Dal 22 giugno sono un uomo libero, almeno dal punto di vista giuridico. Una volta riacquistata la libertà, non ho lasciato il gruppo della trasgressione né ho intenzione di farlo, perché al gruppo sono riuscito attraverso il continuo confronto e gli stimoli da esso suscitati a fare una piccola risalita dall’abisso in cui ero sprofondato.
Sono nato in un piccolo paesino della pre Aspromonte Calabrese. Sono cresciuto tra leggi non scritte e la violenza, una violenza che a poco a poco è diventata parte di me, tutta la mia vita è stata segnata dall’ombra della ‘Ndrangheta. Per capire quanto profondo fosse l’abisso in cui ero precipitato è servito tanto tempo e tanto lavoro e ancora oggi il percorso è tutto in salita.
Con il gruppo sto imparando a guardare dentro quegli abissi e dentro il dolore che con le mie malsane gesta ho provocato. L’abuso era il mio pane quotidiano, il linguaggio che ho imparato a parlare fin da ragazzino. Quando cresci nell’humus della criminalità organizzata, è molto facile perdere di vista il rispetto per la vita, la dignità umana e le regole sociali. Ho abusato del mio potere, della mia forza, della fiducia che le persone avevano riposto in me e del timore che incutevo negli altri perché quello era il mio unico modo per sentirmi qualcuno in un mondo che non ti lascia spazio, salvo quello che ottieni con la prepotenza.
Ma cosa passa nella testa di chi pratica l’abuso? Perché qualcuno arriva a commettere atti che distruggono l’altro? La risposta non è semplice, né scontata, l’abusante spesso non è pienamente consapevole della profondità del male che sta facendo, o meglio non lo vede per intero. Hanna Arendt nel libro “La banalità del male” si rende conto che l’uomo privo di pensiero si limita a mettere in pratica un ordine ed è capace delle peggiori atrocità.
Spesso chi pratica l’abuso si sente autorizzato direttamente o indirettamente da un sistema di valori distorti da un ambiente che autorizza l’uso della violenza e questa diviene la strada facile per avere quel credito che si crede di poter vantare nei confronti di una società iniqua e “ingiusta“, che non ti ha dato quelle possibilità che invece ha dato agli altri.
Ti senti un pulcino nero in mezzo a dei cigni bianchissimi, ma questo sono convinto sia solo una mera illusione che noi abusanti ci siamo dati per autorizzare noi stessi a delinquere. Chi abusa spesso è mosso da un desiderio di supremazia, una volontà di dominio e di controllo sugli altri che si trovano in una posizione di debolezza. Ma cosa ci guadagna davvero chi abusa dell’altro? In apparenza un momento di vittoria, di vanagloria, ma la verità è che distruggendo gli altri si finisce per distruggere se stessi.
Nel contesto delinquenziale l’abuso viene giustificato da un codice di silenzi, di omertà e ori fasulli. Si cresce con l’idea che l’abuso sia necessario, che faccia parte delle regole d’ingaggio, senza rendersi conto del gioco al massacro. In ogni atto di violenza si perde un pezzo della propria umanità, intanto che l’abuso svuota vittime e carnefici fino a privarli della dignità umana. Oggi sento che abusare è un modo per esorcizzare la propria fragilità, un tentativo disperato di evitare di fare i conti con il proprio dolore.
Ma al gruppo ho imparato che la trasgressione non è solo la rottura della legge, ma anche la possibilità di uscire da quel circolo vizioso, rompendo le catene del male, trasformando la voglia di potere in desiderio di essere qualcosa di diverso. Negli incontri che facciamo settimanalmente si intuisce che l’unico modo per uscire dall’oscurità degli abissi in cui siamo intrappolati passa attraverso la condivisione del proprio disagio: dare voce a quegli abissi interiori per tentare una risalita e iniziare un percorso di trasformazione.
In questo contesto il gruppo del dott. Angelo Aparo crea uno spazio dove vittime e autori di reato, studenti e liberi cittadini dialogano mettendo sul tavolo i propri vissuti, luogo in cui l’abuso può essere riconosciuto affrontato ed infine superato. Questo percorso non è privo di ostacoli, né promette guarigioni immediate ma offre la possibilità di vedere negli abissi e l’occasione di riscoprire nel profondo l’essenza umana.
Rocco Panetta