Caro figlio mio

Caro figlio mio, o figlio mio caro: spesso noi due scherziamo – ripassando la grammatica anche in questo faticoso inizio di prima media – su come il mio professore di italiano al liceo diceva che la diversa posizione di una virgola nella stessa frase può cambiarne radicalmente il senso.

Ma anche la diversa disposizione delle parole conta…. e così nel “figlio mio caro” l’accento non cade più sull’amore ma sui costi della faticosa sopportazione da parte del genitore, in questa tua preadolescenza sempre più inquieta.

Capita spesso che fin da bambino qualsiasi esperienza ci venga proposta sempre suddivisa in due categorie: bianco o nero, buono o cattivo. E forse per questo cresciamo nel dissidio interiore di dover dare ascolto solamente ad una voce: e, preferibilmente nelle intenzioni di mamma e papà, quella dell’angioletto piuttosto che quella del diavoletto.

Se mi volto a guardare indietro, il ricordo ancora nitido è quello di me diciassettenne nell’anno di Noviziato con gli scout di Sesto San Giovanni: oggi sempre di più posso dire che è stato proprio quello il tempo in cui ho imparato a mettere ordine dentro me stesso. Fino a quel momento mi guardavo intorno e, forse per superare la banalità della gran parte delle cose che mi circondavano, avevo iniziato a trascrivere a mano su dei quaderni rossi i testi delle canzoni (soprattutto quelle in lingua inglese) che più mi facevano sentire vivo. Perché, al di là dello scoutismo e dei legami forti generatisi all’interno dell’ambiente scolastico nel quale i miei genitori mi avevano sapientemente inserito, per me “era sempre difficile rimettersi in marcia e, ogni volta che ritornavo a casa, era tutto e solamente un aspettare la successiva uscita. La città da una parte, così indecifrabile e indigeribile;  il bosco dall’altra, così desiderabile e terapeutico”.

E così arrivai alla fine della route di quella mitica estate 1988 e i miei compagni di Noviziato mi affidarono in dono, come totem e pertanto segno caratteristico del mio essere, quello di Tigre Gioiosa. Dove, al di là della tigre che ancora oggi connota il mio carattere spigoloso, l’aggettivo gioiosa mi fu assegnato in termini “migliorativi”, come cioè un invito a collocarmi di più verso sfumature di colori sentimentalmente più caldi.

Già, le sfumature. Perché con il tempo mi arrivò in premio un’altra folgorazione, dopo il senso di quell’anno straordinario del Noviziato e dopo tutte quelle parole vitali delle quali mi nutrivo ricopiandole su quei quaderni rossi, come fossero un breviario laico per l’anima.

Fu ad un campo scout di “formazione capi” quando, durante una sessione serale e nel fiume in piena dei miei 22 anni, sentii pronunciare dagli educatori che avevano cura di noi l’elogio dell’equilibrista: colui che per rimanere in piedi sul filo, e non cadere nel baratro o nel vuoto che sia, deve continuamente sbilanciarsi da una parte e dall’altra. In quell’immagine, così semplice ma per me straordinariamente efficace, trovai la soluzione a tutti i miei residui mali. 

E iniziai a non tormentarmi più nella vana ricerca di un equilibrio stabile, perché solamente una sana instabilità poteva farmi andare avanti, un passo alla volta. Perché in ogni singolo passo c’è inevitabilmente il segno plastico di tutto questo: sbilanciarsi in avanti per non rimanere fermi.

Capirai allora perché quando, all’inizio del nostro cammino all’interno del Reparto La Chiamata, ho sentito il nostro comune amico Juri parlare dell’altalena, ho avvertito il cuore nuovamente battere forte come in quella sera di 30 anni fa. E ho realizzato che in questo ultimo viaggio nel sottosuolo del carcere di San Vittore sei sempre stato tu il protagonista dei miei pensieri. E proprio per questo ho deciso di vedere quali pagine dei miei quaderni rossi, giovedì dopo giovedì, tale nuova esperienza di comunità educante sarebbe riuscita a fare riemergere dopo tutti questi anni.

Perché la musica, ormai e per fortuna, fa parte anche della tua giovane vita. Non potrò mai dimenticare uno dei miei primi timidi approcci con te sul tema… quella sera quando, sdraiati sul lettone di casa e dopo averti fatto ascoltare l’assolo di Gilmour a Pompei, mi avevi confidato: “Non male papà, ma lo sai che anche Rovazzi sa suonare la chitarra?”.

Sicuramente l’Hotel California nel quale un tempo cercavo rifugio, trasportato dalle note della mia chitarra bianca, può avere lo stesso significato della Swishland del cantante che oggi preferisci: un luogo di evasione.

