Ho pensato subito che fosse un oggetto scelto magistralmente in quanto molto scenografico e simbolico nella nostra analisi de I fratelli Karamazov; uno specchio in cui due fratelli, che stavano rispettivamente ai lati opposti del nostro quadrato, si potessero rivedere l’uno nell’altro, in un incontro nuovo.
Seduta in un angolo del quadrato, come chi timidamente si affaccia ad un’esperienza intensa ma che vuole con tutte le sue forze vivere, vedevo inizialmente riflesso – secondo leggi della fisica che, come quasi tutti gli studenti di giurisprudenza, non comprendo – il volto di chi mi stava di fronte.
Poco dopo l’inizio dell’incontro, tuttavia, ho iniziato a scorgere qualcos’altro: un viso familiare ma dai confini sfumati, che, per quanto mi concentrassi, non riuscivo a tracciare in maniera definita.
Non era solo il fatto che fosse uno specchio giocattolo: non riuscivo a riconoscere quel volto. Continuando a seguire il discorso che dipanava la matassa intorno a me e intorno ai capitoli del romanzo, l’immagine si è via via definita, fino a restituirmi il mio stesso viso.
Non è facile ricomporre il volto di se stessi, analizzare quello che siamo, venire a patti con il proprio vissuto e con come si è vissuto, accettare chi siamo diventati e perché.
Per Dimitrij è accettare di essere più simile al padre di quanto desidererebbe; per Alesa il rassegnarsi al fatto che il suo conforto e compagno di vita è un Dio intangibile; per Ivan il cercare qualcosa che non c’è mai, e che se c’è non sembra volersi affiancare a lui; per Smerdjakov capire di essere diverso dai fratelli.
L’immagine nello specchio sorride con una punta di ironia, pensando al fatto che anche io e i miei fratelli – io, quarta di quattro, per la precisione – potremmo essere i fratelli descritti da Dostoevskij: complessi, con un vissuto comune ma che è stato elaborato in modi totalmente differenti e ci ha portato a costruire quattro identità che si incontrano e scontrano con un ritmo costante e in qualche modo, a dispetto invece dei fratelli del romanzo, armonico. Ognuno con il proprio carattere che certamente, una volta plasmato, contribuisce alla reazione agli eventi e alle sfide della vita; ognuno con il proprio mondo che, se in parte per i fratelli di sangue sembra coincidere nel periodo dell’infanzia, inizia poi a differenziarsi sempre più, soprattutto nel periodo in cui poi, come ci insegnano anche i detenuti del carcere di Bollate che abbiamo ascoltato, spesso si verificano gli eventi da cui siamo segnati e che tentiamo di elaborare, se siamo fortunati e dotati degli strumenti giusti, o da cui, nella maggior parte dei casi, tendiamo a scappare.
Alla fine del nostro incontro in carcere, nello specchio vedo con più chiarezza una me diversa: per me il “trucco” ha funzionato, e il dialogo con Marisa, Lilian, Stefano, Sebastiano e con tutti coloro che sono intervenuti mi ha regalato una visione di me più profonda e complessa.
Sono giunta quindi alla ferma conclusione che sì, Alesa è certamente figlio di suo padre: il trauma non viene infatti cancellato per come si reagisce ad esso: Fabio si sarebbe sentito ugualmente privato delle attenzioni dei genitori e abbandonato, anche se non avesse scelto di delinquere per sfogare la sofferenza.
Mi viene in mente l’esame di penale che ho appena dato: la nostra Professoressa ci teneva molto che noi imparassimo a fare l’analisi della fattispecie che troviamo nel codice sulla base di alcune voci (reato di danno/pericolo, comune/proprio e via dicendo). Un criterio dell’analisi era “indicazione della vittima del reato”, e la maggior parte dei delitti aveva una “vittima non visibile, cioè la collettività”.
Ecco, Alesa è una vittima meno visibile, ma non per questo inesistente. E allora la domanda per me più difficile che ci siamo posti è stata cosa cambiasse tra Smerdjakov e Alesa, tra me e Fabio: cosa dirotta il nostro comportamento tra male e bene, lecito e illecito?
La risposta che mi sento di dare è profondamente intrisa delle parole che ho ascoltato nei nostri primi due incontri: la solitudine.
Marisa aveva quella voce nella testa, Alesa ha un Dio che non lo lascia solo. La banale ma decisiva differenza è quell’amare e lasciarsi amare di cui parlava Don Gianluigi.
Alesa è figlio di Fedor, ma è un figlio che non è stato lasciato solo, o meglio, non si è abbandonato alla solitudine, che non le ha permesso di identificarsi con le cellule morte del suo cuore ma l’ha aperto all’incontro con l’altro.
Dimitrij chiude il cuore, operazione ben più facile e immediata, lo fa diventare di pietra. Ricordo che in una preghiera della messa, quando eravamo piccoli, Dio diceva “Vi toglierò il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”: è necessario un qualcosa di sovrannaturale, di straordinario, di diverso da noi, per rendere il nostro cuore sensibile all’altro. Questo, che la Bibbia chiama Dio, nella mia visione è invece qualunque cosa, persona o esperienza che sia in grado di scuoterci dentro, di smuoverci, di identificare le cellule di vita del nostro cuore come una TAC e di permettere loro di procreare.
Se invece siamo nelle condizioni di Fabio, di Stefano, di Alberto, risulta quasi facile – e che impressione dire che risulti facile, in una concezione del reato così polarizzata come è la nostra opinione comune – come abbiano dirottato, cambiato la rotta, verso il comportamento criminoso.
E, tenendo presente che come si diceva il gruppo della trasgressione comprende detenuti “modello”, non ho potuto fare a meno di notare e di sorprendermi quando Stefano ha condiviso come la sua rinascita sia iniziata con la sua prima carcerazione: una mano tesa. Nulla di più, è quello che è servito a Stefano per diventare l’uomo che avrebbe sempre voluto essere.
Il protagonista del romanzo per me è il padre: o meglio, è la sofferenza che il padre ha causato e che ciascuno dei figli, e ciascuno di noi figli, ha affrontato nella propria vita; quella sofferenza che farebbe venire la voglia di chiudere, indurire ulteriormente un cuore che già tende ad essere di pietra, perché essere vulnerabili è scomodo e ci tocca nelle corde profonde della nostra emotività; la sofferenza che fa maturare un credito nei confronti della vita, che consiste in amore, protezione, affetto, e che è possibile riscuotere solo con amore, protezione e affetto, rinvenibili dentro di noi e attraverso di noi ma, secondo me, solo grazie all’incontro con Altro: un amico, l’amore, Dio, un libro, la musica ecc. (Mi viene da pensare qui alle parole di Marisa, nel nostro primo incontro, al modo in cui lei sente di riscuotere il suo credito).
È Lei dunque la protagonista del romanzo, la Sofferenza che non lascia spazio per svilupparsi pienamente come persone umane ma agisce intrecciandosi con il carattere di coloro che colpisce.
Una protagonista ingombrante, che esce dalle pagine del libro per riflettersi in quello specchio in cui, giovedì, mi sono rivista anch’io, figlia e sorella che ha vissuto.
Siamo tutti persone umane.
Angelica Brizzi