Mercoledì 21/11/18
Casa di Reclusione di Milano Opera
Una riflessione fra persone con ruoli molto diversi, ma tutte legate dall’idea che uno dei pochi argini al delirio di onnipotenza cui il potere espone è quello della responsabilità verso i destinatari della nostra funzione.
A tutte le persone che intendono partecipare chiediamo di contribuire al buon esito dell’iniziativa osservando le seguenti indicazioni:
- Le richieste di prenotazione (obbligatoria) all’evento vanno inoltrate a associazione@trasgressione.net fino a un tempo massimo di 10 giorni prima dell’evento
- specificando chiaramente: Nome e Cognome, Luogo e Data di nascita e N° Carta d’identità,
- allegando la fotocopia del proprio documento di identità.
- Ingresso gratuito.
- Le prenotazioni possono essere inoltrate individualmente, ma per snellire il nostro lavoro chiediamo la cortesia, quando è possibile, di cumulare più richieste in un’unica mail.
- E’ indispensabile essere presenti all’ingresso entro le 13:30. Via Camporgnago 40, Milano.
- Allo scopo di facilitare i controlli all’ingresso e per evitare ritardi è necessario presentarsi senza cellulari, senza oggetti elettronici, chiavette USB, ecc.
- Associazione Trasgressione.net: interventi di prevenzione al bullismo nelle scuole medie superiori e inferiori, il teatro sul mito di Sisifo, convegni su i temi del gruppo, concerti della Trsg.band;
- Cooperativa Trasgressione.net: consegne di frutta e verdura freschi a bar e ristoranti e a gruppi di consumatori associati, le bancarelle nei mercati rionali con gli stessi prodotti, il restauro di beni artistici, lavori di manutenzione e di piccola ristrutturazione.
Progettare e lavorare con chi ha commesso reati giova al bene collettivo e alla conoscenza dei percorsi devianti più della pena che il condannato sconta in carcere
ADESSO CHE TUTTO E’ FINITO…
UN RICORDO DI PAOLO FINZI
(Gianni Sartori)
Coincidenze? La notizia della tragica morte di Paolo Finzi mi arrivava il 21 luglio (19° anniversario della macelleria messicana di Genova 2001) contemporaneamente a quella dell’imminente sgombero sia di Frigolandia (deposito della memoria antagonista-alternativa degli ultimi 50 anni, oltre che presidio di resistenza umana e culturale) che del Conchetta di Milano. Forse davvero un ciclo si va chiudendo definitivamente e per la mia generazione è il momento di passare il testimone.
Avevo iniziato a collaborare con “A, rivista anarchica” (di cui Paolo era stato tra i fondatori, quindi redattore e infine direttore per quasi 50 anni) negli anni ottanta. Con un articolo – se non ricordo male – sullo sfruttamento di balene e delfini addestrati per scopi militari. Paolo l’avevo incrociato in precedenza a qualche manifestazione. A Carrara, nel 1972 (a qualche mese dalla morte di Franco Serantini che Paolo aveva ben conosciuto) c’era anche stato un incontro con Alfonso Failla, militante storico dell’anarchismo carrarese, destinato a diventare suo suocero e su cui scriverà una avvincente biografia. La mia collaborazione con “A” fu tutto sommato di lunga durata, nonostante qualche polemica e discussione per i miei spiccati interessi nei confronti di popoli oppressi e minorizzati. Situazioni di cui Paolo diffidava avvertendo talvolta un eccessivo“ odor di nazionalismo” (mentre chi scrive ne coglieva piuttosto l’aspetto legato alle lotte di Liberazione dal colonialismo, dall’imperialismo, dal capitalismo etc.). Alla fine comunque, pur se con qualche riserva, pubblicò anche miei articoli, interviste e reportage su Paesi Baschi, Paisos Catalans e Irlanda. Oltre che su Indios (Moseten, Uwa…), Sinti (vedi l’articolo su Paolo Floriani), Curdi, Armeni e Adivasi dell’India.
Uscì anche un articolo su “Mio padre partigiano” dove raccontavo oltre che della “brigata Silva” (Colli Berici) anche del nonno “obbligato” e dello zio operaio aggrediti dai fascisti con manganelli e olio di ricino. E per il numero speciale del gennaio 2011 (quarantesimo di “A”) mi chiese di curare l’intervento su “Anarchismi e indipendentismi”.
In seguito, anche se ci siamo visti di persona varie volte, sia a Milano (dove passavo in redazione) sia in occasione di incontri a Padova, Abano (per un concerto di Alessio Lega), Mestre (presso gli “Imperfetti”) e Vicenza, il solco fra noi era destinato ad ampliarsi. Soprattutto per qualche mia collaborazione con riviste e siti giudicati troppo “identitari”. Per me rappresentava un tentativo di portare nel caotico ambiente autonomista e indipendentista tematiche anti-capitaliste, anti-gerarchiche, ecologiste etc.(fermo restando che riuscirci è sempre un altro paio di maniche).
La rottura definitiva (dopo un primo temporaneo “congelamento”) risaliva a tre anni fa e sinceramente avevo sempre sperato che prima o poi ci saremmo spiegati e magari riconciliati.
Invece il 20 luglio, in una stazione di Romagna, Paolo ha scelto di andare direttamente contro la morte, guardarla in faccia e morire in piedi a fronte alta. Una scelta alla Guy Debord degna di lui. Presumo non abbia voluto assistere passivamente al proprio declino dopo una vita trascorsa sulle barricate della Storia, in direzione ostinata e contraria, a pugno chiuso. Da anarchico.
E mi torna in mente l’ultima volta che ci siamo visti, proprio in un’altra stazione. A Vicenza dove lo avevamo invitato, a Villa Lattes, per parlare del suo amico Fabrizio De André. Dopo un breve rimpatriata con Matteo Soccio alla Casa per la Pace, in attesa del suo treno per Milano (e della mia corriera per il paesello) parlammo a lungo delle radici “partigiane” e antifasciste delle rispettive famiglie.
Mi raccontò soprattutto di sua madre Matilde Bassani. Partigiana combattente, era cugina dello scrittore Giorgio Bassani e di Eugenio Curiel (ucciso dai fascisti nel 1945).
Vorrei ricordarlo con questa breve intervista, realizzata quattro-cinque anni fa, dove avevamo affrontato la questione ebraica su cui talvolta erano sorte discussioni (soprattutto in rapporto a quella palestinese).
Un incontro con Paolo Finzi della redazione di “A, Rivista Anarchica”
Con Paolo Finzi, ebreo ateo (precisa) e anarchico, abbiamo parlato di antisionismo. “Una questione che – sostiene – generalmente procede in parallelo con l’antisemitismo da cui trae alimento”. Ben sapendo, ovviamente, che i termini “semitismo” e “antisemitismo” nel linguaggio corrente vengono usati in modo improprio. Giornalista, saggista, unico superstite della originaria redazione di “A, Rivista Anarchica”, militante storico della sinistra libertaria (amico personale, tra gli altri, di Giuseppe Pinelli, Fabrizio De André e Don Gallo), Finzi si è occupato a lungo del fenomeno delle persecuzioni, soprattutto di quelle passate e presenti contro Rom e Sinti. Nel 2006 aveva prodotto il doppio DVD con libretto “A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari”. Da anni tiene conferenze (molte nelle scuole) sulla multiculturalità, le persecuzioni, la Memoria. Recentemente presso la comunità cattolica alle Piagge (Firenze), chiamato da don Alex Santoro.
Presumo che qualcuno avrà da ridire sulle opinioni espresse da Paolo Finzi in merito allo stato di Israele. In ogni caso la sua era una campana che andava ascoltata, altrimenti il “pensiero unico” che scaraventiamo fuori dalla porta poi rientra dalla finestra (o viceversa, non ricordo).
D. Quale differenza vedi tra antisemitismo e antisionismo, termini spesso usati in maniera indifferenziata?
R. Premetto che non mi considero un esperto in senso accademico e che le mie riflessioni sono in gran parte legate al mio vissuto. Sorvoliamo pure sul fatto che il termite “semita” viene utilizzato in maniera etimologicamente errata e prendiamo atto che ormai “antisemita” è sinonimo di antiebraico. Mentre l’antisemitismo è un problema storico di vecchia data legato all’esistenza plurimillenaria degli ebrei, l’antisionismo ovviamente è un fenomeno più recente, successivo alla nascita del sionismo nel XIX secolo. Il sionismo si definisce nell’ambito dei movimenti ottocenteschi di liberazione e di costituzione nazionale. Con la differenza (rispetto per esempio al Risorgimento) che si applica ad un popolo disperso in vari paesi e non per propria scelta. Un popolo da riunificare, su principi di libertà e convivenza civile, nella prospettiva della realizzazione di una entità nazionale. Quindi anche l’antisionismo è relativamente giovane, circa un secolo e mezzo. Oggi i due termini si confondono, soprattutto dal 1948 quando nacque lo Stato di Israele, in un contesto e con modalità che i tanti antisionisti attuali ignorano o vogliono ignorare (il che è lo stesso).
