“Un uomo che partecipa alla storia dei suoi figli con una passione che è tanto rispettosa, quanto autentica e profonda, è un Padre che rende liberi e vuole far partecipare tutti della festa” [Carlo Maria Martini, Ritorno al Padre di tutti – lettera pastorale 1998/99]
L’esercizio di lettura di uno tra i più noti quadri di Rembrandt è stata una delle mie prime affascinanti esperienze durante la ventennale frequentazione del Gruppo della Trasgressione.
Ma, ai tempi, avevo di esso una sola visione “bidimensionale”: in quel dipinto mi ci vedevo dentro solo come figlio, non essendo ancora nato come padre.
Questa mattina invece – mentre ero seduto accanto a mio figlio – ho ascoltato una straordinaria rilettura domenicale della parabola del figliol prodigo, tale da motivarmi a uno sguardo “tridimensionale” sulle dinamiche tra i diversi interpreti della relazione. Complice di tale rilettura quanto avvenuto giovedì scorso a San Vittore quando il dott. Angelo Aparo ha iniziato i lavori al Reparto La Chiamata rendendo pubblici i miei commenti a caldo via WhatsApp relativamente ad una sua “relazione” su un componente del Gruppo:
Una “relazione scritta”, in qualità di psicoterapeuta e coordinatore del Gruppo della Trasgressione, sicuramente importante (in una prima prospettiva soggettiva che però qui non è interesse né intenzione mia approfondire, essendoci peraltro un processo per omicidio in corso) non fosse altro perché diretta – nelle intenzioni di chi gliela aveva richiesta – ad un Giudice della Repubblica italiana.
Una relazione scritta importante (anche in una prospettiva collettiva, sulla quale vorrei invece ancora soffermarmi) in quanto avente lo guardo diretto ad una persona che ha ucciso un’altra persona. Uno sguardo che io avvertivo essere non tanto quello dello psicoterapeuta quanto quello di un padre innamorato di uno dei (tanti) figli per i quali la vita gli ha richiesto di occuparsi.
E, nonostante tale innamoramento o forse proprio in virtù di tale innamoramento, una relazione scritta piena non solo di affermazioni certe ma anche di domande di senso, ugualmente importanti. Alle quali, dopo averci meditato per una buona ora, mi permettevo di aggiungere anche una mia.
Nel ricordare a tutti i presenti questo nostro scambio – tanto rapido quanto intenso – avvenuto il giorno prima, il nostro coach Juri chiudeva il suo intervento, al solito volutamente graffiante, con parole che più o meno suonavano così: “se io mi dedico a lui, questo equivale a trascurare la vittima? Se cerco tra le sue dinamiche, le sue pene e i suoi conflitti, questo significa mettere in secondo piano la pena per la vittima? Il dolore, i sentimenti dei familiari della vittima? ”.
Che è poi – a ben vedere – il dilemma esistenziale in relazione al quale la parabola del figliol prodigo ci invita a riflettere come padri, prima che come cristiani. Da una parte il figlio più giovane che ha arrecato il danno e chiede di essere ritenuto nuovamente degno di ritornare a casa. Dall’altra il figlio meno giovane, che ha subito anche lui l’offesa dell’abbandono e che ancora ne risente gli echi lontani, mai del tutto riparati.
Ecco, pensando in Chiesa stamattina per un lunghissimo secondo a tutte queste cose, immaginavo come sarebbe stato bello avere ancora qui a Milano Carlo Maria Martini. Per chiedere, come ultima pecorella del suo gregge, alcuni minuti della sua infinita saggezza nel sottoporgli, in Arcivescovado, un quesito oggi sempre di più stretta attualità: è possibile – come io ritengo – “tenere insieme” il sostegno al carcere duro ex art. 41-bis e contemporaneamente praticare la speranza dei percorsi di giustizia riparativa nell’incontro tra reo-un-tempo-mafioso e vittima? Oppure l’una idea è ontologicamente incompatibile con l’altro agire?
Chissà se, anche semplicemente rileggendo alcune sue parole, ci arriverà mai una risposta sul punto o quantomeno un segno da lui inviato, prima che questa primavera abbia inizio …
Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime