Il più crudele dei mesi

Aprile è il più crudele dei mesi, lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando
le radici sopite con la pioggia della primavera
[…]

Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson!
Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?

[T.S. Eliot, La terra desolata. I – La sepoltura dei morti] 

I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento. Ascoltate: io inizio dal nulla. Il nulla è uguale alla pienezza. Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto bene qualche altra cosa del nulla, per esempio che è bianco e nero o che non è o che è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità poichè ha tutte le qualità.

[Carl Gustav Jung, Septem Sermones ad Mortuos – Sermone I]

Io non c’ero, quel giorno, a Palazzo.

La mattina del 9 aprile 2015 mi trovavo a Firenze, per motivi di lavoro uniti a passioni per le investigazioni informatiche coltivate da tempo anche tramite lo studio del Manuale di computer forensics di Eoghan Casey, che stavo ascoltando completamente assorbito dalle parole del suo intervento. Il telefono suona una, due volte. Me ne accorgo in ritardo e penso che sia strano che Francesca mi chiami con tale insistenza. Esco dalla sala e mia sorella quasi scoppia in un pianto liberatorio, al pensiero che ci fossi anche io dentro quel macello di cui erano giunte in Redazione le prime notizie.

Notizie confuse ma che, dopo una mia prima telefonata al responsabile della sezione antiterrorismo della Procura, impongono di non sottovalutare quello che sta succedendo: si, qualcuno sta sparando nel Palazzo di Giustizia, a Milano. E non si sa né perché nè contro di chi.

Così, per superare un senso di inutilità mai provato fino a quel momento, chiamo il mio amico Carlo. Da giornalista di razza quale è, mi invita a seguire in streaming RaiNews24 perché un suo collega era già sul posto. E sono, al momento, le uniche notizie certe. Da chi sta fuori.

Mentre con una mano tengo così a stento un piccolo schermo per cercare di vedere più da vicino, con l’altro telefono mi accerto della situazione delle persone che stanno invece dentro, e che lavorano nel mio ufficio prendendosene uguale cura, come una seconda famiglia: Mirella racconta che Loredana, sua collega cancelliera presente durante la prima sparatoria, aveva trovato la via di fuga risalendo le scale che arrivano dirette al nostro corridoio (siamo infatti proprio sopra l’Aula 2 al terzo piano, da dove si sono sentiti i primi spari); Giuseppe invece, Carabiniere di lunga esperienza, ha lasciato Fabio ed era sceso – arma di servizio in pugno – lungo quelle stesse scale, a presidiare il piano dove lavora sua moglie.

E poi chiamano alcuni Colleghi, pensando che forse noi Pubblici Ministeri abbiamo – per natura o funzione – qualche pronta soluzione in tasca. O almeno qualche buon consiglio, come quello da dare alla mia amica Caterina che voleva soltanto sapere quando potesse uscire da quella stanza nella quale si era rinchiusa insieme ad altre 40 persone. O meglio mi chiamava per sapere quando poteva uscire lei, insieme alla figlia che aveva in grembo, da quella stanza.

E poi, il giorno dopo, le poche parole di Luigi, il Pubblico Ministero che in quell’Aula di udienza non ci doveva neppure andare, quel giorno. Miracolosamente salvo, lui come tutti gli altri presenti a Palazzo di Giustizia ad eccezione di Lorenzo Alberto Claris Appiani, Giorgio Erba e Fernando Ciampi, uccisi per mano di uomo armato, Claudio Giardiello, che con quella stessa arma aveva ferito anche altre due persone.

Pur non conoscendo personalmente nessuna delle tre vittime, ricordo di aver voluto andare proprio con Caterina ai loro funerali in Duomo. E, nel tratto a piedi in un pomeriggio di aprile, abbiamo entrambi pensato a quanto lavoro sarebbe stato necessario per cercare di riparare i mille piccoli traumi che un simile evento aveva generato.

Non erano i terroristi, come molti di noi avevano pensato nei primi minuti di concitazione e confusione. Eppure lo scenario immaginato poteva essere simile a quello accaduto pochi mesi prima a Parigi, in quel 7 gennaio 2015 dentro la sede di Charlie Hebdo e lungo le strade ad esse adiacenti. E poi ripetutosi, nel novembre del medesimo anno, dentro il teatro Bataclan. Immagini, viste ugualmente alla TV molte e molte più volte, rimaste così indelebili nella mia memoria che ho sentito l’esigenza, complice il mese scorso una breve vacanza con la mia famiglia, di fare una passeggiata solitaria – di buon mattino – quasi per riconciliarmi con quei luoghi e con quei volti.