Mi si consenta una battuta. Israele è l’unico posto al mondo dove “uno sporco ebreo è solo un ebreo che non si lava”. Rende l’idea del perché, nonostante l’estrema frammentazione (politica, religiosa, di nazionalità, ecc.), tra Ebrei e Israele esista un rapporto così intenso, profondo… (il che non significa approvare tutto quello che fanno i governi israeliani).
D’altra parte val la pena ricordare che molti Ebrei prima della nascita dello Stato di Israele erano contrari al sionismo (vedi il Bund, grande sindacato dell’Europa Centro-Orientale). Dopo la nascita di Israele, essere antisionisti assume un altro significato.
D. Soprattutto a sinistra, ma anche in certa “destra radicale” ( peraltro strumentalmente, ricordando da che parte stavano i neofascisti italiani in Libano) l’antisionismo si presenta come anticolonialista, una scelta di campo a fianco degli oppressi. Questo atteggiamento, a tuo avviso, è sempre autentico o talvolta maschera un razzismo antiebraico di fondo?
R. Ritengo che molta gente parli senza ben conoscere le cose di cui si occupa. Spesso chi si definisce antisionista non conosce i termini della questione. Si vede in Israele il luogo della confluenza degli Ebrei dopo la seconda guerra mondiale e si da per scontato il carattere anti-arabo e anti-palestinese di questa presenza. Come se gli Ebrei avessero imposto all’Europa (in preda ai sensi di colpa) la costituzione di questo stato a scapito dei Palestinesi. In base a questa lettura l’antisionismo diventa l’opposizione al colonialismo israeliano. Dopo la Guerra dei sei giorni (1967) in particolare abbiamo assistito ad un mutamento politico di gran parte della sinistra italiana (all’epoca rappresentata soprattutto dal PCI) che divenne ostile nei confronti di Israele, spesso mischiando la critica alla politica dei vari governi con la negazione della legittimità dell’insediamento “sionista”,
Va anche aggiunto che lo stesso sionismo, rispetto alle origini ottocentesche, si è modificato. La questione è molto complessa, densa di problemi. Basti pensare a quanti interessi economici sono in gioco in quell’area, non solo il petrolio.
Al di là dei singoli episodi (come recentemente in Francia) dovrebbe preoccupare la vasta presenza nella società di sentimenti antiebraici. Da un certo punto di vista l’ignoranza, i pregiudizi, l’opinione che gli Ebrei sono “una setta che pensa a fare soldi”, ecc. e tutti gli altri stereotipi diffusi a livello popolare possono essere più nocivi di Le Pen o del pazzo di turno che compie una strage. Esiste un continuum sociale che in determinate circostanze parte dalla piccola intolleranza o insofferenza quotidiana e arriva fino all’odio generalizzato e alla fine fa accettare tutto, anche le camere a gas.
D. Il sionismo, la “questione ebraica”, così come la “questione palestinese” in alcuni paesi arabi, talvolta sono apparsi come un pretesto per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni. La tua opinione?
R. In Europa gli Ebrei, così come Sinti, Rom e altre minoranze o soggetti “deboli” (v. gli albanesi negli anni ’90, i rumeni nell’ultimo decennio…), sono stati spesso utilizzati per coprire le contraddizioni di un paese. A conferma delle teorie che il “nemico interno” al potere serve sempre. Ovviamente è sempre meglio utilizzare quelli con un ruolo ormai consolidato di “diversi”, non-assimilabili, vittime predestinate. E gli Ebrei, sia per la loro perdurante esistenza che per la loro volontà appunto di non assimilazione, si prestano ottimamente. Non si dovrebbe dimenticare che in molti paesi tra i vari filoni dell’antigiudaismo ha giocato un ruolo rilevante anche quello di matrice cristiana.
Mi piace altresì sottolineare che negli ultimi tempi ci sono stati passi avanti da parte delle istituzioni ecclesiastiche. Così come, nel corso della storia e soprattutto durante le persecuzioni ad opera dei nazifascisti ci sono sempre stati frequenti esperienze di dialogo e solidarietà da parte di singoli credenti e religiosi.
Mia madre, ebrea e socialista, partigiana combattente, a Roma, ricercata dai nazisti, riparò in un convento cattolico e lì fu protetta.
Gianni Sartori
nda Con il termine sionismo si indica un movimento sorto nel 1882 per “riportare a Sion” gli Ebrei della diaspora. La nascita coincide con una recrudescenza delle persecuzioni nella Russia zarista e con la fondazione a Varsavia del gruppo Chovevè Sion.
Risale allo stesso periodo la fondazione della prima colonia ebraica in Palestina e la diffusione di “Autoemancipazione” pubblicato da Lev Pinsker a Odessa. Determinante l’impegno di Theodor Herzl per ottenere garanzie giuridiche internazionali a favore degli insediamenti ebraici. Nel 1897 Herzl convocò il primo congresso sionista dando origine alla Zionist Organization (Organizzazione sionista) e al Jewish National Fund (Fondo nazionale ebraico). L’immigrazione divenne più consistente a seguito della “dichiarazione Balfour” del 2 novembre 1917 con cui il ministro britannico si impegnava a favorire la costituzione di una sede nazionale ebraica. Tra i nuovi immigrati era prevalente una componente operaia rappresentata da partiti e movimenti come Poalé Zion (Operai di Sion) e Hapoel Hatsair (“Il giovane operaio”). Nel 1919 nasceva Ahdrut Haavoda (“Unità del Lavoro”) da cui in seguitò si staccò il Partito comunista di Palestina. Su posizioni di destra, il Partito sionista revisionista fondato nel 1924 da Vladimir Jabotinsky. Nel 1931 la milizia giovanile di questo partito, Betar, divenne l’Irgum Zwai Leumi, responsabile dell’attentato al King David Hotel (luglio 1946) e del massacro di Deir Yassin (aprile 1948). Nel novembre 1947 l’Onu approvò un piano di spartizione della Palestina. Allo scadere del mandato britannico, 15 maggio 1948, il comitato esecutivo controllato dai dirigenti sionisti si trasformò nel governo provvisorio della neonata nazione israeliana.
G.S.
https://www.osservatoriorepressione.info/19-aprile-1968-la-rivolta-valdagno/
a oltre mezzo secolo distanza, per la serie “accadde oggi” e per ricordare quello che – bene o male – siamo stati…
GS
IN MEMORIA DI FRANCO SERANTINI, UN “SOVVERSIVO DIMENTICATO”
di Gianni Sartori
A ormai oltre mezzo secolo, un ricordo del martirio di Franco Serantini, un compagno, tra l’altro, che Paolo Finzi conosceva bene. Avevano partecipato insieme a molte iniziative e riunioni, anche discutendo spesso animatamente (come mi aveva raccontato Paolo).
Così come per altri anniversari, anche il 51° dell’assassinio di Franco Serantini, è andato inosservato o quasi. In memoria del giovane anarchico massacrato dalla polizia a Pisa nel maggio 1972 Ivan della Mea (16 ottobre 1940 – 4 giugno del 2009) aveva scritto una canzone: «…da morto fai paura / scatta l’operazione, rapida sepoltura / E’ solo un orfano, fallo sparir / nessuno a chiederlo potrà venir…».
Nel 1997, quando lo intervistai, Ivan mi raccontò di averlo incontrato qualche volta a casa di suo fratello Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003). Luciano ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco. Si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini. Da ricordare anche il ruolo dei fratelli Della Mea nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa.
Riporto testualmente quanto mi disse Ivan all’epoca dell’intervista (1997): «Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti. A Pisa vi furono due manifestazioni perché c’era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di Adriano Sofri. Invece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato morire in carcere ndr) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell’altra Umberto Terracini. Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l’altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino …”.
(ma questa per dirla con Kiplig, è un’altra storia nda)
Un inciso. Stando alla testimonianza di Valerio, un libertario di Pistoia che prese parte alla manifestazione, ad un certo punto, visto che nel suo intervento Sofri stava poco elegantemente appropriandosi della figura di Serantini, “qualcuno” strappò i fili del microfono per cui il leader di Lotta Continua parlò ma quasi nessuno lo intese.
