Inno al Sessantotto
Occhi caleidoscopici vorrei avere
e un’aura elettrica
intorno al corpo scarificato.
E un verde psichedelico pigiama vorrei indossare
con alamari arancioni e bottoni con incisioni
di calamari oceanico-abissali
e guanti di seta nero-tenebra.
E in un letto a quattro piazze vorrei saltare e danzare
con lenzuola argentate come luna sospesa
su un lussureggiante e sospirante giardino d’oriente
per fare l’amore e non la guerra
con tutte le bajadere del pensiero.
E un giradischi dei ricordi vorrei accendere
sul cui piatto far girare le pagine
di Narciso e Boccadoro, le canzoni
di Jimi e quelle di John e Ringo e Paul e George,
dei Rolling Stones, e le sinfonie dei Pink Floyd,
le litanie elettroniche dei Soft Machine
e l’onirico urticante velluto dei Vanilla Fudge.
E 2001: Odissea nello spazio e Easy Rider vorrei rivedere
nel cineforum dei nostri cuori, e gli amici senza soldi rincontrare
in piazza nell’eterno discorrere senza meta.
E La fantasia al potere vorrei sentir proclamare,
perché il potere è sempre senza fantasia,
e Ce n’est qu’un début, e i fiori dai cannoni far capolino
e nelle bocche dei fucili sbocciare, e ogni ragazza
come una Marianna sulle barricate volteggiare:
da carezzare, da vezzeggiare, da amare.
E i capelli come rami impazziti vorrei catturare
di Angela Davis e sentirli frusciare
negli irraggiungibili meandri della mia anima graffiata.
E la voce di MLK vorrei riudire per un altro sogno
e le declamazioni dalla lunga veste di Allen,
quelle esplosive di Gregory e quelle alonate di Lawrence,
E la nuvola di fumo dal sigaro del Che vorrei annusare
e vederla sorvolare le pianure del disonore bastardo.
E una donna in forma di farfalla vorrei riconoscere
nelle mie pupille allo specchio e vorrei volasse
nei miei devastati interni togliendo loro
ogni maschera deturpante.
E infine vorrei assopirmi a una brezza soave,
a una brezza soave
dal mare,
dal mare…
e ridestarmi,
ridestarmi
in quello che sarei potuto divenire.
Alberto Figliolia (da Audrey Hepburn ad Addis Abeba, Edizioni Il Foglio, 2020)
A piedi scalzi contro la fame, Abebe,
tu fendevi le luci straniere,
la notte della città che fu il mondo,
i volti che sbucavano da marmi e rovine
con spente grida e sguardi rapiti,
e il selciato si faceva polvere
sotto i tuoi piedi nudi
come schegge di acrocori
su cui il sole batteva senza pietà.
Correvi e correvi e nel cuore, Abebe,
vagavano i ricordi di una terra
vibrante e brillante come un fuoco
nel deserto; correvi e correvi,
così vicino alla fatica e alle visioni
di guerrieri dei leggendari regni neri.
Nei tuoi muscoli, in ogni fibra, Abebe,
il cielo entrava come spilli di dolore,
i pensieri come lance aguzze nella mente,
il sangue un pulsante fiume senza tempo.
Un passo dopo l’altro, Abebe,
come un antico cristiano
lungo le strade della fede e del martirio
o uno schiavo che fuggiva
dalla crocifissione nei labirinti della paura.
Nelle arene del sogno riposava, Abebe,
il ritmo dei tuoi piedi e il respiro lento,
sospeso, scorticato nell’attesa della fine,
per vincere lontano, troppo lontano
dall’Etiopia degli odorosi altipiani.
Sul dorso del buio, fra croci di neon, Abebe,
alla grave iscrizione della gloria,
all’arco dell’orizzonte: soltanto
la parola muta, dinamica
dei tuoi piedi scalzi contro la fame.
Alberto Figliolia (da Cieli di gloria-Poesie sportive, Edizioni Il Foglio, 2017)
Abebe Bikila (7 agosto 1932-25 ottobre 1973). Etiope, un corridore da leggenda nei 42,195 km della maratona. Due volte campione olimpico: Roma 1960, in una memorabile maratona corsa tutta a piedi nudi nella sfavillante città della Dolce Vita, e Tokyo 1964. Nel 1969 a causa di un incidente automobilistico rimase paralizzato agli arti inferiori. Nessuno mai come lui, che seppe divenire il simbolo di un continente che con orgoglio reclamava libertà, pace, un posto nel mondo.
A Shanghai comprai
un paio di occhialini tondi,
tondi come una rivoluzione conchiusa,
una rivoluzione di morti viventi,
laogai e ghigliottine,
burocrati obesi e film porno.
Gli occhialini costavano 41,74 yuan renminbi.
Poco o forse troppo,
dipende da quello che avrei voluto vedervi:
il filo sottile e lacerante della mia angoscia;
la tartaruga della paternità avanzare inesorabile;
il tempo estinguersi al fuoco delle occasioni perdute;
la rancida umiliazione del lavoro.
Il venditore mi regalò pure una custodia pervinca,
come il tramonto che da sempre mi ossessiona
nei sogni in cui tento a ogni sorger di tenebre
l’impossibile fuga dal reale.
Se mi sforzassi so che potrei
con questi occhialini tondi
– da Maggio Francese, da figlio dei fiori di Berkeley,
da intellettuale engagé, da ribelle ante litteram,
da libertario incallito, da prigioniero senza rimedio,
da cercatore di orizzonti, da poeta fallito –
trovare la chiave del mondo…
potrei. Potrei…
Ora getterò
nella strenua calura di luglio
nelle lamentazioni delle nuvole incatenate
nell’eco dell’ennesima lattina di birra vuota
il mio lancinante silenzio
per un giorno diverso e una nuova umanità.
Alberto Figliolia (da Visioni o dell’anarchico girovagare, Rayuela Edizioni, 2017)
Haiku
Piazza Tirana
fiori viola e papaveri
tram e ricordi
Passa una giovane
il metallo riflette
multiple gambe
Clacson strepitano.
Spensierato pedala
un sari arancio.
Strappano luce
erodono il balcone
fiori selvatici
Tanka
Veli di nubi
nel cielo che sovrasta
lento, soave.
La musica flautata
dei pioppi cipressini.
Dileggia maggio.
Di tormenta una neve…
danzano i pappi.
Sfibrati in cielo occhieggiano
rosai di nubi (e uccelli).
Tigli bonsai
in un lembo di terra
fra griglie grigie;
due francesi sedute
cinguettano argentine.
Demiurgo intento,
fra le dita una noce
a rotolare
come un mondo grinzoso,
il grigio scoiattolo.
Via Giambellino:
vibrano ombre di platani
nel vento ardente;
sui marciapiedi vanno
donne velate e vecchi.
Mentre cammino
nella deserta via
(sovrano il buio)
Orione occhieggia
sui miei passi soffianti.