Una pena per chi è punito, un dolore per chi la commina
Nuccia Pessina
Giovedì scorso, nel corso dell’incontro fra il Gruppo della Trasgressione e l’Istituto Verri di Busto Arsizio, ho sentito Jin Lai paragonare il carcere a un luogo di transito che può dare l’opportunità sia all’individuo sia alla società di riflettere sulle proprie imperfezioni e di giungere a una mediazione che possa costituire per entrambi una crescita. E allora non ho potuto fare a meno di pensare che anche nella Commedia dantesca esiste un luogo di transito in cui provare pena e riflettere per arrivare all’emancipazione: il Purgatorio. Il percorso è faticoso: prevede la scalata di una montagna; è lungo: ogni balza conquistata testimonia il superamento di un comportamento fallace, di una convinzione sbagliata, di un’inclinazione discutibile. La meta è il Paradiso: la felicità assoluta.
Le parole di un cinese sono a loro modo espressione dello stesso convincimento della religione cattolica, di cui la Commedia è un potente riflesso. Come è possibile? Forse, se questo accade, è perché in ogni parte del globo, qualsiasi sia la cultura, l’essere umano percepisce la sua esistenza come un transito e vede come meta la felicità.
Tale transito, diversamente dal carcere, è obbligatorio per tutti. Ma questa non è l’unica differenza: chi è in carcere ha una meta macroscopicamente riconoscibile, un riferimento certo, la fine della detenzione; chi vive da libero il riferimento lo deve cercare, individuare, costruire e, prima ancora, deve avvertirne la necessità in sé e per sé. Ma forse questa meta, non è solo una necessità e non solo un dovere, forse si tratta di un privilegio al quale per varie ragioni non tutti giungono.
Da ciò che ho sentito dire, molti detenuti non ci sono riusciti. Poiché le imperfezioni degli esseri viventi e delle relazioni da questi poste in atto sono molteplici e variegate e assumono le forme più diverse e spesso non sono né prevedibili né controllabili, le spinte regressive hanno avuto il sopravvento e si sono generati comportamenti deleteri.
Dunque è mancato qualcosa. O si sono imposte presenze non sopportabili. Quali le mancanze all’origine del percorso deviante? Sicuramente la mancanza di una guida autorevole. Un genitore, un insegnante, un allenatore, un prete, qualcuno che si accorge che esisti e che sei tu, proprio tu, diverso dagli altri; qualcuno che presta attenzione a te, proprio a te; qualcuno che dimostra di conoscerti e che ti dà il consiglio giusto, adatto a te. Altre mancanze poi possono segnare la strada: la mancanza d’amore, la mancanza di senso.
Le mancanze sono anelli che si congiungono e formano una catena che imprigiona la libertà morale dell’individuo, soprattutto se tra di essi manca l’anello della punizione. Non una punizione qualsiasi e a qualunque costo. La punizione giusta, adeguata allo sbaglio, comminata al momento giusto e da una persona amata. Una punizione che sia pena, che porti dentro di sé il concetto del risarcimento e del dolore provato da chi la subisce ma anche da chi la commina.
Solo da una punizione così scaturisce il senso morale, il concetto di giusto e sbagliato, il maggior avvicinamento possibile tra legge e giustizia, insomma l’introiezione della giustificazione della pena a garanzia del rispetto del diritto. Se questo non accade la sofferenza dilaga e nella percezione del soggetto diventa legittimazione ai suoi abusi e quasi viatico per il suo percorso deviante.
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La giusta punizione
Il mio primo furto l’ho commesso quando avevo 12 anni: avevo fame perchè erano giorni che a casa mia non si mangiava; mia madre pur di non farci perdere il rito della tavola apparecchiata, anche se con i piatti vuoti, tornati da scuola, noi quattro fratelli ci sedevamo intorno alla tavola e mia madre divideva un solo pezzo di pane.
Dopo tre giorni di questo misero rito, al mattino invece di recarmi a scuola andai al supermercato e riempi un sacchetto pieno di salumi, formaggi, salsiccia, ecc.
Tornai a casa all’ orario di uscita della scuola, in modo che mia madre non sospettasse nulla; lei però mi chiese dove avessi preso tutti quei cibi e io le risposi di aver trovato dei soldi per strada e di aver provveduto alla spesa.
Lei mi rispose che era opera di Dio…senz’altro grazie alle sue preghiere.
Osservo che se mia madre avesse conosciuto la verità sicuramente mi avrebbe punito severamente ma io avrei compreso quella punizione? O avrei pensato che i miei genitori non erano capaci di darmi da mangiare ma erano capaci solo di punirmi severamente?
Condivido con Nuccia (Purgatorio) quando scrive: “la punizione deve essere giusta, adeguata allo sbaglio, comminata al momento giusto; sul concetto che deve essere comminata da una persona amata sono meno d’accordo.
Se chi ti ama ti condanna significa che ti abbandonerà all’espiazione della pena; una pena espiata senza il conforto, l’affetto, la speranza delle persone che ami non può che incattivirti ancor di più, specie nell’attuale sistema carcerario.
“Una punizione che sia pena, che porti dentro di sè il concetto del risarcimento e del dolore provato da chi la subisce ma anche da chi la commina”.
La pena deve far riconoscere al reo il dolore provocato con l’approfondimento delle conseguenze psichiche, affettive, di sicurezza che il reato provoca in chi lo subisce; il risarcimento dovrebbe essere inteso non solo in senso materiale (quasi mai recuperato), ma quando è possibile, in termini umani.