Quanto alla canzone da lui scritta in memoria di Franco, Ivan mi disse di cantarla ancora anche se «naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d’uso per la memoria storica”». (*)
Anniversario quasi inosservato, dicevo. Eppure la vicenda a suo tempo suscitò una forte emozione. Franco Serantini incarnava suo malgrado la vittima predestinata, il reietto della società, inerme e indifeso, su cui si era scatenata la violenza bruta del Potere.
Franco aveva vent’anni. Era nato in Sardegna nel luglio 1951. Figlio di NN, come allora si diceva. Aveva trascorso la sua breve vita tra brefotrofi e istituti di correzione, prima in Sardegna, poi in Sicilia, di nuovo a Cagliari, a Firenze e infine a Pisa.
In pratica viveva in un regime di semilibertà (pur senza la minima ragione di ordine penale) e doveva mangiare e dormire nell’istituto di rieducazione in piazza San Silvestro. Piccolo di statura, miope, viene descritto da chi lo ha conosciuto (oltre alla famiglia della Mea, cito anche le sorelle Failla e Paolo Finzi) come intelligente e generoso. A Pisa frequentava la scuola di contabilità aziendale ed era affiliato dell’Avis. Sicuramente le sue personali vicissitudini furono determinanti nell’indirizzarlo verso una scelta radicalmente libertaria. Nell’autunno 1971 cominciò a partecipare alle riunioni del gruppo “Giuseppe Pinelli” di via San Martino e proprio in quel periodo conobbe e frequentò assiduamente la famiglia di Luciano della Mea.
Il 5 maggio Franco prese parte a un presidio antifascista indetto da Lotta continua contro un comizio dei fascisti del Movimento Sociale Italiano. Il presidio venne duramente attaccato dalla polizia e Franco si trovò circondato da un gruppo di celerini sul lungarno Gambacorti. Alcune testimonianze confermarono che il giovane non aveva opposto nessuna forma di resistenza.
Nel 1989 una signora mi raccontò di aver assistito dalla finestra al pestaggio e di aver gridato invano ai poliziotti di smetterla perché «così finirete per ammazzarlo». A distanza di anni ogni volta che andava al cimitero, dopo aver portato dei fiori sulla tomba di suo marito, ne portava anche su quella di Franco.
Il giovane anarchico, dopo un durissimo pestaggio, venne trasportato prima nella caserma dei carabinieri e poi nel carcere Don Bosco di Pisa. Il 6 maggio venne interrogato. Nel corso dell’interrogatorio gli contestarono soltanto una ipotetica invettiva e lui, dando prova di un candore che sfiorava l’ingenuità, si dichiarò anarchico.
Dalle sue dichiarazioni: «Fui arrestato mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso forti dolori al capo ancora attualmente». Nonostante le sue condizioni non venne ricoverato ma messo in cella di isolamento. Il 7 maggio venne trovato privo di sensi nella sua cella; morì alle 9, 45 poco dopo essere stato trasportato al Centro Clinico del carcere. Nel pomeriggio dello stesso giorno le autorità del carcere cercarono di ottenere tempestivamente l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del cadavere, ma l’ufficio del Comune si rifiutò di concedere il benestare alla tumulazione. Fu allora che Luciano Della Mea decise di costituirsi parte civile e richiedere l’autopsia.
L’avvocato Giovanni Sorbi così lo ricordava: «Un corpo massacrato, al torace, alle spalle al capo, alle braccia. Tutto imbevuto di sangue. Non c’era neppure una piccola superficie intoccata…».
Il 9 maggio 1972 venne sepolto con una grande partecipazione popolare. Il discorso di commiato venne pronunciato da un anziano militante anarchico, Cafiero Ciuti.
Sulla sua tomba, anche a distanza di anni, sventolavano sempre una bandiera rossa e una bandiera nera.
Il 13 maggio 1972, dopo una grande manifestazione, venne deposta una lapide in suo ricordo all’ingresso di palazzo Tohuar, sede dell’istituto che aveva ospitato Franco. A Torino gli venne dedicata una scuola e nel 1979 sorse a Pisa la biblioteca – e poi casa editrice – che porta il suo nome. Nel 1982 in piazza San Silvestro, ribattezzata piazza Serantini, venne inaugurato un monumento in sua memoria donato dai cavatori di marmo di Carrara. Anche un noto alpinista – “Manolo” Zanolla – volle dedicargli una sua impresa: sulla parete Sud Ovest del Dente del Rifugio in Val Canali (Pale di San Martino) esiste una impegnativa via di roccia (6° +) intitolata appunto a Franco Serantini.
Nonostante le indagini sulla morte del giovane anarchico finissero sepolte nei “non ricordo” degli ufficiali di PS presenti al fatto, la vicenda rimase a lungo ben presente nell’opinione pubblica grazie a una costante campagna informativa dei giornali anarchici (in particolare “Umanità nova”), del quotidiano “Lotta Continua” e dei comitati “Giustizia per Franco Serantini”. Fondamentale per conservare la memoria di questo ragazzo che credeva nella giustizia e nella libertà fu il libro di Corrado Stajano “Il sovversivo -Vita e morte dell’anarchico Serantini” pubblicato da Einaudi nel 1975. (**)
A oltre mezzo secolo di distanza vorrei ricordarlo ritto in piedi tra il fumo dei lacrimogeni; piccolo grande guerriero armato solo di parole che si erge contro le ingiustizie del mondo mentre attorno a lui si addensano le ombre cupe dei massacratori senza volto.
Gianni Sartori
(*) Un’altra canzone su Franco Serantini la scrisse Pino Masi. Sulla stessa musica di «I dreamed i save Joe Hill last Night» (ricordate l’emozionante esibizione di Joan Baez a Woodstock nel 1969?) con precisi riferimenti anche nel testo, il cantautore di riferimento di Lotta Continua scrisse «Quello che mai potranno fermare» che è conosciuta anche come «Ho fatto un sogno questa notte». Talvolta viene confusa con quella scritta da Ivan Della Mea o con un’altra, sempre per Serantini, composta da Piero Nissim.
(**) Questa vicenda ebbe anche un piccolo risvolto vicentino. La notizia della morte di Serantini arrivò in piazza dei Signori e venne ricordata in un intervento mentre si svolgeva una manifestazione a sostegno degli obiettori di coscienza che all’epoca venivano spediti direttamente nel carcere di Peschiera. Due obiettori, tra cui Matteo Soccio, dovevano consegnarsi alla polizia ma quando salirono sul palco nessuno si fece vivo. Vennero arrestati poco dopo, quasi di nascosto, mentre se ne stavano andando. La cosa suscitò un certo disappunto fra i presenti, scoppiarono tafferugli e due compagni, un padovano e un vicentino, vennero arrestati. Poi numerosi manifestanti si incamminarono verso la questura dove vennero pesantemente caricati. Non posso escludere che la notizia della morte ingiusta di Serantini abbia contribuito ad alimentare l’indignazione dei presenti. Oltre ai due fermati (rimasero in carcere per qualche giorno) vi furono vari contusi (tra cui il fotografo, allora militante anarchico, Giuliano Francesconi) e almeno due feriti abbastanza gravi: per Chiara Stella e per Francesco – non ne ricordo il cognome – la diagnosi fu di commozione cerebrale. Fra l’altro la carica venne ordinata direttamente, per telefono, dal ministro dell’epoca Mariano Rumor, vicentino. In quel momento si trovava nella “sua” città in visita ad un vecchio compagno di scuola. Due figli di questo amico di Rumor (in anni successivi militanti autonomi) erano presenti e raccontarono che arrivò una telefonata dalla questura. La risposta di Rumor fu lapidaria: “Caricateli!”. Poco cristianamente me molto democristianamente.
Bomba nucleare tattica utilizzata dalla Turchia contro i curdi?
(Gianni Sartori)
In attesa della conferma o meno da parte degli esperti (sempre che la cosa interessi ai media internazionali), diamo anche questa pessima notizia.
Usando il condizionale e il punto di domanda solo per scrupolo (forse eccessivo) e con buona pace dei “campisti” di nuova generazione.
Come avevano già dichiarato in varie occasioni i responsabili del Quartier generale delle Forze di difesa del popolo (HPG) l’esercito turco avrebbe bombardato sistematicamente e ripetutamente (“centinaia, migliaia di volte”) la guerriglia curda a Zap, Avaşîn e Metina (Kurdistan del Sud).
Con sostanze chimiche di ogni tipo e utilizzando inoltre bombe termobariche e bombe al fosforo.
