Chiara Palma – Relazione finale di Tirocinio
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno
A fine settembre 2022 ho deciso di entrare a far parte del gruppo della trasgressione come tirocinante. Ho conosciuto il gruppo per la prima volta a un evento esterno al parco Ravizza di Milano. Le mie sensazioni sono state fin da subito positive, la lettura di alcune poesie dei detenuti e il modo in cui determinati argomenti sono stati affrontati mi hanno fatto capire che era proprio quello che stavo cercando, un’esperienza da vivere a 360 gradi.
Sono entrata per la prima volta ad Opera il 12 ottobre, giornata in cui è iniziato il progetto su Caravaggio e sul suo famoso dipinto “La vocazione di San Matteo”. Ognuno di noi durante questi incontri si è chiesto chi fosse il protagonista, quale emozione esprimesse il volto di Matteo o in che modo gli abiti indossati fossero rilevanti. Secondo il mio punto di vista il quadro, visto nell’insieme, era diviso in due parti: da un lato colui che è stato chiamato (Matteo) e dall’altro il chiamante (Cristo).
Nel dipinto chi è stato chiamato era circondato da altre figure, che potevano avere influenza o meno sulla sua persona. Nella vita spesso siamo chiamati verso qualcosa, ma siamo noi a scegliere che strada prendere, e queste decisioni in alcuni momenti sono condizionate da altri fattori, che possono essere persone, soldi o altri beni materiali. Delle volte, infatti, come è successo per i detenuti, si accetta quella ‘chiamata’ negativa (come la mafia, le rapine o lo spaccio) dove ci si comporta come se non si avesse una coscienza. Si perde il proprio “ruolo”, non facendo emergere le proprie qualità, ma ognuno deve ricercare il proprio posto nel mondo, imparare a riconoscere i propri talenti e “considerare la propria semenza”.
Tutto questo è stato possibile ed è possibile grazie al gruppo della trasgressione, il quale fa sì che i detenuti riescano a compiere un percorso lungo e critico su sé stessi, su quello che hanno commesso e su ciò che hanno provocato alle vittime, per poi raggiungere l’obiettivo principale di ritrovare la coscienza latente.
Sono stata spesso più osservatrice di quello che mi accadeva intorno, rispetto all’essere partecipante attivo, fino a quando il professore mi ha fatto la domanda “e tu cosa ci fai qui?”. Presa dall’emozione, da ciò che era stato raccontato in precedenza, e presa da quella che è la mia situazione personale, sono finita in una valle di lacrime. Nel momento in cui mi è stata fatta la domanda mi sono tornati in mente tantissimi momenti che io ho passato quando una persona a me cara è stata in carcere. Il momento in cui a 12/13 anni sono entrata nel carcere di Poggioreale e quello in cui finalmente quella persona è uscita di prigione. Un mix di emozioni che mi hanno fatto entrare in empatia con i detenuti e con quella che è tutta la sfera familiare che li circonda.
Ma tutto questo non era nei miei piani, non avrei voluto piangere e non avrei voluto mostrare questa mia fragilità, e mi chiedo perché. Perché ho paura di esprimere i miei sentimenti? Forse per paura di essere giudicata, di dire la cosa sbagliata, di non essere semplicemente all’altezza? Probabilmente mi pongo sempre il limite di osservare le situazioni, non riuscendo a mettere in gioco quelle che sono invece le mie abilità, ma mi rendo conto, incontro dopo incontro, che il gruppo sta smussando questo mio limite. Grazie al gruppo ho capito l’importanza della relazione, del dialogo, dell’ascolto. Il metodo utilizzato dal gruppo fa si che tutti possano scambiarsi idee e opinioni, e vorrei riuscire a partecipare di più, far emergere quella che sono, ma anche questo è un percorso personale e piano piano so che potrò farcela.
Sono stati motivo di riflessione anche gli incontri su “Delitto e Castigo”, in particolare quando ci siamo posti il quesito “Raskolnikov aveva una coscienza, ma i detenuti l’hanno sempre avuta oppure no?”. Le risposte ci hanno fatto constatare che la coscienza c’è sempre stata nella loro vita, ma ad un certo punto era diventata una minaccia, un ostacolo, qualcosa da zittire e annullare per concentrarsi su un altro obiettivo, tant’è che Ignazio ha parlato addirittura di “coscienza bugiarda e vigliacca”.
L’importante è però riuscire a fare riemergere questa coscienza, a modellarla e renderla il proprio “strumento di libertà”. Una frase che mi è rimasta molto impressa da questi incontri è stata quella di Paolo Setti Carraro: “Accettare l’amore degli altri è importante, quando si capisce di essere amati, si inizia ad amare l’altro”. L’amore ha un forte potere anche secondo me, abbiamo bisogno di sentirci compresi, di avere qualcuno su cui poter contare e un luogo di conforto dove potersi riparare, a cui a nostra volta diamo amore.
Nella maggior parte dei casi, i detenuti non hanno questo supporto né l’amore che può dare un gruppo, come quello della trasgressione, e dunque vengono abbandonati a sé stessi. Prima di entrare in carcere come studentessa di psicologia non avevo mai sentito parlare di un gruppo che facesse ricercare l’uomo e la consapevolezza che si era persa. Non avevo mai sentito parlare di professori o psicologi che lavorassero così sulla rieducazione dei detenuti, ma non ne sono rimasta stupita, bensì mi ha fatto pensare “caspita menomale”. Menomale che c’è questo gruppo, che sia un punto di partenza per lo sviluppo di altri gruppi o un’unica organizzazione che si amplierà. Perché ci spero, spero che tutto quello che il gruppo della trasgressione ha fatto, e che fa, venga diffuso e che la società inizi a formulare un pensiero diverso nei confronti di chi è in carcere.
Quando mi capita di parlare con i miei colleghi, amici o conoscenti, della mia esperienza, tutti mi dicono “no, io non ce la farei”, come se stessi entrando in contatto con extraterrestri. Le persone non si rendono conto che anche i detenuti sono uomini, quando spiego cosa si fa al gruppo e tutte le testimonianze sulla presa di coscienza, loro sono sempre scettici, ma forse perché non sono in grado di esprimere a parole quello che questa esperienza riesce a dare?
Come dice il prof Aparo: “Tutti possono potenzialmente diventare cittadini utili, se si lavora per raggiungere il risultato”. Penso che per cambiare le cose e far sviluppare una maggior consapevolezza del percorso che queste persone compiono si debba vivere l’esperienza, cosa che auguro a chiunque, perché a me ha dato tanto, sia professionalmente che personalmente, e non posso fare altro che ringraziare detenuti, ex detenuti, professori, volontari e colleghi, per questa grande opportunità di crescita.
Chiara Palma