Emozioni e abuso

Innanzi tutto desidero ringraziare il Dott. Aparo per il testo che ci ha consegnato: “Istruire una prossimità”, scritto che mi permette di fare ulteriori riflessioni sul mio passato deviante e carico dell’umanità di chi crede realmente che risanare il tessuto sociale lacerato dall’abuso sia utile non solo a vittime e carnefici ma anche a tutti coloro che si impegnano costantemente nella ricerca della verità. Questo scritto è per me un pozzo pieno d’acqua per placare l’arsura, sete che si identifica nella continua ricerca della coscienza smarrita, cammino che ritengo non abbia mai fine e che pertanto vada nutrito quotidianamente.

Come tanti altri miei compagni, fino a pochi giorni fa io ritenevo che, all’epoca degli abusi, la vittima fosse per me solo un ostacolo da abbattere per raggiungere i miei obiettivi. E intanto pensavo di non provare alcuna particolare emozione verso “l’ostacolo”. Per anni mi sono detto che all’epoca dei reati la vittima era stata per me un oggetto estraneo senza nome. Questa mi è sembrata per anni la spiegazione della facilità con cui insultavo la vita mia e altrui, della anestesia che mi permetteva di combattere la mia guerra per conquistarmi ciò che la vita mi aveva negato.

Questa convinzione di non provare emozioni durante l’abuso si era talmente consolidata nella mia mente che mi ha accompagnata fino a pochi giorni fa! E’ stato grazie ai dubbi sollevati dal dott. Aparo in merito a questa convinzione, che tra l’altro accomuna quasi tutti gli abusanti, che ho iniziato a rifletterci a fondo.

E così mi si è aperto un mondo che avevo completamente trascurato e con il quale sto imparando a dialogare. Mi sono reso conto che non è possibile non provare emozioni, specialmente quando uccidi un uomo: sarebbe disumano!

Allora perché, inconsciamente, adottavo questo sistema? L’unica spiegazione che riesco a darmi è che anche il peggior criminale non potrebbe convivere con l’enormità derivante dall’uccisione di un proprio simile e quindi per una forma di protezione elabora un meccanismo di difesa che gli consente di non sentire prossimità con la vittima.

Prendere confidenza con le emozioni che ho seppellito all’epoca dei fatti è un processo doloroso ma catartico, che mi aiuta a mettere in comunicazione il ragazzo “che non voleva sentire” con l’uomo in evoluzione quale mi sento.

Di tutti gli attori che vengono coinvolti nella spirale dell’abuso è certamente alla vittima – o a un suo parente – che si dovrebbero indirizzare le maggiori attenzioni, perché come dice il Dott. Aparo: “perdere il proprio caro per volontà di una marionetta mossa dal delirio di onnipotenza genera un tormento che non si placa”.

Io ho avuto il privilegio di partecipare al progetto “Sicomoro”, il quale ha messo a confronto vittime e carnefici. Quando ho fatto questa esperienza, sette anni fa, avevo già iniziato da tempo il mio viaggio nella profondità del male che avevo causato. Ma quando mi sono trovato di fronte a persone in carne e ossa, con tutto il loro carico di dolore che traspariva dagli occhi ma anche da ogni gesto o parola che pronunciavano, tutti gli abusi da me commessi, come un boomerang, mi sono piombati addosso. L’impatto con la realtà mi ha destabilizzato per parecchio tempo: mi sono sentito l’essere più schifoso della terra.

Ma poiché la vita, come una madre, non smette mai di accogliermi con la sua generosità, l’aiuto che necessitavo è arrivato proprio dai familiari delle vittime, che al termine del viaggio fatto insieme e durato tre mesi, mi hanno donato un abbraccio che si è scolpito indelebilmente nel mio cuore. Ritengo che loro abbiano (naturalmente mi riferisco a quelli che sono pronti per iniziare un processo di guarigione) un vitale bisogno di vedere nel carnefice il risveglio della coscienza, forse perché la vita che è stata loro strappata sta generando una nuova vita nell’abusante e questo rende un po’ meno traumatica l’assenza del proprio caro.

Da qualche mese ho stretto un bellissimo rapporto con Elisabetta, una mamma alla quale un folle che guidava un’auto ha ucciso il figlio di soli 15 anni! Tra Elisabetta e me sta nascendo una relazione che si avvicina alla parentela; infatti, non so grazie a quale magia, quando ci sentiamo o vediamo, spesso ci chiamiamo “sorella e fratello”. Io, che sono un ex assassino, vengo chiamato fratello da una donna cui hanno ucciso un figlio… è pazzesco! Ma anche questa è una meraviglia della vita. Lei è una delle mie più fervide sostenitrici e preferirei bruciare vivo piuttosto che arrecarle altro dolore. E così avviene che invece di essere io a donarle sollievo è lei che mi aiuta a riempire di nobili contenuti la mia esistenza. Grazie Elisabetta e grazie a tutti quelli che mi stanno aiutando a riscrivere la mia storia con i colori dell’amore.

Sono pienamente convinto, per averlo sperimentato personalmente, che il primo segnale di “cambiamento di rotta” avviene dentro noi stessi. Senza questo desiderio profondo di evolvere nessuno può aiutarci perché ci si trova in una condizione di “sordità e negazione”. Dopo questo primo e fondamentale step è altresì necessario trovare delle guide che ci indirizzino verso i valori su cui poggia la civiltà, una sorta di moderni Virgilio che ci tendano la mano nell’arduo percorso di risalita dagli inferi.