Mancava solo la bomba nucleare tattica. Stando a quanto denunciava due giorni fa Murat Karayılan (portavoce di HPG), i generali di Ankara avrebbero rimediato a questa dimenticanza.
In questi giorni dall’agenzia di stampa Firatnews (ANF) sono state diffuse le immagini (realizzate dalla popolazione locale) di un attacco turco contro le postazioni curde a Martyr Delîl (a ovest di Zap) risalente alle 10h12 del 13 luglio. Un attacco che – stando all’agenzia – si sarebbe contraddistinto anche per l’impiego di una bomba nucleare tattica. L’onda espansiva dell’esplosione si è poi propagata in un’area molto ampia.
Si ritiene che la Turchia ormai da anni si stia dando da fare per ottenere armi nucleari. Nel 2011 Ankara aveva firmato un accordo per un reattore nucleare con la compagnia russa ROSATAM per 20 miliardi .
Aveva anche preso parte ad un altro progetto lanciato nel 2013 nell’ambito di una partnership nippo-francese del valore di 22 miliardi di dollari. Ufficialmente il governo turco ha sempre sostenuto che con questi accordi si voleva soddisfare il fabbisogno energetico del Paese. Ma – stando a quanto riferito dal servizio di intelligence tedesco BND – nel 2015 “la Turchia ha aperto le porte a un’opzione nucleare militare attraverso questi due progetti”.
Secondo lo stesso rapporto, la Turchia avrebbe realizzato strutture per arricchire l’uranio e avrebbe iniziato a produrre polvere di concentrato di uranio chiamata “Yellowcake”. L’uranio se lo sarebbe procurato – illegalmente -tramite il Kosovo e la Bosnia Erzegovina. Comunque il maggior fornitore nucleare della Turchia rimane il Pakistan (quello tanto amato da turisti, alpinisti e sciatori d’alta quota nostrani), sospettato di vendere missili con testate nucleari al mercato nero. Stando ai rapporti di media arabi e indiani, Erdogan sarebbe sempre in buoni rapporti con il Pakistan (non solo per l’acquisto di testate nucleari, ovviamente).
Il sito di notizie “zeenews.india.com” aveva riferito che nel dicembre 2020 le delegazioni militari pakistane e turche hanno tenuto colloqui per due giorni sulle vendite di armi nucleari. Ha inoltre riferito che i caccia F-16 dell’esercito turco, che sono stati modernizzati tra il 2015 e il 2018 con il supporto della NATO, sono stati modificati per trasportare missili nucleari (in attesa della ventilata fornitura di F-35).
Tornando ai fatti qui denunciati del 13 luglio nel Kurdistan del Sud, pensiamo a cosa sarebbe accaduto di fronte anche solo all’ipotesi di un effettivo utilizzo da parte di Mosca in Ucraina di ordigni di tal genere. L’intervento diretto della NATO (di cui, ricordo la Turchia, fa parte) come minimo.
Gianni Sartori
A trent’anni dalla scomparsa, un ricordo del medico partigiano Sergio Caneva, di cui due fratelli perirono nei campi di sterminio.
Morto durante una conferenza, come il prigioniero politico sudafricano Duma Kumalo
A TRENT’ANNI DALLA MORTE, ONORIAMO LA MEMORIA DEL MEDICO-PARTIGIANO SERGIO CANEVA
Gianni Sartori
Quando mi era giunta la notizia della morte dell’amico Duma Joshua Kumalo (uno dei sei di Sharpeville), scomparso il 3 febbraio 2006 a CapeTown, durante una conferenza, la memoria mi era andata immediatamente alla vicenda analoga di Sergio Caneva.
Due storie diverse, geograficamente lontane, ma forse complementari.
Prigioniero politico nel Sudafrica dell’apartheid (anni ottanta) Duma raccontava di aver “passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.
Scampato alle forche dell’apartheid, Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all’Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi che talora citava, ricordare e testimoniare affinché l’orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.
Da molti anni lavorava senza sosta per il Khulumani survivor support group, un’associazione di aiuto per i sopravvissuti dell’apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze.
E spiegava: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l’apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.
Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l’intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.
Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l’apartheid fece un’altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto durante una delle tante conferenze a cui veniva chiamato. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, volantini, fotografie di manifestazioni antiapartheid nell’Europa degli anni ottanta) che avevo spedito a Sharpeville per essere inserito nel museo appena inaugurato.
In circostanze simili se n’era andato il 23 aprile del 1993 – a 73 anni – un altro amico, Sergio Caneva, medico e partigiano vicentino. Due giorni prima del 25 aprile durante una conferenza sulla Resistenza (nell’aula magna della scuola media di Cavazzale) in preparazione appunto della festa della Liberazione. Iniziativa organizzata dal prof Perini.
Due tragedie avvenute senza preavviso. Una momentanea amnesia per Caneva che poi si era accasciato e – presumibilmente – un attacco cardiaco per Duma (con quel cuore generoso, martoriato dalle torture, dalle minaccia incombente della forca…).
Sergio Caneva, nato nel 1919 ad Arzignano, oltre che dirigente provinciale, era stato per anni consigliere nazionale dell’ANPI. Dopo l’8 settembre 1943, studente di medicina ed esponente del Partito d’Azione, prese “la strada dei monti” svolgendo una pericolosa attività clandestina come ispettore delle formazioni partigiane della Divisione “Pasubio”. Venne condannato dal regime di Salò a 30 anni (in contumacia) mentre due suoi fratelli venivano deportati nei campi di sterminio. Macabra coincidenza. I loro resti erano stati riportati in Italia soltanto un mese prima della sua scomparsa e non si può certo escludere che proprio quel rinnovato dolore lo abbia alla fine stroncato.
Laureatosi nel dopoguerra, aveva inizialmente operato come chirurgo all’Ospedale Civile di Arzignano. in seguito, come psichiatra, aveva curato centinaia di persone (molte donne, spesso vittime di una mentalità retriva e maschilista diffusa nel Veneto “bianco”) all’ospedale psichiatrico di Vicenza, prodigandosi anche – nel tempo libero -per curare gratuitamente i diseredati.
Fu tra i primi in Italia a studiare e applicare il metodo dei
Gruppi Balint (ideato da Michael Balint, destinato ai medici e alle altre professioni di sostegno per la formazione psicologica nella “manutenzione del ruolo curante”) e anche, pionieristicamente, il “Training autonomo di Schultz” (una tecnica di rilassamento sviluppata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz e utilizzabile anche autonomamente dal paziente per lenire ansia e depressione).
Autore, oltre che di molte pubblicazioni scientifiche, del libro “Resistenza civile e armata nel Vicentino” (scritto con Remo Prenovi), si era dedicato alla testimonianza assidua di quel che avevano rappresentato i lunghi mesi della Resistenza antifascista attraverso un gran numero di conferenze (soprattutto nelle scuole).
Ma, come aveva ricordato nell’orazione funebre, davanti a centinaia di persone, l’avvocato Lino Bettin (all’epoca presidente dell’ANPI vicentina) “quello che non potremo mai dimenticare di Sergio è la sua umanità nella comprensione degli altri. Il senso e il gusto quasi francescano della vita. Il disprezzo per la società consumistica, il sogno irrealizzabile della “città del sole”. E, ricordava a tal proposito Bettin che ne condivise l’esperienza, l’immenso “impegno umano, civile e politico” mostrato da Sergio in numerosi incontri internazionali (in particolare negli anni cinquanta e sessanta) in difesa della pace, della solidarietà tra i popoli. Oltre che della “giustizia sociale, della libertà reale”.
Avevo avuto l’onore di conoscerlo nei primissimi anni settanta quando, se pur saltuariamente, partecipavo ai volantinaggi davanti al suo “posto di lavoro”, insieme ad un eterogeneo gruppo di libertari variamente assortiti. Dal fricchettone all’aspirante situazionista, dal “consiliare” all’anarchico vecchio stampo fino al giovane operaista incerto…anche se con un tratto comune, quasi tutti lavoratori – operai, facchini… – al massimo studenti-lavoratori. Per citarne alcuni (anche se purtroppo la maggior parte nel frattempo è “andata oltre”): Anna e Enrico Za, Laura Fornezza, Rino Refosco, Claudio Muraro, Gianni Cadorin, Stefano Crestanello, Mario Seganfredo, Giuliano Francesconi…). Almeno un trentina di volantini di denuncia vennero distribuiti con regolarità nel corso di un paio d’anni (1971-1972) ai familiari dei reclusi nel locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi, in epoca pre-Basaglia). Quasi una lotta d’avanguardia per chi magari non aveva ancora letto “La maggioranza deviante” (di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia), ma almeno era inorridito per le foto di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin in “Morire di classe” (con prefazione sempre dei coniugi Basaglia).
