Il delitto è un’azione umana. Così come umano è possedere una coscienza. Credo che il delitto porti alla erosione della coscienza fino a sopprimerla, ma tale soppressione non è un’azione compiuta solo dai criminali. La coscienza si può sopprimere per non soffrire, per non capire, per non vedere, per mascherarsi e fingere di non accorgersi del proprio malessere o del malessere legato all’ambiente che ci circonda. Il delitto amplifica e porta questo atto psichico fino allo “stadio” ultimo.
Se sopprimere una coscienza è azione innata e inconscia frutto del dolore, ritengo che sia saggio partire dal dolore. Dolore e conflitto sono intrinsecamente legati.
“Vogliamo sentire il conflitto perché ci umanizza.” Ha detto Vincenzo, detenuto. E credo che questa chiave di lettura dell’argomento si intersechi profondamente in un discorso che unisce vittime di reati, autori di reati e coloro che con i reati ci lavorano.
Il conflitto ci umanizza, certo. Ma ritengo che l’autore e la vittima del reato vivano due conflitti diversi. Il primo conflitto è frutto di un dolore che non si è percepito quando viene commesso il reato; il secondo conflitto è frutto di un reato e portatore di un dolore che non si sarebbe dovuto provare di principio, un dolore ingiusto, un dolore che nasce dall’abuso. Il primo è un dolore che bisognava provare. Il secondo un dolore che non andrebbe mai provato.
La maniera di vivere il dolore poi muta e si muove su piani differenti e intersecati ma in evoluzione:
- l’evoluzione che negli anni fa il detenuto per affrontare il peso della propria azione e soffrirne dopo la consapevolezza, desiderando diventare strumento utile per una vita migliore;
- l’evoluzione del dolore della vittima, che si fa strumento portatore di valori quali la giustizia, la legalità e il coraggio. Il coraggio di chi dopo un percorso decide di mettersi a confronto e affrontare con dignità luoghi e persone che possono ricordare il trauma subito.
Raskolnikov è solo un genere di criminale, certo, ma non credo sia un caso che Delitto e Castigo sia uno dei libri più letti nelle carceri del mondo. Che forse il criminale sia curioso? Curioso di vedere come altri percepiscono e vivono il delitto?
Non ritengo dunque che la soppressione della coscienza sia di per sé disumana (in diversi stati e gradi, sono convinta che tutti abbiamo avuto momenti del genere nel corso della nostra esistenza) ma che lo diventi se portata all’estremo. Non provare dolore e non volerlo affrontare diventa problematico quando l’assenza del proprio conflitto e anestetizzarsi l’anima porta a un conflitto tragico nella vita altrui.
Usando le parole di Emanuele e Pasquale, il conflitto porta dolore, ma porta anche a nuove occasioni di crescita. Crescita, poi, porta a un miglioramento che si riflette in luce nuova e positiva per il soggetto, per gli affetti più stretti, per la società.
Una persona che vive il conflitto e cresce, si responsabilizza – i detenuti parlano della responsabilità dell’essere padri. Una responsabilità che si vive nei riguardi dei figli e una gioia e un impegno che non sarebbe possibile senza aver vissuto il conflitto. Perché mettersi in conflitto e comprendere consapevolmente il peso delle proprie azioni genera degli insegnamenti positivi che verranno portati fuori, all’esterno, partendo dalle proprie famiglie.
Credo che qui stia il senso del conflitto. Conflitto è maturare. Maturare significa migliorare e ogni piccolo passo di una persona verso il bene è progresso per la società intera e un passo prezioso per la guarigione di un mondo ove il crimine viene subito, il crimine viene commesso.
Angelica Falciglia