Naturalmente l’apporto delle figure istituzionali è altrettanto fondamentale per riappropriarsi del valore rappresentato dalla giustizia e dalla legalità. Lassismo, menefreghismo e addirittura indifferenza delle Istituzioni, spesso sono l’ago della bilancia in negativo nel recupero del reo, perché è evidente che chi o coloro che rappresentano un punto di riferimento, se abusano del proprio potere per gestire i loro interessi, incidono in modo estremamente sfavorevole nella mente già deviata dei criminali, la quale fa un semplice ragionamento di comodo: “poiché se ne fregano loro perché dovrei impegnarmi io?” Quindi, per arginare lo sconvolgimento che provoca l’abuso è necessario l’apporto di tutti gli uomini che hanno a cuore la vita. Inoltre, ritengo che perseguendo questo nobile cammino possiamo solo arricchirci e riappropriarci della libertà che a causa di tutti gli abusi perpetrati in passato è stata svilita, violata e maltrattata, lasciandoci in una condizione di apnea.

Non c’è dubbio che la situazione delle carceri (Opera è da una decina d’anni un’eccezione) non favorisce l’evoluzione del reo, soprattutto a causa della scarsità di strumenti trattamentali atti a sostenere la rielaborazione critica del passato criminale; anche la pochezza di progetti a lungo termine non ne incoraggia il reinserimento e tutto ciò ostacola il cambiamento.

Naturalmente questo non deve diventare un alibi per scaricare le proprie responsabilità sugli altri, anche perché, a mio avviso, il processo interiore che ognuno deve compiere per migliorarsi non può arrestarsi per nessun motivo. Mi piace pensare a una futura alleanza tra detenuti e figure istituzionali: i primi con l’obiettivo di diventare cittadini, gli altri per elevare il livello di giustizia in un mondo in cui la menzogna sembra prevalere su tutto.

Alessandro Crisafulli

Istruire una prossimità

Andare oltre

Quando ho concluso la laurea magistrale, l’idea di iscrivermi ad una scuola di specializzazione non mi sfiorava nemmeno. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con lo studio: studiavo più per dovere che per piacere, e il fine ultimo era il dover dimostrare agli altri, e a me stessa, di essere intelligente. Ai tempi del liceo, credevo che l’intelligenza fosse determinata solo ed esclusivamente dalla capacità di studiare e, di conseguenza, i voti che ricevevo diventavano, per me, un giudizio oggettivo e inconfutabile sulla mia intelligenza. Durante l’università, il mio rapporto con lo studio è migliorato: probabilmente grazie agli argomenti, che riuscivano a stimolare di più la mia curiosità e voglia di imparare. Tuttavia, la connessione tra studio e intelligenza era sempre presente e vivevo ogni risultato di esame come un giudizio sulla mia persona. Di conseguenza, non appena ho finito di discutere la tesi ho tirato un sospiro di sollievo: finalmente era finita.

Cosa è cambiato in questi tre anni? Cosa mi ha spinto a decidere di mettermi in gioco nuovamente e intraprendere un percorso di altri quattro anni?

So che sembra assurdo, ma credo che la “colpa” sia del carcere. O meglio, del Gruppo della Trasgressione. Quando ho iniziato il tirocinio post lauream al Gruppo della Trasgressione, non credevo che sarei riuscita a terminare le ore necessarie per il tirocinio: lo psicologo psicoterapeuta fondatore del Gruppo, Angelo Aparo, era, ed è ancora, un professionista alquanto particolare. Io volevo semplicemente svolgere le mie ore di tirocinio il più velocemente possibile, passando per lo più inosservata ma non mi è stato permesso e oggi, di questo, gli sono grata.

Il dottor Aparo lavora da più di quarant’anni come consulente psicologo nelle carceri presenti nel territorio milanese e nel 1997 ha fondato il Gruppo della Trasgressione, che può essere definito come un tavolo di confronto che utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza da cui generare riflessioni sull’essere umano e a cui siedono studenti, detenuti e liberi cittadini.

Nel suo ruolo di coordinatore del Gruppo, il dottor Aparo pretende partecipazione da tutti i presenti al tavolo. Per me, questo, è stato difficilissimo: in primo luogo perché non mi sono mai sentita a mio agio a parlare di fronte alle persone. Ho sempre il timore di dire una cosa sbagliata o in modo poco chiaro. In secondo luogo perché sono partita con il piede sbagliato: in quanto tirocinante pensavo di dover imparare solamente dal dottor Aparo, ci ho messo un po’ di tempo a capire che in realtà, per poter sfruttare al massimo il mio tirocinio, dovevo aprirmi al Gruppo e alle sue dinamiche. Non è stato facile, ancora oggi ci sono dei momenti in cui faccio fatica e mi sembra di brancolare nel buio.

Il Gruppo è stata la mia prima esperienza di psicoterapia: gli argomenti trattati mi hanno permesso di scoprire e comprendere parti di me che non conoscevo, o che forse non volevo vedere. In particolar modo, al Gruppo ho imparato a confrontarmi con le mie emozioni e, soprattutto, a utilizzare il mio sentire come punto di partenza per elaborare un pensiero critico e costruttivo.