Denunciando le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Alcuni volantini (fatto inusuale all’epoca) erano addirittura firmati con nome e cognome dai militanti.
Dall’interno dell’Istituzione c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: appunto il compianto Sergio Caneva, fedele e coerente con la sua giovinezza partigiana.
Per dovere di cronaca riporto quanto mi ha “rivelato” in seguito un militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista, Franco Pianalto). Ossia del ruolo fondamentale svolto sotto traccia nella controinformazione da suo cugino, un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio, ma non parente). Provenivano anche da lui, oltre che da Sergio, parte delle informazioni sulla vergognosa situazione igienico-sanitaria in cui versavano i reclusi. Per il suo impegno era destinato a subire angherie di vario genere (mobbing ante litteram?) che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, Sante Caneva in collaborazione con un altro sindacalista e socialista (un Sartori di cui si son perse le tracce) aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani”. In quanto i dirigenti non trovavano un accordo sui cucchiai (se dovevano essere di legno oppure di stagno, non è una barzelletta). D’altra parte questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato 68! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) va reso quindi il dovuto onore.
Oltre a provocare l’intervento delle autorità, i nostri volantinaggi suscitarono un certo interesse nell’opinione pubblica. Forse “i tempi erano maturi” o comunque all’epoca il livello di sensibilità e partecipazione sociale era sicuramente maggiore.
La stampa locale (mi pare Il Gazzettino, forse anche il Giornale di Vicenza) spedì i suoi giornalisti a intervistare i dissidenti e nel dibattito intervenne (ugualmente con qualche volantino) anche il Sindacato, la CGIL.
Chissà, forse poteva nascere qualcosa di buono: una reciproca “contaminazione” tra anime diverse, ma non antitetiche, della Sinistra.
O almeno questo deve aver sperato il buon Sergio.
Animato evidentemente da spirito ecumenico, oltre che dalle migliori intenzioni, Sergio organizzò qualche incontro (nella vecchia sede della CGIL) tra alcuni sindacalisti di area sia comunista che socialista e noi giovani esuberanti.
Tra l’altro ricordo di aver incontrato per strada, mentre mi recavo alla prima riunione, alcuni militanti di Servire il popolo invitandoli senza problemi ad aggregarsi.Se i nostri interventi a favore di emarginati, lumpen etc (individuati, forse a torto,come le principali vittime del Sistema) avevano lasciato perplessi i sindacalisti, l’intervento di un maoista che raccontava di un loro compagno afflitto da problemi psichici, risolti (giuro!) grazie alla lettura quotidiana del Libretto Rosso, rischiò di stroncare sul nascere ogni possibile collaborazione.
Un altro ricordo più personale. Visto che entrambi navigavamo in quella “terra di nessuno” che sta (meglio, stava) tra l’ortodossia leninista e le svariate eresie e derive di sinistra (tra situazionismo e bordighismo, tra Rosa Luxemburg, Victor Serge, Berneri… e i fratelli Rosselli) mi prestò un raro esemplare del libro di Azzaroni su “Blasco” (Pietro Tresso, comunista antistalinista) di cui allora, nonostante fosse nato a Magré di Schio, nel vicentino quasi non si parlava (solo negli anni ottanta, mi pare, uscirono un paio di biografie). Evidente rimozione di un soggetto scomodo. Se non ricordo male era quello originale, edito da Azione Comune, nella versione in lingua francese.
Lo rividi credo per l’ultima volta verso la metà degli anni settanta a un incontro pubblico organizzato in quel di Verona dal Circolo La Comune e da Lotta Comunista. Per ascoltare proprio un altro storico “comunista dissidente”, l’ormai anziano Bruno Fortichiari. Capace di emozionarci quando esordì con “Quando il compagno Lenin mi diceva…”.
Negli anni ottanta poi (mi pare nel 1987), casualmente, ci ritrovammo entrambi in lista con Democrazia Proletaria come “indipendenti”. Ovviamente brucia il rammarico di non averlo frequentato di più, ma anche la consapevolezza che averlo conosciuto (così come per Duma) è stato un onore.
Gianni Sartori
DOPO OLTRE UN SECOLO, IL POPOLO ARMENO ANCORA “SOTTO TIRO”
Gianni sartori
L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli Armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo il NAGORNO KARABACH venga invasa anche la stessa ARMENIA.
Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato.
Tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come avevamo ipotizzato anche qui:
https://www.rivistaetnie.com/armeni-pe…
era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh è (ormai era ) una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaigian. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.
Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.
Nella seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.
In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.
Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere “integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri”.
Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa.
Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120mila armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.
Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaigian in materia di gas.
Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK).
Nel comunicato ha denunciato “la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio”.
E il KNK ricordava anche le immagini terribili del 2020 con “i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri”.
Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.
Già nel 2020 l’Azerbaigian aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaigian di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra.
Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – coincidenza – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.
Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse si s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.
Per il KNK comunque non ci sono dubbi “Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi”.
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: “Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche”.
Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.
Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».
D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto.
Mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.
Niente di nuovo.
Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale Hurriyet ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista,quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdogan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del Paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).
Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.
Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. E’ il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.
Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno- Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.
In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno Stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex URSS (russi e ucraini).
Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.
Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.
Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato OSCE) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.
Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata- partecipazione di militanti del PKK ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).
Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche mini sommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.
E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.
Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran.
Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i Paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.
Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che “l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan”.
Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che “sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, nda) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione”.
Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.
Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.
A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del XX secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Irak, Turchia e Siria e quelle in Iran.
Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.
Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.
Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni.
Mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele.
Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.
Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.
Insomma, il solito groviglio mediorientale.
Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan.
Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al nostro Paese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.
Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente- soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.
Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante).
Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.
Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il Parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita.
I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).
Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere…intenda.
Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.
Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo- Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la SOCAR (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.
Con un diretto riferimento al gasdotto di 4mila chilometri che la SOCAR stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di Dan Donato Milanese, Saipem, ENI, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).
Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsanel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.
E appare anche credibile quanto divulgato dai servizi segreti dell’Esagono. Ossia che nell’ultimo conflitto (l’aggressione del settembre 2023) l’intervento di Israele a favore di Baku sarebbe stato ancora più consistente. Sia fornendo mezzi militari (droni, ma non solo) sia a livello di intelligence con il ruolo assunto dallo stesso Mossad.
Un bel caos geopolitico comunque.
E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suoIsraele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave anti-iraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.
O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel 17° secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.
Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il Presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il Primo Ministro Nikol Pashinyan, il Presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.
Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120mila persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.
Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che “le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo”.
“Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso”, aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh.
Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.
E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai sono presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se “si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?”.
Domanda retorica ovviamente.
A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane.
Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame.
Almeno 120mila persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas.
Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua.
A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.
Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni novanta.
E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaigian, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.
Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.
Gianni Sartori
https://bresciaanticapitalista.com/2023/12/22/toni-negri-i-curdie-forse-un-po-di-nostalgia/
segnalo, ciao
GS
OCEANIA INQUIETA:
PROTESTE IN NUOVA CALEDONIA E ANCORA SANGUE IN PAPUA NUOVA GUINEA
Gianni Sartori
Forse quella di Gérald Darmanin (ministro francese dell’Interno e dell’Oltre-Mare) a Kanbaly (Nuova Caledonia) non era una visita particolarmente gradita agli indipendentisti.
Il 21 febbraio i militanti della Cellule de coordination des actions de terrain (CCAT, composta da movimenti e sindacati favorevoli all’autodeterminazione: PT, MOI, UC, USTKE… ) avevano sfilato pacificamente a Noumea per protestare contro il progetto (già ufficialmente annunciato) di sbloccare il corpo elettorale provinciale. Ma ben presto la manifestazione era degenerata e – dopo il tentativo di raggiungere la sede dell’alto-commissariato – scoppiavano scontri con le forze di polizia (tra rue Anatole-France e Rue Général-Mangin dove erano stati schierati in gran numero camion militari).
Alla fine si sono registrati cinque arresti e numerosi feriti, in particolare tra le forze dell’ordine.
In cosa consisterebbe il previsto “scongelamento” – l’apertura – del corpo elettorale provinciale?
In base agli accordi di Noumea (firmati nel 1998) il diritto di voto spetta soltanto alle persone iscritte nelle liste elettorali prima del 1998. Ritenendo tali restrizioni “poco democratiche” il governo francese intende aprire sia ai nativi caledoniani dai 18 anni in su, sia alle persone presenti nell’arcipelago almeno da dieci anni. Con un aumento previsto di circa 25mila elettori.
