Qualche tempo fa, discutendo in modo acceso con mio nonno sulla funzione della pena, in risposta ad un sua provocazione del tipo: “Vorrei vedere se ti ammazzassero la mamma! Se la vittima fossi tu! L’assassino lo vorresti vedere morire lentamente! Altroché rieducazione!”, ho pronunciato questa frase: “Chissenefrega della vittima! Il carcere serve ad altro!”.
Queste parole mi sono uscite senza pensarci, nell’eccitazione del momento, come esprimessero un pensiero non del tutto cosciente. Me ne vergognavo profondamente, pensavo: come posso essere stato così disumano da dire “chissenefrega delle vittime”? Quanta brutalità c’è in queste mie parole? Perché le ho pronunciate? Stavo mettendo in discussione i postulati sulla funzione della pena in cui ero convinto di credere profondamente.
Mi chiedevo se il principio della pena come rieducazione del reo dovesse essere compresso per far sì che le vittime vedessero soddisfatta nel carcere l’umanissima sete di vendetta che senz’altro dovevano provare…
poi ho incontrato Marisa Fiorani. Lei, a cui avevano ammazzato la figlia, era lì, in un carcere, e abbracciava degli assassini. Lei, vittima, abbracciava i carnefici. Non cercava vendetta, ma verità. Non perdonava (“il Perdono lo lascio a Dio”), ma pretendeva responsabilità. La sua soddisfazione consisteva nel vedere “le bestie, che si scannano tra di loro, diventare uomini”. Forse, quindi, una vittima può essere appagata da altro rispetto alla vendetta?
Poi c’erano i detenuti. In loro ho visto cosa significa “rieducazione”. Vederli raccontare chi erano, ricercare in loro le risposte ai quesiti di Juri, mi ha mostrato plasticamente che la coscienza si può ricostruire, che la rieducazione non è astrazione buonista, ma realtà percepibile.
Ho capito che l’errore in cui ero caduto, fondamento dell’orribile frase che avevo pronunciato, era stato il non aver considerato quanto vittima e criminale possano essere utili l’uno all’altro, se messi in relazione. Non avevo mai pensato a quanto traumatico, e perciò costitutivo, possa essere per un assassino riconoscersi nella madre di un’assassinata, guardare negli occhi il dolore provocato.
Ho pensato che è una prova che probabilmente non sarei in grado di affrontare, e che affrontarla valga più di ogni possibile punizione. Ho pensato che la missione del carcere debba essere quella di dare la possibilità ai detenuti di affrontarla, questa prova.
Ho capito poi che il modo in cui le vittime reagiscono al dolore non è uno soltanto. Ci può essere il desiderio di vendetta (forse, anzi, è sempre presente nell’immediatezza del delitto), ma c’è anche “altro”, come dimostrano Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro.
Ed è necessario dare a questo “altro” la possibilità di svilupparsi, perché è da questo “altro”, credo, che nasce la possibilità dello sviluppo di coscienza e responsabilità condivise.
Ciò che mi rattrista è che sono convinto che non sarei mai arrivato a queste conclusioni senza vivere un’esperienza come gli incontri con il Gruppo della Trasgressione e, purtroppo, un’esperienza del genere la hanno in pochi. Mi chiedo come possa diffondersi nella società la consapevolezza dell’infinita potenzialità che il carcere, inteso come è inteso nel Gruppo della Trasgressione, può avere, perché è davvero difficile esprimere a parole l’esperienza di aver visto coscienze ricostruite. A parole, rischia di sembrare vuota retorica.
Ultimo pensiero abbozzato. Cristo, crocefisso, prima di morire dice: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Ecco, io credo che molte persone (forse, prima degli incontri delle scorse settimane, anche io stesso) intendano la “rieducazione” come una sorta di perdono della società ai criminali che, poverini, non sapevano quello facevano. Di qui il rifiuto collettivo dell’idea che la pena non debba essere sterilmente afflittiva.
Il malinteso è che, in realtà, il carcere davvero rieducativo non perdona, ma responsabilizza, ricostruisce coscienze. Il perdono lo lascia, eventualmente, ai singoli.
Sebastiano Venturi