Ricordo ancora l’agitazione di quando sono entrata per la prima volta nella casa di reclusione di Opera. Ho impressi nella memoria gli sguardi, le sensazioni e i colori di quel giorno, ma non sono sicura di essere in grado di spiegarli. Avevo uno strano peso nello stomaco quando mi sono seduta al tavolo con diversi ergastolani. Pensavo di trovare sguardi freddi e calcolatori, mancanza di empatia e tentativi di manipolazione, invece ho trovato sguardi timidi e riservati, occhi emozionati, persone alla ricerca della presenza dell’altro. Ho impiegato un po’ di tempo ad abbassare le difese che mi ero costruita, basate principalmente su preconcetti e pregiudizi, e a concedermi di vedere l’altro.

Non so bene cosa mi riserverà il futuro ma l’idea di lavorare in carcere ormai è abbastanza radicata dentro di me. L’aspetto che trovo più interessante della psicoterapia è la costruzione di una relazione e credo che questo sia un aspetto fondamentale in un mondo come quello del carcere. L’articolo 27 della costituzione prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; le case di reclusione investono quindi in progetti, formulati molto spesso da cooperative o associazioni esterne, che consentano ai detenuti di imparare un lavoro che possa permettere loro di ottenere una stabilità una volta conclusa la pena, con la speranza che questa stabilità li aiuti a non commettere più reati. Il lavoro viene quindi spesso considerato come punto cruciale nel successo della rieducazione, ma io credo che questa sia la strada più facile e meno dispendiosa in termini di energia mentale.

Trasgredire deriva dal latino e letteralmente significa “andare oltre”. Nel linguaggio comune, si utilizza per definire comportamenti o azioni che vanno oltre il limite consentito solitamente dalla legge, ma in alcuni casi anche della morale. Commettere un reato equivale a compiere una trasgressione, ma cosa spinge una persona a farlo?

L’opinione che mi sono formata io è che una persona commette un reato quando non è più in grado di riconoscere nell’altro un suo simile. L’altro diventa un oggetto e, in quanto tale, è possibile abusare di esso. Credo quindi che la “rieducazione” di un detenuto debba partire dalla costruzione di una relazione che possa permettergli di identificarsi nuovamente nell’altro. Il riconoscimento reciproco comporta un senso di appartenenza che è necessario per sentirsi parte della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

La relazione, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nella creazione di un progetto che permette alle persone di sentirsi credibili agli occhi degli altri e di avere un ruolo riconosciuto da altri, considerati pari. Sentirsi parte di una collettività ci aiuta a condividere il peso delle difficoltà o dei fallimenti, personali e non, e ci permette di sopportare meglio la fatica necessaria al rapportarsi con i conflitti che si generano in noi.

Uno degli aspetti con cui mi confronto spesso in carcere è la “facilità” con cui si precipita nella strada della devianza, le storie che sento sono molto simili: si inizia quasi per gioco, commettendo piccoli reati che altro non fanno che anestetizzare il cervello, facendo diventare l’abuso nei confronti dell’altro l’unico mezzo disponibile per ottenere un riconoscimento illusorio e una sensazione di potere. La devianza è una strada relativamente facile, in cui molto spesso si ottiene tutto e subito, e questo non basta mai. Perché forse, sotto sotto, si sente di non stare facendo alcuna fatica ed è necessario fare fatica per sentirsi appagati.

La costruzione di una relazione sana ci permette di sentirci accolti, accuditi e accompagnati nelle nostre fatiche e di riscoprirci consapevolmente responsabili di esse. La relazione è un contenitore sicuro, nel quale i conflitti possono essere un punto di partenza per una crescita consapevole.

Leggendo “Domanda e risposta” di Sergio Erba, mi sono trovata a riflettere sull’importanza di costruire una relazione tra terapeuta e paziente nella quale la responsabilità della relazione stessa sia distribuita equamente su entrambi. L’istituzione non attribuisce al detenuto nessuna responsabilità, se non quella del reato per cui è condannato, e in questo modo non gli permette di riconoscersi in qualcosa ma alimenta il suo isolamento ed estraniamento dalla società.

Gli anni al Gruppo della Trasgressione mi hanno insegnato che la costruzione di una relazione terapeutica è possibile anche all’interno di un carcere e, soprattutto, la conoscenza di sé è parte fondamentale del processo.

La volontà di approfondire alcuni aspetti di me stessa e riuscire a convivere in modo sereno con essi mi ha spinto ad intraprendere un percorso di analisi personale prima, e la decisione di iscrivermi ad una scuola di psicoterapia dopo.

Sono arrivata al Ruolo un po’ per caso, sentivo di avere il bisogno di iscrivermi ad una scuola perché gli strumenti che avevo non mi bastavano più e mi era, ed è, tornata la voglia di studiare, approfondire e incuriosirmi. Allo stesso tempo però avevo mille dubbi: sarei stata in grado di essere continuativa per quattro anni? E se avessi scelto un approccio non adatto a me? Come faccio a sapere che sarà la scelta giusta?

Credo che uno degli aspetti che mi ha portato a iscrivermi al Ruolo sia, per rimanere in tema, la responsabilità che mi è stata data nel momento della scelta. Questo mi ha consentito di poter essere sincera con me stessa e consapevole di aver scelto in prima persona, per un interesse mio e senza la possibilità di crearmi scuse.