Ma io ti auguro di trovare qualcuno che sappia poi dare voce al tuo dáimōn, affinché quella naturale ed innata voglia di evadere non ti porti all’autodistruzione ma sia capace di farti realizzare il disegno che la vita ha in serbo per te. Non sarò geloso nei suoi confronti, ma infinitamente grato: del resto il nonno e la nonna, che tu ben conosci, hanno avuto la capacità di coltivare il terreno, prepararmi la strada indicandomi una direzione di senso (nonostante la naturale timidezza del primo e qualche milligrammo di ansia – ugualmente naturale – della seconda) con l’esempio e senza tanti giri di parole. Ma sono stati poi altri, diversi dai mei genitori, a raccoglierne il testimone e a fare con me e su di me “il lavoro sporco”: una maestra elementare e a seguire una manciata di altri bravi insegnanti, un prete e una suora, alcuni capi scout, un amico di famiglia.

Quando, ancora oggi, devo affrontare qualche momento di difficoltà e sconforto, mi fermo ad ascoltare le loro voci che ancora tutte risuonano dentro di me. O rileggo le parole messe in poesia che mio papà ha pubblicato prendendo spunto dalle lettere che ci scambiavamo quando ancora non sapevamo come parlare alle nostre reciproche anime. O ripenso a qualche bigliettino che, ancora oggi, mia mamma non si stanca di lasciarmi infilato in qualche sacchetto.

Perché anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te. E, come un direttore di orchestra, saper far suonare insieme tutti gli strumenti. Certo, avendo il coraggio di ascoltarli tutti, nessuno escluso, e di accordarli nel modo migliore affinché il suono così generato sia quello più utile e proficuo per l’occasione richiesta.

Confesso anche che credevo, nel mio strampalato senso giovanile di onnipotenza, di poter trarre da tutte le parole che con cura trascrivevo su quei quaderni non solo nutrimento interiore ma anche ispirazione per una canzone che avrei voluto scrivere io, e che sarebbe per ciò solo passata alla storia. Da anni sorrido di tutto questo anche perché ormai mi è chiaro che, se rinasco, non voglio più essere un cantautore ma un sentimental dj, sempre pronto a trovare – in ogni occasione della vita – quel disco capace di far star meglio una persona attraverso l’invito a curarsi, facendo risuonare dentro di sé parole di altri. E, proprio grazie a quella cura, saper ritrovare le proprie parole e riuscire finalmente a pronunciarle, come atto creatore capace di dare il vero nome alle cose.

Ma, a pensarci bene, è questo anche l’impegno che voglio prendere oggi – in questa festa del papà cosi particolare e quantomai sentita – con te e con tutti i giovani adulti del Reparto la Chiamata.

Per amore del mio popolo non tacerò”, e per aver invitato altri a non tacere più qualcuno ha anche perso la vita: il suo nome è don Peppe Diana, ucciso un 19 marzo di tanti anni fa (era il 1994) nella sua Chiesa, a soli 36 anni e nel giorno del suo onomastico, da un killer del clan dei casalesi. E ancora oggi sono molti a rimpiangerlo, perché in lui erano riusciti a trovare un padre.  Ma, come era solito dire ai suoi parrocchiani, “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte”.

Caro figlio mio, “la vita è un bivio”: così ci ha ricordato – in maniera tanto semplice quanto efficace – Mattia durante uno dei nostri primi incontri a San Vittore. Quando anche tu ti sentirai prigioniero, ricordati quel pezzo di via Francigena che abbiamo voluto fare insieme – io e te soli – la scorsa estate: dopo 9 ore di cammino e portando anche il tuo zaino di fronte all’ultima fatica, imprecavo al cielo come un pazzo invitando il Sindaco di Monteriggioni a costruire un tapis roulant al posto di quella impervia salita che conduce all’ingresso delle mura medioevali.

 

Non abbiamo mai riso così tanto, perché anche tu sapevi che stavo scherzando: lo scoutismo infatti ci insegna che la strada più larga ed in piano difficilmente è quella che porta più lontano.

A differenza di Mattia e di tanti altri giovani adulti che non riescono più a trovare la via di casa, le scelte della tua vita tu le hai ancora tutte davanti. Buona strada allora: insieme a tua mamma e a tua sorella, sai che facciamo il tifo per te.

E io faccio il tifo anche per i giovani adulti del Reparto la Chiamata, perché ti auguro anche di scoprire sulla tua pelle che quando poi diventi padre le persone a cui vuoi bene le guardi e le ascolti come se fossero tutti figli tuoi.

Casa circondariale di Milano San Vittore, 12 gennaio 2023 – 16/19 marzo 2023

Reparto LA CHIAMATA        Genitori e figli

2 pensieri riguardo “Caro figlio mio”

  1. “… anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te”

    Questa frase rappresenta così bene la traccia che cerco di seguire che non ho nulla da aggiungere.
    Juri

  2. “La strada piu’ larga e in piano difficilmente porta piu’ lontano…”
    Al di la’ delle molte e importanti questioni che la Lettera puo’ suscitare, e’ questo aspetto che mi sembra possa essere un’importante lezione di vita, un aggiornamento dell’antico “per aspera ad astra” in cui sono cresciute tante generazioni…Val la pena di additarla ancora oggi come un monito a non fidarsi, specie nella fase della costruzione della propria personalita’, di ogni facile scorciatoia, di non concedersi alle sirene del successo: “in fama non si vien, ne’ sotto coltre”.

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