Un auditorium dalle alte pareti nere, privo di finestre e illuminato da numerosi fari dinamici sul soffitto.
La disposizione delle sedie alla base del palco pianeggiante, mutava in alcuni momenti da quadrato a cerchio, pronta ad ospitare gruppi di persone estranee a quel mondo. Altre volte venivano poste al centro di un focolare che vedeva l’incontro tra autore e vittima di reato.
E sarebbe forse stata la curiosità beffarda di un momento a portarli lì dentro più e più volte. Chi da vent’anni, chi da pochi mesi o giorni, s’accingeva a invadere spazi che lo Stato riservava a coloro che magari, erano destinati a passarci il resto della vita in quel posto.
Un’esperienza di vita, che seppur non mai fine a sé stessa per alcuni quella diveniva totalizzante.
V’era il pretesto di un libro alla base e la volontà di capirne il contenuto, scrutarne i personaggi, i rapporti, i dissidi interiori e spirituali.
Uno psicologo a tratti simpatico, a tratti un po’ burbero, alternava momenti di ironia a riflessioni più profonde, sdrammatizzava la timidezza di studenti e detenuti miscelandola alla gravità dei loro reati.
Girovagava in cerca della parola altrui, rotolava seduto per terra ai piedi dei suoi interlocutori e li guardava fissi negli occhi, dimenandosi nella complessità dei loro concetti.
Legato da una stretta amicizia, se ne stava seduto invece, dopo aver dato inizio alle danze dell’incontro, un PM, anch’egli trasgressore di un modello che la società agognerebbe quale “persecutore categorico” del crimine.
Sembrava la personificazione di un’interpretazione estensiva dell’art 358 c.p.p, tanto era raro, laddove non si limitasse a compiere solo “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” ma che li proseguisse anche dopo averne e ottenuto l’irrogazione di una pena. Si trattava di un indagine diversa però, non più basata sul fatto di reato e della sua responsabilità, ma sulla persona condannata e ormai reclusa e i suoi possibili riferimenti con la società civile.
Cosa ci facesse un PM lì dentro sarebbe stato difficile capirlo, eppure insieme allo psicologo era l’autore di ciò che avveniva in quel carcere.
A trasgredire dalle regole sociali, non bastavano di certo loro. A sostenerli in questa loro “ricerca” c’era persino un sacerdote e due vittime di reato, esattamente coloro che in genere tessono dal dolore la bandiera del giustizialismo. Ebbene neppure loro rispettavano tale schema comune, al punto tale che improvvisamente finirono per trovarsi in triangolo tra scienza, norma e spiritualità. Qui l’oggetto dell’indagine li poneva faccia a faccia con gli autori del crimine, c’era da riflettere sul loro “diritto al rancore”, c’era da capire come negli anni le vittime avessero potuto travasare il dolore, la rabbia e lo strappo in un gesto d’amore, in una carezza verso coloro che quella sofferenza avevano causato.
Intorno a loro altri membri del Gruppo della Trasgressione, persone sagge e studenti pronti a dare i loro contributo sull’analisi dei rapporti familiari dei personaggi de “I fratelli Karamazov”. Nel cerchio del palco i detenuti si alternavano, propensi a riflettere su ciò che li aveva portati a delinquere, si sentivano in debito e in credito allo stesso tempo, spesso finivano per immedesimarsi nei personaggi. Era necessario tornare bambini, andare alle radici della loro esistenza e affrontare quei vuoti che avevano segnato le loro vite.
In platea altri detenuti sedevano, chi più in vista chi meno, qualcuno amava isolarsi in alto o cambiare spesso postazione, alcuni d’un tratto sparivano, altri giungevano ad assistere, quasi come se quello che avveniva sul palco con i loro compagni facendo da collante li attraeva, ma allo stesso tempo non era necessario mostrarsi interessati o rendersi partecipi. E chissà se in futuro qualcuno loro un domani si sarebbe seduto su quel palco a vivere in prima persona quell’esperienza.
L’umiltà, la genuinità, la necessità di operare senza manie di proselitismo, mi meravigliava e non poco. Non era il Gruppo a “vendersi” per farsi notare, ma erano gli altri, forse i più sensibili a sentirne il delicato suono di canto corale e armonioso.
In uno degli incontri, il caso fece sì che nel cuore dei lavori di condivisione il Gruppo fosse colto in “flagranza” da qualcuno che seppur lì di passaggio, né udì la voce. Si trattava del neo eletto Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che, nella fase conclusiva della sua visita al carcere, irruppe improvvisamente alle spalle dei partecipanti.
Nessuno li aveva chiamati! Erano le istituzioni a sedersi nella cerchia al fianco dei detenuti per assistere, per conoscere il tipo di attività, la delicatezza, l’umiltà e allo stesso tempo l’alto valore morale che tale “missione” poneva in sé.
Non erano più le istituzioni, seppur garantiste, a dover dare qualcosa ai detenuti, ma erano questi ultimi a presentarsi, a insegnare, a restituire qualcosa che forse non gli era mai stato dato e che, ciò nonostante, potevano condividere con orgoglio.
Era il frutto di un sostegno radicato della loro crescita, della volontà di ricucire lo strappo di un gesto immorale, che poneva quale fine ultimo l’approdo ad un autentico senso di riscatto sociale.
Antonio Lucanto
(studente di Giurisprudenza Università degli Studi di Milano)