Questo primo anno è stato intenso ed è coinciso con alcuni aspetti importanti della mia vita, tra cui, il compiere trent’anni, la decisione di sposarmi e la perdita di mio nonno. La scuola è stata per me fonte di conoscenza, confronto e ispirazione. Ha giocato anche un ruolo nella mia relazione terapeutica perché mi ha permesso di riscoprirmi paziente ed è stato molto faticoso: come si fa ad essere contemporaneamente paziente e apprendista terapueta? Chissà se il mio terapeuta mi porterà in supervisione? Che tipo di paziente sono io?

Mi sono divertita ad interrogarmi su queste domande e ad interrogare anche il mio terapueta e credo che questo sia stato utile alla nostra relazione.

In conclusione, considero l’inizio di questo percorso come l’inizio di una trasgressione: andare oltre i limiti che mi sono creata e permettermi di crescere sia come persona che come futura terapeuta. Credo che la trasgressione faccia parte dell’essere umano e, se compresa, riconosciuta e incanalata in modo costruttivo, possa essere una spinta potente nella costruzione di un equilibrio personale.

Dopotutto, anche Galileo Galilei è stato un trasgressore, giusto?

Anta Saccani

Il Gruppo della Trasgressione

 

Una lunga notte

All’improvviso riapro gli occhi. È ancora buio. In un attimo realizzo che non mi trovo nella mia cella: infatti sono in permesso e quindi stavo dormendo in un luogo estraneo. Tutt’intorno regna il silenzio assoluto; allora che cosa mi ha svegliato? Una sensazione di allarme mi pervade; d’istinto allungo la mano verso il comodino a fianco al mio letto per guardare l’ora sul display del telefonino: è l’una. Nel mentre noto che ho ricevuto, quattro minuti prima, due messaggi; la sensazione di allarme aumenta e viene confermata dal testo dei messaggi.

È Zeno che mi scrive: sua madre l’ha cacciato di casa. Zeno (uso un nome di fantasia per tutelare la sua privacy) è un ragazzo ancora minorenne che sta vivendo un periodo difficile e con il quale mi sto relazionando da qualche mese. Sta vagando, incazzato ma anche un po’ spaventato, per il suo quartiere, che a quell’ora è popolato solo da sbandati in cerca di un surrogato di felicità da consumare a basso prezzo. Il rischio di commettere qualche cazzata è enorme, ma Zeno non ha ancora intrapreso la “strada senza ritorno” perché dentro di sé è consapevole di essere sul ciglio del burrone. Pertanto, dopo averci  riflettuto per un bel po’, dimostrando maturità e una buona dose di umiltà – perché alla sua età è difficile ammettere di avere bisogno degli altri -, decide di contattarmi; ma è quasi l’una di notte e quindi, per non disturbare troppo, invece di telefonarmi mi invia due messaggi, il primo a distanza di un minuto dal secondo. Immediatamente gli rispondo, e così inizia una lunga notte.

La nostra comunicazione  in principio si svolge solo attraverso messaggi; lui si sfoga esternandomi tutto il suo malessere e la difficoltà di rimanere ancorato alla vita che pare gli stia sfuggendo. Le sue parole mi allarmano sempre di più; vorrei andare  a prenderlo, ma non posso uscire di casa perché una delle prescrizioni che mi ha dato il magistrato mi impone di stare a casa dalle 22 alle 7 del mattino seguente. Allora decido, a mia volta, di chiedere aiuto ai miei compagni del Gruppo della Trasgressione.

All’appello risponde prima Eleonora e subito dopo Alessandra: entrambe conoscono Zeno. Chiedo  loro se sono disposte ad andare a prendere Zeno per portarlo da me e immediatamente si rendono disponibili. A quel punto chiamo  Zeno sperando che mi risponda poiché è restio a parlare al telefono. Gli prospetto la situazione e lui, purtroppo, rifiuta  perché non vuole dare fastidio… Naturalmente gli faccio capire che per me è un piacere e aggiungo che è normale dare una mano a un amico. Ma Zeno è irremovibile, mi dice di stare tranquillo perché ha un posto dove dormire: il box di un suo amico. Nel frattempo anche Alessandra ed Eleonora cominciano a comunicare con lui, e così, lentamente, Zeno si tranquillizza. Questa situazione va avanti sino alle quattro, finché lui stesso ci dice che sta meglio e che è il caso che andiamo tutti a dormire… Prima di lasciarci mi dice che l’indomani, o meglio, in mattinata – data l’ora – avrebbe chiesto a suo padre (i suoi sono divorziati) se lo ospitava e che mi avrebbe chiamato per darmi conferma. Alla fine mi saluta ringraziandomi e mi  dice “ti voglio bene”. Queste ultime tre parole, così potenti nella loro semplicità, penetrano nel mio cuore e… mi commuovo.

Alessandra ed Eleonora sono state due alleate preziosissime; insieme abbiamo fatto squadra e siamo riusciti a contenere una situazione che poteva degenerare. Questa è la forza del Gruppo della Trasgressione: poter contare su persone competenti, motivate e disponibili a prendersi cura di chi è in difficoltà. Sono estremamente orgoglioso di far parte di questo gruppo.

