Il mio rancore, guardando il soffitto

Ogni tanto, durante la giornata, mi fisso a guardare il soffitto disteso sulla branda, e spesso ripercorro le fasi della mia vita, partendo da quando ero piccolo e dal mio rancore, un sentimento acceso da situazioni che hanno spiazzato tutte le mie aspettative. Come per tutti i figli, anche per me i veri idoli e punti di riferimento erano i miei genitori, ed io, come tutti, cercavo la loro attenzione. Eravamo papà, mamma, io e Massimiliano, il mio fratellino.

Durante la settimana, da lunedì a venerdì, mio padre, stando a quello che ci diceva mamma, lavorava in trasferta, mentre mamma Angelina faceva 2 o 3 lavori per non farci mancare nulla. Noi, dopo una mattinata, chi all’asilo chi a scuola, facevamo il nostro piccolo dovere; di pomeriggio ci appoggiavamo un po’ a destra e un po’ a manca, da zii o da vicini di casa. Tutto questo fino all’età di 9 anni io e 5 anni Massi.

Col passare del tempo, piano piano ho iniziato a vedere mio padre sotto un altro aspetto, questo dovuto ai loro primi litigi (in presenza mia), anche cercati da mamma, perché aveva scoperto, e lo dichiarava davanti a noi, che aveva un’altra donna.

A un certo punto, ci siamo trovati catapultati in collegio dalle suore a Vigevano. E qui il mio malanimo si è aggravato ancora di più e mi ha portato a chiudermi con gli altri. A rafforzare il mio disagio vanno anche aggiunti i sabati e le domeniche, passati alla finestra ad aspettare: un weekend veniva a trovarci mamma, sempre puntuale, mentre dell’altro weekend non dimentico ad oggi le scuse che  dovevo inventare per cercare di sdrammatizzare con mio fratello piccolo: gli dovevo fare da padre, irrequieto com’era, mentre vedeva gli altri collegiali andare via uno alla volta.

Così potete anche immaginare come lievitavano i miei rancori, erano sempre più forti, anche se poi non li manifestavo. Era cresciuto un risentimento nascosto, che mi ha seguito molto durante il percorso della vita; forse anche per la mia impotenza di non poter sistemare le cose.

Dopo due anni, siamo tornati anche a vedere i miei adorati nonni, sia paterni che materni, e lì filava tutto liscio, ma poi sono riapparse le crepe in casa. E da lì, quando sono diventato un po’ più grande, per sentirmi bene, dovevo scappare fino alla fine della tempesta. E così, andando in strada, mi sono trovato con dei miei coetanei che avevano disagi simili ai miei.

In effetti, c’era chi aveva i genitori come me, chi il padre o i fratelli in galera, le stesse problematiche che hanno reso facile mischiarmi con i miei simili e prendere strade sbagliate.

Qui il rancore si è fuso con un improvviso delirio, che a quell’età mi ha portato ad esplodere in azioni incontrollate. Volevo fare il medico, curarmi da solo senza una laurea.

Oggi però, mi sento meno ansioso, anche perché alla lunga ho capito che è inutile fare la guerra contro chi doveva essere il mio supereroe (mio padre), perché ciò porterà solo distruzione.

Anche vero che portare rancore a volte non è solo utile ma addirittura necessario, con un dosaggio controllato, perché ad oggi questo mi ha spinto a ragionare, pensare, migliorare, come sto facendo ora. L’importante è capire quando è utile e quando può essere dannoso.

Tocco questi argomenti con il gruppo perché mi rivedo nei ragazzi di oggi. Tanti di questi rimangono senza che nessuno li ascolta, o si ritrovano a interpretare ruoli non propri, prendono decisioni affrettate, senza esperienza e senza consultarsi con nessuno. In fondo, se non hai una guida, è difficile orientarsi per la strada giusta.

Ora è meglio che mi stacchi dal soffitto, altrimenti, non finisco più con questo scritto.

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Nunzio Galeotta

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