Al Gruppo della Trasgressione si crede nel reinserimento in società di persone che nella vita hanno commesso dei reati, gravi e no. Il detenuto non viene pensato come un criminale per il quale non è possibile alcuna salvezza, ma piuttosto come una persona con esperienze diverse dalle nostre, per la quale esiste una via d’uscita, che necessita e merita aiuto.
Parliamo soprattutto di ragazzi cresciuti troppo velocemente, ai quali è mancata una figura credibile, rispettabile, capace di offrire loro gli strumenti per affrontare la vita nel modo corretto: ragazzi arrabbiati, fragili, insicuri, privi di obiettivi, e che, al contempo, chiedono aiuto.
Il reparto “La Chiamata” prevede un ambiente dove si respiri crescita, motivazione, trasformazione, creatività e autenticità: un contesto nel quale i ragazzi, mediante il confronto continuo con figure di influenza positiva e lo svolgimento quotidiano di diverse attività, abbiano la possibilità di sperimentare ed esprimere se stessi attraverso la meraviglia dell’arte e della parola: dalla musica alla poesia, dal dipinto alla recitazione. I giovani detenuti potranno qui occupare le loro giornate in modo costruttivo, così da imparare e interiorizzare obiettivi e metodi del progetto.
Penso al reparto come ad un “luogo sicuro in mezzo al caos”, a un contesto al quale detenuti e operatori sentiranno di appartenere e il cui fine sarà quello di far sentire il soggetto in questione ben voluto, coccolato e amato. È fondamentale per i giovani detenuti avere un fine da raggiungere, un ruolo che faccia sentire loro di esistere, di essere utili e di valere qualcosa.
Durante un incontro con giovani detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, è stata posta una domanda, ossia: “Se il carcere potesse essere utile, quale utilità dovrebbe avere per te?”.
Le risposte sono state: un clima costruttivo, un accompagnamento e un aiuto quotidiano; essere visti per ciò che sono realmente e non solo per ciò che hanno commesso; riduzione della dose di psicofarmaci; essere aiutati a interpretare il ruolo di genitori (essendo divenuti tali troppo precocemente); essere aiutati a diventare più responsabili, a trovare le cause delle loro azioni devianti, così da poter cambiare la loro visione della realtà in positivo.
Molte figure istituzionali sostengono che ciò che manca ai giovani detenuti è una reale motivazione a migliorarsi. Io credo che la volontà non sia qualcosa che c’è o non c’è. Penso che se è presente in modo evidente, occorre semplicemente nutrirla, ma se è presente in porzione minima o quasi nulla, andranno create le condizioni che la stimolino e che rendano le persone consapevoli della sua esistenza.
Ilaria Pinto