Questa vicenda mi ha fatto vivere delle emozioni che non avevo mai provato poiché mi sono trovato a dover svolgere la funzione di genitore, cosa per me nuova visto che non sono padre. Ho potuto toccare con mano cosa può provare un genitore quando è in ansia per il proprio figlio e la gioia che si prova quando sai che è in salvo, anche se non definitivamente.

Naturalmente i problemi di Zeno non sono magicamente scomparsi. Sarebbe stupido illudersi che le problematiche di un ragazzo che ha vissuto un’infanzia difficile, le cui conseguenze si stanno manifestando nell’adolescenza, vengano cancellate con un colpo di spugna. Purtroppo è probabile che si troverà in altre situazioni rischiose, in cui un passo falso potrebbe compromettere in modo rilevante il suo futuro. Pertanto, il nostro dovere di adulti è quello di accompagnarlo in questa complicata fase della sua esistenza, riconoscendolo innanzitutto come persona e infondendogli quotidianamente quella fiducia in se stesso che lo aiuti a non sentirsi inadeguato.

Io sono certo che Zeno ce la farà a non essere risucchiato dall’ambiente criminale: è troppo intelligente per farsi fottere la vita da quegli stronzi che cercano di sedurlo facendogli credere che l’esistenza stessa vada presa a morsi e che il lavoro, l’impegno, la serietà e la responsabilità sono cose inutili da coltivare.

Come promesso, la mattina successiva Zeno mi ha chiamato e mi ha detto, con entusiasmo, che sarebbe andato ad abitare da suo padre.

Abbiamo fatto solo un piccolo passo avanti, ma ciò che conta è che finalmente Zeno si è  incamminato verso la libertà, quella libertà che nasce dai valori di civiltà su cui poggia l’essenza della società e che Zeno dovrà conquistarsi giorno per giorno costruendo, assieme alle persone che fanno il tifo per lui, la piattaforma che gli consentirà di fondare il suo progetto di vita.

Opera, 12 maggio 2017

                  Alessandro Crisafull

Storie

Fiori per la Coop, Paolo e Marisa

Cari amici e compagni del gruppo, durante il confronto avuto il 20/03 mi sono reso conto che siamo chiusi in questo luogo di sofferenza e spesso ci confrontiamo con persone che hanno subito dolori atroci e indelebili come il signor Paolo e la signora Marisa. Quando parlo con loro mi sento trasmettere serenità e amore specialmente dal signor Paolo, che potrei ascoltare per ore.

Io, a differenza di altri compagni, ho un residuo di pena di 3 anni e nonostante ciò sono orgoglioso di frequentare il gruppo della trasgressione perché posso alimentarmi di cose belle che un domani potrò trasmettere a persone al di fuori di questo luogo.

Riflettendo sulla questione della cooperativa, se ci sarà la possibilità, vorrei mettere in atto un progetto di floro vivaista in quanto ho 30 anni di esperienza.

Ribadisco, a me manca poco al fine pena, potrei starmene in cella, ma oggi sono una persona che si sente pronta ad aiutare il prossimo.

Mi ha molto colpito il discorso di andare a parlare nelle scuole in merito alla prevenzione del crimine, ma non scordiamo i femminicidi di amori mancati perché bisogna far capire che il vero amore non uccide.

Io sono pronto a darvi tutto il mio sostegno e supporto, anche lavorativo, per cercare di creare e lasciare all’interno della cooperativa qualcosa per altri detenuti che come me sono caduti. Noi non siamo dei falliti, siamo persone che si sono perse. Occorre forza e determinazione per il nostro cambiamento in persone oneste e costruttive.

Antonio Acampa

Ritorno dal nulla

Inizialmente, i miei atteggiamenti e stati d’animo erano dovuti a situazioni che non mi piacevano. L’arroganza ha iniziato a manifestarsi quando, senza il mio volere, mi portavano a casa di mia nonna, dove c’erano regole da rispettare diverse da quelle a casa dei miei. Ricordo che non accettavo i suoi rimproveri, non la riconoscevo come sostituto dei miei genitori.

Era una donna molto autoritaria: le cose, o si facevano come diceva lei oppure si arrivava a uno scontro senza mai dei chiarimenti. Per me ha fatto tanti sacrifici, ma credo che il mio rapporto difficile con lei non sia stato solo per colpa mia. Negli anni di scuola, quando c’erano gli incontri genitori-professori, mi ritrovavo spesso senza nessuno, tranne qualche volta quando veniva lei; questo mi faceva sentire diverso, inferiore, emarginato.

Con il tempo ho iniziato a convivere con quel disagio, alzando dei muri per non sentire più nulla. Ho iniziato a fregarmene di tutti e a pensare di poter fare quello che volevo senza dar conto a nessuno. Col tempo questo è diventato naturale, ti abitui a vivere così e non ti accorgi della tua trasformazione. La tua coscienza qualche volta ti manda segnali, ma non l’ascolti, non ti ascolti, non ascolti nessuno.

Per ottenere il riconoscimento di cui avevo bisogno ho iniziato a superare i limiti morali senza averne diritto. Così mi sono trovato imprigionato in un malessere costante. A quel punto, l’unica cosa che fai è cercare giustificazioni, le trovi usando droghe e alcol mentre l’arroganza e l’indifferenza diventano il tuo stile di vita.