Nel giorno immediatamente successivo, con un comunicato, i responsabili della CCAT hanno condannato i disordini e le violenze. Anche se – denunciano -sono stati “provocati da chi voleva impedire la consegna delle nostre richieste al ministro”.
Infatti l’intenzione degli organizzatori della protesta pacifica (i quali denunciano di essere finiti in una “trappola”) era soltanto quella di consegnargli direttamente una richiesta per il ritiro del decreto di legge.
Da parte sua l’organizzazione Loyalistes (una coalizione di partiti di destra anti-indipedentisti, sorta nel 2020 e diventata nel 2022 Rassemblement au Congrès de Nouvelle-Calédonie ) ha forzatamente evocato l’immagine di una città “messa a ferro e fuoco, saccheggiata” sostenendo che le violenze erano state previste e organizzate. Arrivando a chiedere la dissoluzione della CCAT.
Inevitabile un pensiero per Louise Michel che, sfuggita ai massacri della “Semaine sanglante” (dopo la caduta della Commune di Parigi) venne deportata in Nuova Caledonia. Tra l’altro durante il viaggio sulla Virginie completò la sua evoluzione politica transitando definitivamente dal blanquismo all’anarchismo.Louise non solo si interessò della lingua, delle tradizioni, dei miti e della musica degli indigeni, ma si schierò apertamente al loro fianco quando i Canachi si sollevarono. Paragonandolo la loro rivolta a quella della Commune del 1971 e donando agli insorti un simbolica bandiera rossa (anche se al momento del dibattito su quale bandiera utilizzare a Parigi nel 1971 Louise pare si fosse schierata con la minoranza che voleva quella nera).
Una vera eccezione la sua, dato che anche la comunità degli ex comunardi qui deportati alla fine si era allineata alle posizioni delle autorità francesi.
Per tornare ai giorni nostri, molto peggio quanto sta avvenendo in Papua Nuova Guinea dove una settimana fa decine di persone (le cifre ufficiali parlano di una trentina di vittime, altre fonti di una settantina) sono state assassinate nella provincia di Enga nel corso di un’imboscata. Questa regione di altopiani (conosciuta come Highlands e dove da alcuni mesi vige il coprifuoco) è da tempo martoriata da uccisioni e scontri presumibilmente legati al controllo delle terre da parte di una ventina di tribù. Un conflitto reso ulteriormente sanguinoso dalla recente diffusione delle armi da fuoco. Il tutto in un generale contesto di crisi sia economica che sociale.
Del resto quest’anno le violenze non hanno risparmiato nemmeno la capitale. Qui il 10 gennaio sono state ammazzate almeno 22 persone. Tanto che il governo australiano (forse preoccupato per i i suoi investimenti in Papua Nuova Guinea) ha offerto il proprio sostegno per garantire la sicurezza nell’isola, in particolare per l’addestramento delle forze di polizia locale.
Gianni Sartori
“La terra ci reclama” recita una poesia basca. E fatalmente, prima o poi tutti dobbiamo risponderle. Ormai la lista di amici, compagni etc “andati oltre” è pressoché infinita. Per restare solo nella penisola iberica, tra quelli da me conosciuti: Eva Forest (autrice di “Operazione Ogro”), Gorka Martinez (Ufficio Esteri di HB), Manex Goyhenetche (sez. Basca della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli), Marc Palmés (avvocato catalano del TXIKI), Pepe Rei (giornalista gallego di Egin)…
E ora se ne è andato anche Aureli Argemì. Un libertario, un antifascista, un pilastro del Diritto all’autodeterminazione dei popoli, non solo di quello catalano ovviamente.
Vorrei ricordarlo con questa antica intervista: che la terra gli sia lieve.
INTERVISTA CON AURELI ARGEMÌ
“CENTRE INTERNACIONAL ABAT ESCARRÈ PARA A LES MINORIE ETNIQUES I LES NACIONS”
(1987)
Anche durante il franchismo la Chiesa seppe difendere la cultura e i diritti del popolo catalano. Alcuni monasteri, in particolare Montserrat, divennero il riferimento, la “casa aperta” per molti oppositori. Per non parlare delle coraggiose prese di posizione di alcuni religiosi come Mossén Pon Rovira e Mossén Carreras, durante gli ultimi anni della dittatura quando Franco (già moribondo) ordinava ancora di garrotare e fucilare giovani guerriglieri baschi e catalani.
Agli inizi degli anni suscitò un certo clamore la richiesta, fatta dal Vescovo di Solzona, di una Conferenza Episcopale catalana separata da quella spagnola.
Una figura assai rappresentativa di questo atteggiamento della Chiesa catalana è Aureli Argemì, segretario generale e fondatore del CIEMEN e figura carismatica del moderno catalanismo.
Lo abbiamo incontrato nella sede del “Centre Internacional Abat Escarrè Para A Les Minorie Etniques I Les Nacions”, Pau Claris 106, Barcelona.
CI PUÒ DIRE BREVEMENTE COS’È IL CIEMEN, COME E DOVE È NATO, COME SI SOVRAPPONE CON LA SUA STORIA PERSONALE?
La fondazione del “Centro internazionale Abate Escarré sulle minoranze etniche e nazionali” risale 1l 1975. All’epoca mi trovavo in Italia, esiliato. Proprio a Milano, nel 1976, abbiamo cominciato a pubblicare un bollettino che diventerà poi la nostra prima rivista: “Minoranze”. Ne vennero stampati 17 numeri, fino alla sospensione delle pubblicazioni per ragioni economiche. Ricordo tra l’altro che abbiamo parlato della fondazione della “Lega per i diritti e la liberazione dei popoli” e pubblicato lo Statuto della Lega stessa.
Con la morte di Franco abbiamo potuto trasferire tutta l’attività del Centro a Barcellona conservando comunque molti rapporti con l’italia a cui mi sento ancora molto legato. Questo naturalmente non solo perché vi abbiamo fondato il “Ciemen”, ma in particolare per i molteplici e costanti contatti che manteniamo con quelle realtà che in Italia chiamate minoritarie e che noi preferiamo definire “minorizzate”.
QUAL È ATTUALMENTE LO “STILE” DEL VOSTRO INTERVENTO, QUALI SONO LE VOSTRE PROPOSTE POLITICHE?
Il “Ciemen”, come dicevo, ha Barcellona come nucleo più attivo, ma è un Centro internazionale.
Si occupa quindi principalmente dei rapporti a livello internazionale tra i popoli oppressi di tutto il mondo, con un interesse particolare per i popoli d’Europa. Attualmente abbiamo una rete di contatti che ci permettono non soltanto di pubblicare riviste, raccogliere informazioni direttamente sul luogo ecc., ma anche di organizzare convegni, seminari internazionali.
In questo momento (1988, Nda) stiamo lavorando ad una organizzazione che è nata dal “Ciemen” ma che non è il “Ciemen”, è una iniziativa molto più vasta, consistente, a cui abbiamo dato il nome di “Conseo”, sarebbe come dire “Conferenza delle Nazioni”, una conferenza permanente delle Nazioni senza Stato dell’Europa occidentale. E’ un organismo che si propone di intervenire costantemente in tutti quei dibattiti in corso sui popoli minorizzati dell’Europa.
L’assemblea costituente risale a qualche anno fa e nell’88 si è tenuta una seconda assemblea per discutere soprattutto dei problemi relativi ai diritti collettivi dei popoli.
In pratica fu il nostro contributo a tutti i preparativi per il secondo centenario della Dichiarazione dei diritti umani individuali. Il nostro obiettivo (a cui stiamo lavorando con diversi altri gruppi) è quello di presentare una Carta dei diritti collettivi dei popoli.
Il nostro impegno è di promuovere, diffondere a livello europeo i risultati delle nostre ricerche, dei nostri studi in proposito. Recentemente abbiamo organizzato dei convegni sul “diritto all’autodeterminazione in Europa”, pubblicando anche due volumi che ritengo fondamentali per affrontare il problema.
Il Ciemen quindi svolge innanzitutto un lavoro di ricerca per poter intervenire puntualmente in difesa dei diritti collettivi dei popoli sia a livello dei mezzi di comunicazione che in convegni, conferenze, dibattiti. Ci interessa particolarmente sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di tutti quei problemi interni dell’Europa che secondo noi andrebbero letti nell’ottica del colonialismo e della discriminazione.
