Penso che uno degli aspetti degni di nota del personaggio di Raskol’nikov, prima ancora del delirio che lo spinge a commettere l’omicidio, sia la sua età. Un giovanissimo ragazzo che, per il timore di rientrare nella categoria dei cosìddetti ‘’pidocchi’’, cerca assiduamente di meritare quella degli ‘’eletti’’.
Il romanzo offre la possibilità di scorrere tra i pensieri del protagonista e, pagina dopo pagina, ho avuto l’impressione che l’apparente sicurezza che Raskol’nikov tenta di dimostrare, agli altri ma soprattutto a se stesso, non sia altro che il tentativo di distaccarsi dalla classe delle persone comuni, alla quale, in verità, sa di appartenere.
Nella sua mente è un continuo contraddirsi; Raskol’nikov si sforza di interpretare la parte di chi è consapevole delle proprie azioni, eppure non c’è un momento in cui egli si senta realmente certo della correttezza di esse.
Egli è, però, così intento a dare prova della sua intelligenza che, a tratti, arriva a convincersi di aver fatto la scelta giusta; il dubbio, tuttavia, non lo abbandona mai.
In tutto questo ho percepito l’insicurezza di un adolescente, che lui stesso ha tentato di mascherare con la presunzione di chi è superiore; io, personalmente, non gli ho creduto un istante.
Tutto ciò è indicatore di un incessante malessere; che sia attorniato da persone o che si trovi isolato, smarrito tra i suoi pensieri, Raskol’nikov è in un continuo stato di sofferenza; non è in grado di riconoscere chi gli sta intorno né, tanto meno, se stesso, e si nega la possibilità di sentirsi parte di ciò che lo circonda; si zittisce ogni volta che si accorge di provare sentimenti, forse perché teme che siano questi ultimi a impedirgli di superare chi ha di fronte.
Ciò è riconducibile alle storie dei detenuti che si raccontano al Gruppo; la polverizzazione della coscienza, oltre ad essere uno dei concetti protagonisti del progetto, è un passaggio necessario affinché si possa calpestare l’altro e, alle volte, se stessi.
Beatrice Ajani