Vedo nelle riflessioni pseudo-sociologiche deliranti di Raskolnikov la sapiente costruzione di un nemico contro cui combattere e potersi scagliare, un nemico che legittima la sua identità.
L’usuraia è il “pidocchio” perfetto da eliminare senza porsi troppi interrogativi. Persino il caso, che fa capolino tra le righe, viene comunque piegato a beneficio delle sue teorie e dei suoi obiettivi.
Per caso entra in trattoria e ascolta la conversazione tra due sconosciuti a proposito dell’usuraia e le informazioni che riceve dal loro colloquio sempre più lo autorizzano a compiere un’azione per la quale non esiste nessuna possibile autorizzazione.
Emerge la Russia in questo romanzo, come in tutti gli scritti di Dostoevskij, una Russia, tra le altre cose, poverissima.
Si delinea una miseria che spinge le persone ad abitare in stanzucce così anguste da poter raggiungere il chiavistello della porta d’ingresso senza alzarsi dal divano.
Una miseria che fa girare Raskolnikov malvestito, sudicio perché non possiede biancheria di ricambio, con gli stivali sfondati.
Una miseria che tiene Raskolnikov a pane e acqua, per giorni senza mangiare, in preda a una febbre che lo porta al delirio, mascherando con questo quello precedente, forse innato o stimolato dalle circostanze.
Una miseria che lo spinge fuori corso, gli fa abbandonare l’Università, lo allontana da quei dibattiti nei quali amava infervorarsi e che testimoniano il bisogno di rinnovamento che come un fremito percorre la Russia del periodo.
Una miseria così nera da spingere a porre una domanda, che talvolta io ancora oggi mi pongo e a cui non è così scontato trovare una risposta soddisfacente: una persona febbricitante e digiuna da giorni quanto può essere lucida? Esiste un rapporto tra malattia e crimine? E se esiste qual è? Come lo si definisce?