All’inizio del nostro percorso ero genuinamente curioso di scoprire come e quali tematiche avremmo potuto sviscerare nel tragitto. C’è un delitto, il delitto per antonomasia, l’atto estremo, nel romanzo, certo, ‘ma dove ci porterà l’analisi intorno ad esso?’, mi chiedevo.
Siamo al terzo incontro quando nella piazza viene sbattuto, come un fulmine a ciel sereno (almeno per me), un nuovo interrogativo: Esiste il diritto al rancore? L’odore di pioggia era già nell’aria, non a caso a Milano in questi giorni piove parecchio, ma delle nuvole ancora nessuna traccia, eppure il fulmine si è abbattuto rumorosamente al centro del teatro del carcere di Bollate.
Esiste il diritto al rancore? Cosa vuol dire diritto al rancore? Posso odiare? Mi è riconosciuto? Io non so rispondere a tutte queste domande, sicuramente non ne ho la presunzione. Posso però dire che, se il conflitto esiste, esisterà anche il rancore di chi a quel conflitto soccombe.
Il conflitto non è sempre violento (certi progetti, come questo, vorrebbero proprio rendere ogni conflitto non violento) e il percorso che porta ad una diversa composizione dei conflitti passa necessariamente dal riconoscimento dell’altro e quindi anche del diritto al rancore della vittima e sorprendentemente (per alcuni) dal riconoscimento che anche gli autori di reato hanno del, e talvolta sono mossi dal, rancore.
Per questo motivo, per me il diritto al rancore esiste, ma non tanto (e non solo) come causa del crimine, ma soprattutto come punto di partenza per il riconoscimento dell’altro difficile. Riconoscere il diritto al rancore come parte dell’individuo è un passo verso il riconoscimento della dignità altrui, fondamentale per riconoscersi e modulare diversamente i conflitti, nel rispetto di questa. Perché proprio il rispetto della dignità altrui è la chiave per raggiungere una modulazione non violenta dei conflitti.
Ecco, più che diritto al rancore sarebbe forse più corretto parlare di diritto a sbagliare e correlato diritto alla risocializzazione come il più recente diritto penitenziario afferma. Questa coppia di diritti, che dovrebbe iniziare seriamente a farsi spazio nelle discussioni circa la funzione della pena, è una conseguenza naturale della riconosciuta corresponsabilità sociale al crimine, che a noi è piaciuto chiamare credito.
Facciamo un esempio. Sono convinto che se nel necessario conflitto tra i personaggi de I Fratelli Karamazov questi si fossero vicendevolmente riconosciuti il diritto al rancore, il diritto a sbagliare, si sarebbe probabilmente potuto prevenire il conflitto violento.
Ivan Karamazov propone un suo modo per prevenire il conflitto violento, e lo fa attraverso la critica della libertà per mezzo del Grande Inquisitore nel capitolo V, libro V, Parte II.
Il Grande Inquisitore, nel racconto di Ivan, critica la figura del Cristo per aver concesso la libertà agli uomini, i quali non ne sono all’altezza poiché spinti da bisogni e necessità terrene useranno tale libertà in modo egoista e meschino, per perseguire i loro personalissimi desideri. Propone invece un sistema diverso, basato su dare agli uomini uno tale che tutti credano e si inchinino davanti a lui, e che immancabilmente ciò avvenga tutti assieme. Propone un’esigenza di comunanza di adorazione che ponga fine ai conflitti per mezzo dell’idolo al quale tutti si inchineranno perché convinti dal vessillo di questo: il pane terreno. Che altro non è che l’esigenza di sicurezza.
Anche noi abbiamo parlato di libertà, grazie ad Ivan e soprattutto grazie al dottor Aparo, concordando sul fatto che ci sono una serie di prerequisiti necessari al raggiungimento di questa. Per me uno su tutti, la dignità.
In generale con dignità umana si indica una particolare posizione dell’essere umano nei confronti degli altri esseri della natura e, conseguentemente, una particolare considerazione e trattamento che ad esso dovrebbero essere riservati. È bene sottolineare che oltre una condizione empirica essa esprime una condizione normativa.
Nel senso comune ci sono oggi due concezioni della dignità che devono essere considerate, una positiva ed una negativa. La prima coincide all’incirca con quanto su espresso, la seconda invece, sommariamente, con l’esigenza di sicurezza. Non è detto che le cose non debbano coincidere.
Conseguenza della concezione negativa è la ricerca di un uomo-entità, un idolo per dirla come il Grande Inquisitore, cui obbedire, che decide per gli altri.
In entrambi i casi il fine ultimo è ottenere una comunità di uguali in cui esprimere la propria libertà. Nel primo caso sarà una comunità di destino di uomini democraticamente pari in cui la guida è assunta dalla legge-insegnamento che tutela la condizione normativo-empirica del singolo.
Nel secondo caso sarà invece una comunanza di adorazione sotto la guida di un capo-idolo, un despota.
Né io, né probabilmente la storia è ancora stata in grado di decidere quale percorso sia effettivamente il migliore.
L’inquisitore tace, aspetta per un po’ quello che il suo prigioniero gli risponderà. Il suo silenzio gli pesa. Ha visto che il prigioniero l’ha ascoltato per tutto il tempo, guardandolo dritto negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante e, con ogni evidenza, senza voler ribattere alcunché. Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, sia pur d’amaro, di terribile. Ma Egli all’improvviso s’accosta al vecchio e dolcemente bacia le sue labbra esangui, da novantenne.
Vincenzo Caragnano