La droga ha avuto un ruolo importante nella mia vita sin da piccolo, la vedevo usare in casa mia ed era normale; mia mamma è morta di overdose giovanissima mentre mio padre ne ha fatto uso per molti anni.

Ho iniziato ad usarla per far sentire a mio padre come mi sentivo io nel vedere lui. Ogni giorno morivo per stare vivo, penso che lo sballo non sia nient’altro che scappare dalla realtà, dai problemi o dal semplice fatto che non ti senti all’altezza di quello che ti circonda, hai paura di guardarti dentro e non vuoi sentire il tuo dolore. Ogni giorno è sempre la stessa cosa, ti fai schifo, ti senti una merda, ma non sai come uscirne, non sai e non vuoi vedere oltre a quel malessere da dove non è facile uscire.

Devi scavarti dentro, toccarti l’anima e sentire la tua coscienza ma soprattutto chiedere aiuto senza aver paura di essere giudicato. Solo così puoi realmente vivere la tua vita.

Oggi voglio essere, non avere. È faticoso dopo aver vissuto una vita credendoti un eletto ma è possibile iniziare ad ascoltare la tua coscienza, che ti indica la strada da prendere, che ti porta a casa se la vuoi trovare. Tenerti dentro le tue paranoie e i tuoi stati d’animo non serve a niente e tutte le volte che l’ho fatto mi sono sentito male, sprofondando sempre di più.

Invece bisogna tirare fuori tutto e dissipare la nebbia, solo così si possono vedere i colori che ti circondano. Bisogna prendersi le proprie responsabilità e non scaricarle sugli altri, così facendo si prende in mano la propria vita.

Oggi, con la consapevolezza di quello che è stato, piuttosto che isolarmi e rimanere chiuso nel mio buio, ho deciso di uscire dall’oscurità e di dare un senso alla mia vita. Che strana la vita! Ho iniziato a sentirmi libero qui dentro, cosa che mi permette di migliorare ogni giorno che passa, dando del tempo alla società dopo tutto quello che le ho tolto.

Nella mia vita ho fatto tanti errori, ma può succedere che un giorno mi ricorderanno per quello che sono oggi e non per quello che ho fatto in passato.

Cristian Silvagna

I Sentieri dell’arroganza

 

Istituto Barbara Melzi

Da IL BUSTESE del 4 maggio 2024

Daniele Mencarelli al “Barbara Melzi”
Gli studenti dell’istituto di Legnano si confrontano con il poeta e scrittore sul tema dell’adolescenza. Martedì 7 incontro “Sui sentieri dell’arroganza” con il “Gruppo trasgressione” che lavora nelle carceri di Opera e Bollate

Daniele Mencarelli al “Barbara Melzi”

Al grande pubblico è noto per la serie di Netflix “Tutto chiede salvezza” e gli studenti dell’istituto Barbara Melzi lo incontreranno giovedì 9 maggio (ore 10). Saranno gli alunni delle classi terze, quarte e quinte delle superiori a dialogare con il poeta e scrittore Daniele Mencarelli. «Gli studenti hanno letto i suoi libri e l’incontro vuole essere un confronto sui grandi temi dell’adolescenza, della salute mentale e del desiderio come motore di una vita bella, giusta e vera», commenta il dirigente Flavio Merlo.

Ma due giorni prima i ragazzi del Barbara Melzi sono coinvolti in un altro evento. Martedì 7 maggio alle 10 gli studenti di terza media portano avanti il progetto di educazione civica con la partecipazione del “Gruppo della trasgressione” che lavora da anni nelle carceri di Opera e Bollate.
Titolo dell’incontro “Sui sentieri dell’arroganza”. Parteciperanno i referenti del Gruppo (psicologi, giornalisti, magistrati), alcune persone detenute al Carcere di Opera e dei parenti di vittime della criminalità organizzata. La proposta si inserisce anche nelle azioni avviate per la costituzione di un presidio scolastico di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.

Il Gruppo della trasgressione

Il Gruppo della Trasgressione comprende un’associazione e una cooperativa, costituite da detenuti, studenti universitari e comuni cittadini. Il gruppo agisce nelle carceri di Bollate e Opera e all’esterno con l’obiettivo di rendere riconoscibili i sentimenti e gli stati d’animo che caratterizzano i percorsi della devianza.

Il gruppo studia, progetta e lavora con chi ha commesso reati: questo giova all’equilibrio sociale e protegge la salute e il bene pubblico più della separazione garantita dalle mura del carcere.

All’interno dell’attività di sensibilizzazione e di mediazione fra carcere e società, gli incontri tra il Gruppo della Trasgressione e le scuole offrono agli studenti di scuole medie inferiori e superiori un’esperienza utile alla prevenzione del bullismo e delle dipendenze, ma anche e soprattutto a vivere in modo tangibile il piacere della responsabilità.

Dunque l’obiettivo della prevenzione viene combinato con la rieducazione del condannato: gli incontri favoriscono il percorso evolutivo dell’adolescente permettendogli di svolgere una positiva funzione sociale nei confronti del detenuto e, allo stesso tempo, aiutano i detenuti a riappropriarsi della loro identità di adulti, intanto che forniscono un servizio alla collettività.

Marisa Fiorani e il gruppo Trsg

Credo che la giornata di ieri sia andata bene e che gran parte dei presenti sia stata contenta delle 3 ore spese insieme.

