Non sono pochi i ragazzi che all’interno del carcere minorile o in comunità ti nascondono la loro vera identità: un adolescente rom solo dopo quattro anni di vita comune mi rivelò il suo vero nome. Mi spiazzò, rimasi perplesso per qualche giorno; poi, capii. Non è solo la difficoltà a consegnare la propria storia personale e familiare; c’è anche la fatica del nascere a se stessi, dell’abitare il proprio nome. Ragazzi orfani di identità.
Sono la paura e la diffidenza a segnare la vicenda di molti adolescenti che incontro: paura di non essere accolti per come sono, paura di non valere agli occhi degli altri, di rimanere invisibili, paura di essere misconosciuti e traditi da un mondo adulto sempre più assente e insicuro, più incline a escludere che a includere.
Ragazzi trasgressivi che, abbandonati a se stessi, sconfinano in comportamenti antisociali e perdono il controllo della loro impulsività, fino a diventare pericolosamente violenti; minori che tentano di soffocare dentro il dolore che li accompagna da quando sono nati.
Li chiamano «ragazzi a rischio», «bulli», «delinquenti», «ragazzi di strada», «giovani devianti», «mostri»: per me sono ragazzi e basta. Li incontro nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e nelle comunità di accoglienza Kayrós, li ascolto nei colloqui personali, per strada, nei dibattiti pubblici, negli oratori e nelle scuole. Con quella tremenda voglia di gridare al mondo il loro esserci, da un po’ di anni sono diventati i miei compagni di viaggio.
Sono cuori violenti spesso per disperazione. Più vado avanti, più mi convinco di una cosa: non esistono ragazzi cattivi. Mi capita più volte, in occasione di incontri pubblici e di colloqui privati con persone adulte, di avvertire intorno a me ammirazione mista a commiserazione, come se stessi svolgendo un compito ingrato, come se occuparsi di ragazzi difficili fosse impresa straordinaria per uomini fuori dal comune. C’è un po’ in giro questa sensazione, che l’educazione debba essere opera di persone particolarmente eroiche e necessariamente sante.
Non è così. L’educazione è compito di ogni adulto, è responsabilità a cui non ci si può sottrarre; chi come genitore, chi come insegnante, chi come politico, chi come operatore sociale, chi come uomo di sport e di fede… Ognuno deve avvertire l’urgenza e la gioia nel consegnare ai giovani il mestiere di vivere, permettendo loro di incontrare il senso del mondo e trasmettendo loro prospettive di valore e di impegno per cui valga la pena di vivere e, se necessario, di morire.
Improvvisamente questi ragazzi diventano scrittori poeti della vita. In queste pagine si nasconde la loro intimità e un’incredibile sapienza e come se il carcere ridesse a questi giovani la voglia di pensare e di tradurre per iscritto pensieri più veri.
I nostri ragazzi, urlano in modo violento il dolore che non riescono più a contenere dentro, cercano adulti interessati a raccogliere il grido d’aiuto, adulti capaci di governare il caos evolutivo che li stordisce. Il reato, più che scelta consapevole, è segnale di fragilità, sintomo doloroso di un disagio.
Il percorso della consapevolezza e della responsabilizzazione è ciò che permette all’adolescente di ritrovarsi. Troppi genitori, insegnanti, educatori, in nome di un malinteso concetto di educazione, evitano lo scontro per non esasperare il conflitto.
È difficile pensare a una ripresa evolutiva, se l’adolescente non viene chiamato per nome ad assumersi nuove responsabilità. Per lasciare la tomba delle paure alle spalle è indispensabile che egli si senta coinvolto in progetti importanti di vita, in avventure educative di ampio respiro dove possa sperimentarsi come soggetto attivo e possa vivere un protagonismo sano. Per far sì che questo avvenga occorre pensare a ripensare politiche giovanili nell’ambito pubblico e progettualità pastorali nell’ambito ecclesiale improntate sulla serietà.
I giovani non si lasciano affascinare da chiamate poco esigenti e prive di carica. Non c’è espiazione che tenga se non avviene prima questo recupero della coscienza, forse meglio ancora se non si incomincia a formare una coscienza. Non c’è alcuna possibilità di riprese evolutiva senza l’assunzione di responsabilità nei confronti di sé e degli altri. Solo così molte crisi adolescenziali trasformano in risorse un periodo doloroso e difficile di crescita.
Estratti da: ISBN eBook PDF 9788831560825, Burgio Claudio. Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano. Edizioni Paoline. Edizione del Kindle. Prima edizione digitale 2013.
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