     

Perché è forse caratteristica intrinseca dell’essere umano temere di più quello che non riesce a vedere. Come durante il lockdown, quando ho dovuto accettare – sulla mia pelle- che in guerra non dovevano andare gli uomini, quelli che nel mentre erano poi diventati a tutti gli effetti componenti della sezione antiterrorismo della Procura di Milano e che erano stati capaci di ricercare i foreing fighter financo in Siria, nei territori dello Stato islamico. Perché invece io, e quell’uomo che è dentro di me, dovevo rimanere a Milano chiuso in casa, per 52 lunghissimi giorni da solo con due figli piccoli, ad aspettare una donna medico che tornasse, finalmente guarita, dal fronte.

Siamo passati con le ragazze e i ragazzi del nostro workshop scout, nei primi anni successivi a quella sparatoria a Palazzo di Giustizia, anche davanti alla stanza 250, al secondo piano. E abbiamo ascoltato, con le lacrime agli occhi, la testimonianza di un’altra Caterina, anche lei magistrato ma che quel giorno si trovava invece proprio nella stanza accanto a quella dove è stato ucciso il Giudice Fernando Ciampi, l’ultimo bersaglio. E pur non essendo presenti quel 9 aprile, anche quei giovani hanno finalmente visto.

E oggi, a distanza di 10 anni da quella sparatoria, dentro quell’Aula di udienza siamo stati tutti testimoni del dolore dei familiari delle vittime, ed in particolare di Alberta Brambilla Pisone, mamma dell’Avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani. Ritorna, per un attimo, sui sistemi di sicurezza mancanti quel giorno, “un teatrino di cartapesta” costato una montagna di soldi a carico dei contribuenti. Ma poi spiazza molti confidando che ha passato dieci anni, commemorazione dopo commemorazione, nel tenere vivo l’orgoglio di fare parte di una famiglia che ama il Diritto senza mai ricordare doverosamente chi fosse veramente suo figlio. E oggi, con parole così affettuose che solo una mamma è in grado di partorire, riesce a farcelo vedere, li ancora presente in quell’Aula mentre si accingeva a testimoniare.

E ricorda anche le sue ultime parole, “verità”, imprigionate dentro una fonoregistrazione di udienza prima del suono degli spari.

Per un attimo penso a Marisa Fiorani e alla nostra ricerca di quei nastri per far risuonare la voce di Marcella, ancora una volta dopo quel 24 giugno 1987 nella Questura di Lecce. Ma poi ritorno alla fatica delle parole di questa altra madre in piedi davanti a tutti noi, in questo 9 aprile del 2025, che a me sembra siano davvero generatrici di quel germoglio del racconto di Eliot. Una fatica capace di far ritornare i morti per cercare di fare – tutti – pace con loro.

Ed è in quel momento che l’affresco di “Adamo ed Eva dopo il peccato” che sta alle sue spalle, e che aveva catturato nuovamente il mio interesse anche ieri pomeriggio (in udienza, in quella stessa Aula 2 che ciascuno di noi ha frequentato anche negli anni successivi a 9 aprile 2015 con un senso di rimozione – a tratti meschino quanto utile per la naturale sopravvivenza della specie) mi sembra assumere un  significato nuovo. E mentre, per i casi della vita e del lavoro, mi tocca correre a prendere un treno ancora una volta per Firenze, penso anche a Daniela Marcone e al suo ultimo 31 marzo di fronte ai gradini dell’ingresso condominiale dove hanno ammazzato suo padre, ingresso che lei ogni santo giorno deve varcare per entrare ed uscire di casa.

E concordo che sarebbe davvero bello che quell’Angelo – al posto della spada – avesse portato oggi, anche in quest’Aula e in questo Palazzo (quasi una seconda casa per molti dei presenti), una benedizione.

Acqua capace di far crescere quel germoglio per prendersene davvero cura, acqua capace di pulire le ferite da quella terra sporca che i nostri occhi, troppo spesso distratti, contribuiscono ad infettare.

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