Il Gruppo della Trasgressione è una realtà che ha radici nel quarantennale lavoro del Dottor Angelo Aparo e rami nei molteplici progetti che da decenni vengono proposti su tutto il territorio di Milano e, da poco, anche di Monza..
L’energia che nutre questo gruppo di collaboratori, volontari, cittadini, detenuti, persone che hanno completato la detenzione, studenti e tirocinanti – per quello che io ho intimamente sentito nella mia esperienza personale – sgorga dalla visione di un mondo in cui la trasgressione, da semplice agito individuale, diventa oggetto di riflessione collettiva e carburante per procedere verso mete condivise.
Tre sono i rami su cui ho avuto modo di arrampicarmi per vedere la strada che si sta costruendo verso questa visione: il lavoro in carcere, il lavoro a scuola e il lavoro di coordinamento del gruppo e di confronto tra i membri. Oltre a concerti, conferenze e iniziative in collaborazione con gli enti del territorio.
Lavorare sulla trasgressione risponde quindi allo scopo di intervenire fattivamente:
- sulla prevenzione della devianza – con il lavoro con i bambini e i ragazzi;
- sulla rieducazione del detenuto in carcere;
- sul supporto delle persone di nuovo libere al mantenimento dello status riacquisito;
- sulla formazione degli studenti in tirocinio.
Se la prevenzione della devianza è un’attività relativamente facile da immaginare anche senza esperienza diretta, la rieducazione e il supporto per chi ha vissuto la detenzione non sono assolutamente un’attività banale.
La mia esperienza in carcere è iniziata a ottobre presso la casa circondariale di San Vittore con gli incontri settimanali “Un amico controcorrente”, rivolti ai detenuti e partecipati dai membri esterni del gruppo.
Gli incontri non hanno una partecipazione del tutto stabile, data dalla natura stessa del tipo di detenzione prevista dall’istituto, e le modalità di relazione tra i partecipanti sono dinamiche: letture degli scritti autografi dei detenuti, interpretazione di brevi “scenette” costruite sulla base di idee nate da temi lanciati dal Dottor Aparo, discussioni su questi stessi temi e condivisione di riflessioni personali sul proprio passato, sul presente o sul futuro, fino al commento su canzoni di Fabrizio De André.
Durante gli incontri cui ho partecipato ci sono state molte discussioni in particolare sulla paternità, sul rancore e sul timore per l’avvicinarsi della vita da persona libera.
Ho avuto modo di ascoltare tante storie personali: padri che soffrivano della lontananza dai figli o che riflettevano sulle proprie competenze educative e quindi anche su quelle dimostrate dai loro stessi genitori; ho ascoltato uomini che avevano paura di loro stessi, perché in carcere avevano avuto modo di scoprire che la loro libertà poteva rappresentare un pericolo per la società. Storie di violenza fisica ed emotiva, di infanzie danneggiate da chi le doveva proteggere, di carenze educative, di dipendenze e di fragilità che hanno concesso al rancore e all’arroganza di prendere il sopravvento.
Nell’ultimo incontro a cui ho partecipato prima di scrivere questa relazione, il Dottor Aparo ha invitato me e tutte le altre colleghe presenti a condividere il nostro pensiero col gruppo, ma devo essere sincera: sono stata molto felice che un detenuto avesse voglia di prendere la parola al posto mio, perché non avrei avuto le parole.
Cosa posso dire io a queste persone? Come posso parlare io a loro se non dall’alto dei miei “successi”? Della mia vita adeguata, della mia famiglia adeguata, del mio matrimonio adeguato… Mi sono sentita inutile, frivola e privilegiata.
Ho cercato per tutta la settimana di dare un senso alla mia presenza e alla responsabilità che sentivo a riguardo. Ho provato allora a dare una possibilità al fatto che non è egoicamente la mia presenza a dare un senso al gruppo, ma il gruppo a dare un senso alla mia presenza. Non sono le mie parole ad avere rilevanza, ma sono le parole di tutti che insieme creano qualcosa che ha senso ascoltare. Il gruppo è tale se avviene “insieme” e quando siamo insieme possiamo contemporaneamente prendere e dare, nutrire e essere nutriti, come cellule di un unico organismo.
In questa riflessione ho anche trovato il senso del modo che ha il gruppo di presentare sé stesso: come un insieme di pari, senza distinzioni di dentro o fuori dal carcere, con o senza la laurea, giovani o vecchi, cittadini o detenuti.
Ed è proprio in questo cammino condiviso, fatto di ascolto, confronto e crescita reciproca, che il Gruppo della Trasgressione trova la sua forza più autentica: non nel raggiungimento immediato della meta, ma nella costruzione collettiva di un percorso che dia valore a ogni passo e a ogni voce, rendendo ciascuno parte rilevante del cambiamento.
Scrivo questa relazione in un momento di grande gioia: ho partecipato a una riunione del gruppo in cui per la prima volta ho visto fuori dal carcere una persona che ho conosciuto mentre era detenuta a San Vittore. C’è vita, c’è speranza.
Neva Ganzerla