Certo è più facile vedere come questi problemi esistano in altre parti del mondo, ma il più delle volte quando si manifestano in Europa non si analizzano nello stesso modo e si cercano giustificazioni ideologiche per problemi rimasti da sempre irrisolti. Invece il problema dei popoli minoritari è comune praticamente a tutti gli stati europei (esclusi il Portogallo e l’Islanda). Noi cre-diamo che un giorno si arriverà a risolvere questi problemi che sono problemi umani basilari e probabilmente sarà l’Europa stessa, nel suo insieme, a trarne vantaggio. Per questo noi lavoriamo per costruire non l’Europa degli Stati, ma l’Europa dei Popoli, delle Nazioni.
QUAL’ERA LA SITUAZIONE DELLA LINGUA E DELLA CULTURA CATALANE DURANTE IL FRANCHISMO? QUAL È ATTUALMENTE? E’ POSSIBILE UN CONFRONTO? COSA HA COMPORTATO DA QUESTO PUNTO DI VISTA LA ‘‘TRANSIZIONE”??
Durante il franchismo la lingua catalana (e con la lingua anche la cultura) era semplicemente vietata; non si poteva insegnare, non si poteva usare in pubblico, non era ovviamente presente nei mezzi di comunicazione. Questo comunque non è stato un fatto esclusivo del franchismo ma rientra nella tradizione politica di ogni governo centralista nei riguardi della Catalogna. Infatti la persecuzione della lingua catalana cominciò nel 1714, quando la monarchia borbonica, grazie agli eserciti spagnolo e francese, arrivò a dominare i Paesi catalani.
Da quel momento si fece tutto il possibile per far dimenticare ai Catalani di essere tali. Cominciò allora una vera e propria persecuzione che si concretizzò in momenti più o meno forti di repressione. Ad un certo momento, nell’800, mentre in tutta l’Europa si stava elaborando una nuova cultura legata al principio dello Stato-Nazione (v. le grandi politiche di unificazione ecc.) in Catalogna, con la rivoluzione industriale, si sviluppò una nuova borghesia che difendeva la lingua e la cultura come elementi importanti di affermazione della propria identità, non ancora o non completamente in senso nazionale ma almeno come popolo distinto. In molte altre zone d’Europa questa è stata la premessa per la creazione di nuovi Stati. Qui invece, per tutta una serie di circostanze, la borghesia non è riuscita a creare un nuovo Stato, uno Stato catalano, ma soltanto a favorire la rinascita (un rilancio molto forte) della lingua e della cultura, in sintonia comunque con gli analoghi processi di tutta Europa.
Questa coscienza della propria identità ha avuto un ruolo molto importante durante quasi un secolo in cui si sono alternati periodi di persecuzione con altri di tolleranza. Un periodo particolarmente duro è stato quello della prima dittatura, dal 1923 al 1929, seguito da un periodo di segno diametralmente opposto.
Con la nascita della Repubblica spagnola il catalano diventa la lingua ufficiale della Catalogna.
Già durante la guerra il franchismo aveva capito con molta chiarezza che bisognava fare tutto il possibile contro tutte le lingue e le culture diverse da quella ufficiale, ossia dallo spagnolo. Comunque già durante la dittatura, soprattutto durante gli ultimi anni, erano sorti molti organismi clandestini che portavano avanti una difesa molto coraggiosa della lingua e della cultura. Fra questi vanno ricordati prima di tutto quelli legati alla Chiesa catalana che ha lottato sia contro il franchismo che in difesa della nostra identità.
Fra i grandi esponenti della Chiesa catalana vi è appunto l’Abate Escarré, espulso da Franco e vissuto in Italia dal 1965 al 1968, fino al giorno della sua morte. Allora io ero il suo segretario e lo seguii restando in Italia alcuni anni.
PUÒ SOFFERMARSI SULLA SUA PERSONALE ESPERIENZA A RIGUARDO?
Come ho detto, anch’io provengo da quel baluardo della lingua e della cultura catalana che è stato ed è il monastero di Montserrat e anch’io fui espulso dalla Spagna franchista con un gruppo di monaci per ragioni politiche. Ho trascorso il mio esilio parte in Italia e parte nel sud della Francia, vicino alla frontiera, in quella che noi chiamiamo Catalunya nord.
Qui ho trascorso gli ultimi anni del franchismo (mantenendo comunque sempre rapporti anche con l’Italia) avendo la possibilità di continuare a rapportarmi con la realtà catalana.
E TORNANDO ALLA DOMANDA PRECEDENTE…?
Dicevo che alla morte di Franco esistevano già le premesse, una realtà di base creata da tutta la resistenza democratica, per lavorare in favore della lingua e della cultura catalana. Nel 1978 con la nuova Costituzione spagnola veniva garantito, almeno teoricamente, il rispetto di tutte le diverse realtà culturali e linguistiche.
Lo statuto di Autonomia per la Catalogna è del 1979. In questo statuto viene detto chiaramente che la lingua propria della Catalogna è il catalano, lingua ufficiale insieme allo spagnolo.
Questa affermazione è molto importante, basilare (benché sia anche un po’ confusa, contradditoria nell’affermare che vi sono due lingue ufficiali).
A partire da allora il catalano è stato la lingua delle istituzioni catalane, la lingua obbligatoria nelle scuole, la lingua da introdurre nei mezzi di comunicazione di massa.
In realtà la lingua catalana si trova ancora in una situazione, direi, di inferiorità sia nel campo amministrativo che in quello dell’insegnamento. Infatti le leggi spagnole non consentono ad un governo autonomo di esercitare tutte le competenze e nelle scuole molti insegnanti non sono catalani. Di conseguenza le scuole dove tutte le lezioni si svolgono in catalano sono inferiori di numero rispetto a quelle dove si fa tutto in spagnolo.
Benché il catalano sia formalmente obbligatorio in tutte le scuole non si può certo dire che tutte le scuole facciano tutto in catalano.
Questo si nota particolarmente a livello universitario dove si può scegliere tra spagnolo e catalano e si finisce col fare quasi tutto in spagnolo (significativa in proposito come “inversione di tendenza” l’esperienza, recente ma ricca di prospettive, in atto presso l’Università di Valencia).
Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione abbiamo in questo momento un canale televisivo i cui programmi sono tutti in catalano. Gli altri canali pubblici sono spagnoli, ma hanno l’obbligo di trasmettere per qualche ora al giorno in catalano. Possiamo dire che la proporzione è ancora favorevole allo spagnolo anche se il catalano sta recuperando terreno a diversi livelli (1988, Nda). Questa per noi non è ancora la situazione ottimale, ma si assiste ad un processo di normalizzazione linguistica che valutiamo positivamente.
IL VOSTRO CENTRO È DEDICATO ALLA MEMORIA DELL’ABATE ESCARRÉ: QUAL È STATA LA SUA POSIZIONE DURANTE IL FRANCHISMO?
L’abate Escarré è stato abate di Montserrat. Storicamente il monastero di Montserrat è sempre stato , in modo particolare durante il franchismo, la casa aperta a tutti i movimenti democratici del paese. L’abate Escarré ha preso posizione molto duramente contro il franchismo soprattutto su due aspetti: prima di tutto sul fatto che il franchismo ostentava la bandiera del cattolicesimo come difesa della propria ideologia. L’abate Escarré ha detto chiaramente e pubblicamente che questo era un modo per nascondere tutto quello che di anticristiano faceva il regime. Accusava il regime di essere una dittatura. D’altro canto l’abate Escarré è stato anche l’esponente più importante del mondo della Chiesa a difendere i diritti dei catalani alla propria lingua, alla propria cultura, alla propria identità.
E anche questo pubblicamente, fino al giorno della sua espulsione.
QUALI SONO GENERALMENTE I RAPPORTI TRA IL POPOLO CATALANO E GLI IMMIGRATI? E QUALI SONO I VOSTRI RAPPORTI CON GLI ALTRI POPOLI DELLA PENISOLA IBERICA (BASCHI, GALLEGHI, ANDALUSI, GITANI…)?
Premetto intanto che l’area linguistica catalana non è limitata soltanto alla Catalunya, ma che dobbiamo considerare anche il Paese Valenziano e le Isole Baleari (per cui si parla di Paisos Catalans, PP.CC., Nda). La situazione linguistica e culturale è diversa in ognuna di queste tre regioni dei Paesi Catalani.
La Catalunya, essendo un paese altamente industrializzato, è particolarmente interessata dal fenomeno dell’immigrazione. Si tratta generalmente di immigrati dalle zone del sud della Spagna, soprattutto andalusi.
Attualmente sono più di un milione. Ovviamente questo ha creato il problema non indifferente della integrazione degli andalusi.
Durante il franchismo questa integrazione avveniva quasi spontaneamente, nel senso che quelli che difendevano la lingua e la cultura catalane erano automaticamente antifranchisti, a favore della democrazia. A quel tempo quindi gli andalusi arrivati nel nostro paese si integravano facilmente, senza conflitti.
