Mi colpisce la differenza d’abbigliamento fra le figure di Cristo e di San Pietro, entrambi in piedi, e di quelle sedute al tavolo. Da una parte, abiti senza tempo o riconducibili al tempo di Cristo; dall’altra abiti dell’epoca del dipinto.
Questo, probabilmente per mie esigenze affettive del momento, mi porta a fantasticare che il quadro parli di una comunicazione e di un uomo in altalena fra due dimensioni, quella che prescinde dal tempo e quella storica.
A noi tocca vivere nella dimensione del divenire, dove si nasce, si cresce e si muore, ma sembra che, per quanto ci si sforzi, sia per noi tutti troppo difficile rinunciare all’idea di una nostra parentela con… l’Infinito.
A mia volta, pur consapevole del fatto che nulla di ciò che sento prescinde dalla storia, vado sempre sognando un ascensore che mi permetta di andare, almeno con lo sguardo, oltre l’ultimo piano del mondo finito.
Mi rendo conto che il rischio dell’arroganza è forte, anche se, per fortuna, le costruzioni e il divertimento che derivano dai tentativi di addomesticarla non sono da meno.
Ecco, nel dipinto c’è una luce che arriva da un punto fuori dallo spazio visibile (direi fuori dalla storia) e che, passando sopra la testa di Cristo, giunge fino al tavolo degli uomini che vivono dentro i confini dello spazio e del tempo: lo spazio della locanda, il tempo dei loro abiti.
Dunque, uomini che vivono, scelgono e divengono in un tempo e in uno spazio finiti, in risposta a una luce e a una vocazione che sembrano provenire dalla dimensione dell’infinito, dopo essere state mediate da Cristo, figura a cavallo tra le due dimensioni.
E, per concludere, mi chiedo se la mediazione tra finito e infinito, che nel dipinto viene affidata a Cristo, non sia una delle rappresentazioni possibili di quel che ci serve: ora per non smarrirci fra i mille sentieri e le responsabilità di una storia ancora da costruire; ora per prevenire l’allucinazione di volare oltre l’ultimo piano.
Scritto alto, frutto di una non comune capacità di leggere e interpretare la realtà in modo personale e acuto. A partire da particolari concreti sotto gli occhi di tutti, esprime con efficace nitidezza una visione profonda della condizione dell’essere umano.
Oltre a quanto già scritto in modo molto emozionante dal Professore, mi soffermo su due elementi che rendono questo quadro speciale a mio modesto avviso, oltre al talento dell’artista:
1) l’indecifrabilità del personaggio: trovo che l’inserimento di varie figure che possono rappresentare l’oggetto/soggetto della scena renda la scena sempre disponibile alla riflessione e al confronto
2) figura fondamentale, in cui alcuni si possono riconoscere nei nostri tempi e nella nostra città in particolare, è quella dell’uomo che conta i soldi, che preso dalla sua quotidianità priva di uno scopo, si perde quanto di bello accade in quel momento intorno a lui
Gusto l’immagine di una palestra che nella vita si fa concretezza dentro una lotta di “indicazioni”, di “dita puntate”, di “chiamate”, tutto il gioco di mani (e forse anche di sguardi) che suscitano una scelta, un giudizio, una presa di mira, un ‘ma proprio a me?’… tutte situazioni, emozioni, sentimenti che ritrovo dentro la mia vita e che imparo ogni giorno a tenere assieme… forse proprio grazie a quella ‘luce’ che arriva da fuori e mi fa riprendere il passo per stare al passo di chi mi ritrovo accanto, rileggere dentro di me grazie a chi incontro (allo sguardo, mano puntata o che indica dell’altro)… un ring coi piedi per terra ma con lo sguardo al cielo (infinito)…