È stato benevolmente notato, tuttavia, che nel corso dell’incontro si è prodotto uno sbilanciamento, essendosi tanto parlato dei percorsi di chi ha praticato il male e molto meno di chi lo ha subito.

A me sembra, tuttavia, che tale sbilanciamento (che nella quantificazione dei tempi è netto) può risultare spiacevole se Marisa Fiorani viene pensata come rappresentante del polo delle vittime e i detenuti come rappresentanti del polo dei carnefici (pur se “redenti”).

Dal mio punto di vista, è invece opportuno presentare Marisa e i detenuti come due poli che si arricchiscono vicendevolmente mentre vanno verso la luce di cui parlava Don Gianluigi, una luce che, per come ho inteso io, completa il suo lavoro quando i poli si ricongiungono.

In altre parole, quando Marisa viene presentata come componente attiva del gruppo più che come parte offesa, lo sbilanciamento non c’è più. Nella mia ottica, la funzione di Marisa e di Paolo Setti Carraro all’interno del gruppo della trasgressione è quella di lievito della coscienza più che di memoria della colpa e della ferita, cosa che ieri Matteo Manna ha espresso in modo chiaro e toccante.

Forse io, essendone il coordinatore, esalto troppo il ruolo e il lavoro del gruppo, una cosa è però certa: la coscienza di Matteo, come lui stesso dichiara, è stata chiamata dalle voci di Marisa e di Paolo e dal lavoro di tutto il gruppo.

La vocazione di San Matteo, Caravaggio

Per finire, ieri Marisa ha avuto meno tempo a disposizione di Matteo, Antonio, Adriano, Raffaele. Certo che sì, ma credo che Marisa e la figlia che porta nel cuore vincono soprattutto quando i detenuti parlano come hanno saputo parlare ieri e riconoscono Marisa come madrina della loro coscienza. Non a caso, chi ha partecipato all’iniziativa su Dostoevskij che abbiamo svolto nel carcere di Opera non ha avuto difficoltà a riconoscere in Marisa la Sonia di “Delitto e Castigo”.

Caravaggio in cittàGiustizia Riparativa

Noi, figli del ghetto

Mi chiamo Montenegro Vito e voglio per prima cosa ringraziare Aparo e tutto il gruppo di studenti che ci dedicano il loro tempo, così da poterci mettere in gioco.

Inizio questa mia umile storia spiegando che io, personalmente, mi sono accorto solo dopo un lungo percorso di carcerazione di essere stato arrogante. Faccio presente che nasco e trascorro tutta la mia infanzia, come anche la gioventù, in un quartiere a rischio, dove regnava molta delinquenza e dove praticamente tutte le famiglie provenivano dal Sud, le case erano dormitori.

Stiamo parlando di Corsico, dov’era molto facile credere di avere il diritto di prendere la bici oppure il motorino a chi stava meglio di noi. Nella mia famiglia eravamo in 5 e lavorava solo mio padre, quindi la mia infanzia è stata abbastanza povera, anche se devo ammettere che i miei genitori hanno fatto tutto il possibile per non farci mancare niente. Proprio per il contesto che era Corsico, anche la scuola era una scuola di arroganza e prepotenza: c’era la supremazia  delle prime bande di quartiere e poco tempo per studiare perché, se non stavi attento, ti rubavano il giubbotto, la bicicletta, ecc…

Quindi dovevi per forza difendere il tuo e gli esempi che avevamo erano persone più grandi di noi che stavano bene proprio perché rubavano o rapinavano: avevano macchine belle e tante ragazze e noi li ammiravamo, crescendo con questi esempi.

Personalmente, mi sono accorto tramite il lungo percorso di carcerazione, di essere stato prepotente e arrogante, ma voglio spiegare tramite la mia esperienza che quando nasci in certi contesti il confine che separa la legalità dall’illegalità è talmente sottile che non ti rendi conto, sei giovane e ti senti pieno di te. Quindi, diventa normale prendersi il diritto di prevalere sugli altri. Sei molto arrabbiato perché basta spostarsi di pochi chilometri e uscire dal quartiere e vedere che ci sono tuoi coetanei a cui non manca niente e pensi che non sia giusto e così. Allora vai con prepotenza gli togli quello che hanno, perché a te serve. Così, continui il tuo percorso, facendo reati sempre più grossi perché credi di poterlo fare, ti metti pure in mostra tornando in quartiere con i soldi e una bella macchina, pensi che tutto ti sia dovuto.

Ciao solo adesso ho capito che ogni persona ha il suo percorso e può cambiare, come è successo a me. Devo ringraziare anche la scuola durante la mia prima carcerazione: nel 1998 il professore mi spronò a prendere la licenza di scuola media e iniziare a leggere. E’ stato bellissimo, ho finito le scuole e sono stato trasferito in Piemonte, dove regnava ancora l’arroganza, ma dopo qualche anno sono riuscito ad andare per motivi scolastici a Prato, dove ho studiato ragioneria. Lì la cosa era diversa perché non ero più arrogante, mi impegnavo con la scuola di ragioneria e anche gli assistenti sociali erano bravi. Lì mi sono accorto che se fai qualcosa di buono alla fine vieni premiato.

Successivamente fui trasferito a Bollate dove continua il percorso, la direttrice Castellano era bravissima e mi mise in biblioteca, così ebbi l’opportunità di leggere molto e senza nemmeno accorgermi mi trovai a cambiare.

