Penso che più che altro, questo convegno mi abbia lasciato tanta umanità, tanta voglia di cambiamento e, nonostante tutto, tanto amore per la vita.
Il gruppo della trasgressione ha portato i detenuti a riflettere su alcuni aspetti del loro passato, in particolare sul rancore che essi nutrivano nei confronti dell’autorità, un’autorità detestata, ma detestata per dei motivi ben precisi: perché sentita distante e passiva.
L’immagine dell’autorità però può cambiare, può cambiare se si accoglie l’autorità e non la si attacca; essa però deve potersi far accogliere.
Si fa accogliere attraverso persone speciali, come il magistrato Cossia o il direttore Di Gregorio, si fa accogliere se cerca di capire e comprendere il detenuto, anziché punirlo senza educarlo.
Ed è da questo rapporto che il rancore può sfumare, per lasciare spazio al buono, un buono non buonista, ma educativo e riabilitativo, un buono che, oltre ad abbracci, è capace di dare schiaffi, ma amando e costruendo il futuro dei detenuti insieme a loro.
Educare significa soprattutto responsabilizzare, e sentirsi responsabili fa crescere. I detenuti hanno il desiderio di sentirsi responsabili per dare un segnale al mondo, per ripicca nei confronti della loro vita passata, per sentirsi di nuovo vivi.
Per fare tutto ciò e per mettere in piedi una straordinaria macchina come quella che abbiamo visto ieri ci vuole umanità, e avere umanità significa avere empatia, e avere empatia, in queste cose, significa avere coraggio, ma tanto coraggio, dimostrando che ogni singolo detenuto ha il diritto di avere rancore, e l’autorità ha il dovere di riconoscerlo e il dovere di offrire una nuova strada di vita.
Giole Tofuri