienza, in primis io non devo arrestarmi ai miei pregiudizi, non devo giudicare gli altri e, anche se può farmi paura, devo tentare di avere un dialogo con queste persone, devo aiutarle a reintegrarsi in una società di cui non fanno parte da troppo tempo o di cui forse non hanno mai veramente fatto parte.
Credo che ognuno di noi debba comprendere quanto sia importante accompagnare i detenuti in questo miglioramento di sé, affinché l’espiazione della pena non risulti vana, ma acquisti un senso e restituisca a vittime e “carnefici” la dignità che tutti, a prescindere dai nostri errori, meritiamo di avere.
È importante che, accanto alla “pena morale” che vive Raskòl’nikov nel romanzo e che i detenuti vivono oggi per il male commesso, possa oggi vivere in loro la speranza di redimersi dai propri errori e di rendersi utili per gli altri.
A parer mio, solo così il carcere può avere un valore, perché un isolamento in carcere, senza opportunità di riflessione e di confronto con gli altri, non porta a nulla. Probabilmente può restituire molto di più alla vittima vedere un condannato che riconosce i propri errori e che si impegna in un continuo miglioramento di sé che non il saperlo chiuso in una cella per venti o trent’anni senza alcuna funzione.
Ritengo che esperienze di questo tipo debbano essere proposte più spesso agli studenti, perché lo scambio tra noi, i detenuti e le vittime permette un arricchimento di tutti:
- permette a noi di vedere anzitutto come la vittima, diversamente da quello che spesso propongono molti media, non sia sempre una persona che ricerca una giustizia retributiva o che punta a bilanciare il proprio dolore con la sofferenza inflitta al reo;
- ci permette di avvicinarci a detenuti, apparentemente così distanti dalle nostre realtà e, invece, così simili, per certi aspetti, a noi;
- permette a ragazzi emarginati, proprio come lo sono stati loro, di sentire un monito, non dai genitori, che il più delle volte non viene recepito, ma da chi quegli errori ha commesso;
- permette ai detenuti di responsabilizzarsi e di risvegliare quelle “coscienze addormentate”, parlando di fronte a ragazzi che potrebbero essere i loro figli e, di fronte ai quali, forse ritengono di dover dare il buon esempio;
- e, infine, rinnova un senso di giustizia in noi cittadini, in quanto ci permette di vedere che una Giustizia esiste e che quella finalità rieducativa che l’art.27 co.3 Cost. attribuisce alla pena è effettivamente attuabile.
Maria Claudia Raimondi