Purtroppo, nei lunghi anni di carcerazione mi lasciai con mia moglie perché La galera logora gli affetti ma per fortuna mi portavano mio figlio che ancora adesso non mi ha abbandonato perché quando ero fuori ho dato tutto me stesso e gli ho fatto capire quanto lo amavo. Però, quando sono uscito e sono tornato in quartiere, mi servivano i soldi e quindi, pur consapevole sono ricaduto in galera ma lui e tutta la mia famiglia non mi hanno abbandonato, perché hanno capito che non ero più quel rapinatore spavaldo e arrogante.

Ormai, anche se è tardi, mi sono sensibilizzato rendendomi conto che c’è chi sta peggio di me. Sono anche consapevole che a giugno entrerò in dialisi e questo mi ha mandato un po in depressione. In ogni caso, io sto combattendo e ho fatto questo mutamento grazie alle persone che mi sono state vicine e tramite anche la consapevolezza che lo studio è tutto, ti aiuta a superare la presunzione e l’arroganza, aprendoti agli altri.

In un’altra vita vorrei fare il professore per spiegare a tutti i ragazzi che la libertà è tutto e che il resto è solo un fuoco di paglia, io ho perso tanto in questa vita. Anche se credevo di avere tanto, alla fine la vita ti presenta il conto.

Adesso compirò 56 anni e faccio i conti con me stesso, mi rendo conto che tutta la mia arroganza e la prepotenza era dovuta a una rabbia che avevo già da ragazzino, era dovuta allo scontento e durante tutto il mio percorso verso la criminalità che ho fatto nella gioventù non me n’ero mai accorto. Fino a quando, nel carcere di Prato mi hanno aperto una porticina e io l’ho tenuta aperta; allo stesso modo anche a Bergamo come a Prato ho fatto volontariato con la Caritas e i ragazzi Down. È stata un’esperienza bellissima che mi dava molto piacere perché mi sentivo utile.

Penso che nessuno nasce cattivo o arrogante ma in certi contesti sei obbligato a diventarlo e ti viene naturale per cercare di uscire dal ghetto. Quando ero ragazzino ricordo che andavo con il pullman a Milano e verso sera guardavo le luci soffuse delle case in zona Duomo, pensavo cosa succedeva in quelle case signorili e mi dicevo che da grande volevo anch’io abitare in quelle case. Infatti così feci, sono riuscito ad uscire dal quartiere ma con i soli mezzi che sapevo usare: la via più breve, quella dell’arroganza e della prepotenza. Tutto sembrava normale, non mi sono mai posto il problema che, per stare bene io, magari sottraevo o mettevo a rischio altre persone.

Mentre ero latitante è nato mio figlio, la cosa più bella che mi è rimasta della vita movimentata che ho avuto. Lui non ha preso la mia strada e questo mi rende molto fiero. Spero che presto riuscirò a migliorare la mia famiglia vicina. Ho capito che fuori è pieno di brava gente, basta cercarla.

Volevo ancora ringraziarvi per il vostro tempo perché con il gruppo adesso posso di nuovo rimettermi in gioco, potendo parlare e confrontarmi con delle persone che cercano di capire il perché di tanta cattiveria e arroganza. Spero che con questo mio umile scritto sono riuscito ad esprimere il mio punto di vista.

Vito Montenegro

I Sentieri dell’arroganza

L’altra giustizia possibile

Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con l’altro che ci ha ammazzato l’esistenza?

Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa.

Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Con una sintesi sicuramente oggi discutibile ma ancora viva nell’immaginario comune, avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente, e quasi contestualmente, la mia esperienza di vita: essere diventato padre ed aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.

Sono giganti, quest’ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno – dopo la morte, per mano di altro essere umano, degli affetti più cari – un macigno di dolore, grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi.

Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.

Il coraggio delle donne non è, dunque, quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Come voleva fare Giorgio Bazzega nell’alimentare la lista delle persone, legate all’uccisione di suo padre, che avrebbe dovuto – allo stesso modo – ammazzare. Fino a cambiare idea nell’incontro con Manlio Milani che era andato fino in Giappone perché voleva, lui invece, parlare con chi poteva essere responsabile della morte di sua moglie.

Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale, e per questo necessariamente unico, per indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi.

Il coraggio delle donne passa dal saper fare i conti prima di tutto con i colori più scuri delle proprie emozioni, con quella loro capacità di saper dare a ciascuna di esse un nome esatto e, così, iniziare a lasciarsele dietro il cammino. Come Agnese Moro, in una delle pagine più dense del Libro dell’incontro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo.

Porta dentro di sé come elemento imprescindibile, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. E’ interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, come simile alla attività di una ostetrica che aiuta – al più – a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano.

La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che in tutti questi anni hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Manlio, Giorgio, Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso.

Dentro di me e nella mia testa, ora, tutto torna: del resto Rembrandt regala alla sua più famosa immagine di accoglienza misericordiosa le mani di un uomo e di una donna.

Ma la giustizia riparativa ha bisogno che anche le nostre mani si uniscano alle loro: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.

[un estratto di questo contributo è stato pubblicato oggi su Avvenire, p. 4, a corredo di un intervista di Viviana Daloisio a Daniela Marcone dal titolo Fare pace con il dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia]

Giustizia Riparativa