Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

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