Soltanto in seguito, quando alcuni partiti politici hanno cominciato a sostenere che in Catalunya esistevano due lingue e due culture, molti di loro hanno assunto un atteggiamento di rifiuto nei riguardi dell’integrazione. In questo momento non stiamo ancora assistendo ad una “guerra linguistica e culturale”, ma ci troviamo in una situazione che definirei di conflitto latente; non è la situazione normale che poteva esistere, almeno apparentemente, in periodi anteriori.
La nostra politica, quella che vogliamo continuare a portare avanti, è di non creare ulteriori conflitti, ma di impegnarci per la maggiore integrazione possibile degli immigrati.
Naturalmente c’è ancora molto da fare dato che qui attualmente si stanno parlando due lingue. Devo anche dire che si va diffondendo un nuovo atteggiamento, prima sconosciuto: molti immigrati si rifiutano semplicemente di imparare il catalano.
In questo momento praticamente tutti (o comunque la stragrande maggioranza) lo capiscono. Una inchiesta realizzata alla fine del 1987 ha confermato che il catalano viene compreso dal 90% dei catalani, da coloro che abitano in Catalogna; questo è ovvio dato che è una lingua neolatina, facilmente comprensibile anche da chi parla castigliano.
Concludendo: il problema non è di facile soluzione, ma è possibile intravedere un processo che permetterà di arrivare ad una intesa, a superare questa divisione che si potrebbe creare tra i catalani di origine e quelli delle più recenti immigrazioni. –
Quanto alla seconda parte della domanda possiamo dire che noi catalani ci sentiamo molto legati a tutte le lotte del popolo basco e del popolo gallego. La nostra condizione è comune: noi abbiamo una lingua e una cultura oppresse e quindi abbiamo più simpatia per coloro che lottano per difendere la propria identità.
Ma non ci fermiamo a questo: attualmente c’è una grande solidarietà anche con le lotte sociali che si stanno portando avanti in Andalusia. Da noi come ho detto ci sono molti immigrati andalusi. Molti di loro tornano nella loto terra con una nuova coscienza della loro identità.
Questo crea una simbiosi, una premessa al reciproco riconoscimento e alla difesa della nazione catalana e di quella andalusa, qualcosa di simile al rapporto che qui si vive con gli altri popoli della penisola iberica.
INTENDE DIRE CHE L’IMMIGRAZIONE HA FAVORITO INDIRETTAMENTE NEGLI ANDALUSI UNA MAGGIORE COSCIENZA DELLA LORO CONDIZIONE DI OPPRESSI DA PARTE DELLO STATO SPAGNOLO?
Si, proprio così. Non si può ancora considerarlo un fenomeno generalizzato, ma noi, per esempio, stiamo da tempo collaborando con gruppi di immigrati legati a movimenti che lottano per affermare una differenza degli andalusi rispetto al resto della penisola. Questo è molto importante perché riporta in superficie la realtà sociale autentica della penisola iberica; inoltre indebolisce tutte le tendenze nazionaliste-scioviniste che esistono al centro, a Madrid, quelle cioè portate avanti dal governo.
Noi abbiamo avuto sempre, storicamente, come nemico, come avversario principale, il centralismo. In questo momento, proprio perché ognuno dei popoli che costituiscono questa penisola sta prendendo coscienza, sta maturando non solo una aspirazione all’autonomismo, ma qualcosa che io credo ci potrà portare molto più in là. Per esempio sia in Catalogna che nei Paesi Baschi si sviluppa, ogni volta più profonda, una coscienza europea, la consapevolezza che i nostri problemi non passano per Madrid, non si devono risolvere a Madrid, ma in un ambito molto più grande, a livello europeo.
Tutti noi ci sentiamo molto più europei che spagnoli.
CI SONO STATI DEI PROBLEMI (LO CHIEDO PENSANDO AI PROBLEMI CHE HANNO AVUTO IN PROPOSITO GLI IRLANDESI) A STRASBURGO PER QUANTO RIGUARDA LA LINGUA?
Naturalmente. Premetto che, per certi aspetti, la situazione del catalano e della cultura catalana nell’Europa comunitaria si trova in una situazione direi privilegiata. Ossia, noi abbiamo una lingua minorizzata, ma la nostra lingua è più parlata, più usata di alcune lingue che sono ufficiali. Il nostro livello di produzione letteraria, di insegnamento, di modernizzazione ecc. è paragonabile al greco, al portoghese e al danese, lingue di tre paesi che fanno parte della comunità europea.
Il nostro attuale obiettivo è pertanto quello di far sì che le istituzioni europee accettino il catalano come lingua ufficiale, almeno in linea di principio, perché poi ci sarebbero problemi pratici, quali le traduzioni.
Questa richiesta è stata portata avanti dai nostri movimenti in ogni occasione direttamente a Strasburgo. Nel mese di ottobre del 1987 una folta delegazione popolare catalana è andata a Strasburgo.
Qui, dopo le manifestazioni, abbiamo presentato un documento chiedendo che la lingua catalana diventi ufficiale. Personalmente ritengo che l’accoglienza sia stata molto positiva.
Questo documento era stato firmato da circa centomila persone e tutti i deputati catalani eletti al Parlamento europeo lo hanno sottoscritto, nessuno escluso.
Su questo c’è stata completa unanimità, indipendentemente dagli schieramenti di appartenenza. Inoltre siamo stati ricevuti dal Presidente del parlamento europeo che ci ha detto testualmente come noi avessimo il pieno diritto di chiederlo (questo naturalmente non vuol dire che la risposta sarà positiva). In ogni caso questo movimento che ha una larga base sociale ci autorizza a sperare che un giorno anche il catalano sarà lingua ufficiale a Strasburgo.
Naturalmente noi vogliamo lo stesso anche per tutte le altre lingue; non difendiamo il catalano perché lo consideriamo espressione di una cultura “superiore”, migliore delle altre lingue minorizzate, ma perché crediamo che soltanto con il rispetto della diversità linguistica e culturale si potrà costruire un’Europa dei popoli.
LEI HA FATTO UN’ANALOGIA CON QUELLO CHE SUCCEDE NEI PAESI BASCHI. IN CHE MODO E IN CHE MISURA LA DIFESA DELLA VOSTRA IDENTITÀ E LA LOTTA PER L’AUTODETERMINAZIONE HANNO FRENATO QUEI TIPICI FENOMENI DI DISGREGAZIONE CULTURALE E SOCIALE CHE SONO CARATTERISTICI DELLE MODERNE SOCIETÀ OCCIDENTALI (V. LA DIFFUSIONE DELLA DROGA TRA I GIOVANI…)?
Io direi che il fenomeno della droga, che pure qui è piuttosto diffuso, finora non è stato un elemento decisivo per la disgregazione del tessuto sociale catalano, almeno non sul piano della lotta per l’affermazione nazionale. Sono invece intervenuti altri elementi: innanzitutto si è diffusa tra la gioventù una mentalità molto pragmatica, molto individualistica per cui non vi sono grandi ideali; questi vengono considerati utopistici, irraggiungibili.
Da questo punto di vista rileviamo nella gioventù un diffuso disinteresse per i problemi fondamentali, come la difesa dei diritti umani, individuali e collettivi.
Tutto questo è naturalmente in rapporto con la diminuita sensibilità politica. Non direi comunque che la droga sia stata una delle cause principali.
Intervengono molti altri fattori, soprattutto in una situazione in cui la disoccupazione è piuttosto alta. Gran parte della gioventù non trova lavora e questo genera angoscia. E questa angoscia, questo senso di insicurezza vengono sicuramente usati, manipolati affinché i giovani siano distolti da altri problemi più ideali.
(1) Nota: questa intervista risale alli anni 80; da allora ovviamente anche nei PP.CC. è prevalsa l’immigrazione dai paesi extraeuropei, in particolare dal Nordafrica
https://www.osservatoriorepressione.info/19-aprile-1968-la-rivolta-valdagno/
(in fondo son passati solo 56 anni..)
GS
SE 42 ANNI VI SEMBRAN POCHI….
Gianni Sartori
La condanna a 42 di carcere per Selahattin Demirtas suona comeuna ritorsione del sultano-presidente e un’ingiuria alla dignità umana
Un palese insulto, prima ancora che ai diritti umani, al semplice buonsenso. Questo si può dire della condanna a 42 anni di carcere per il prigioniero politico Selahattin Demirtas (in prigiono dal 2016). Tanto che perfino i media occidentali, in genere piuttosto restii – soprattutto negli ultimi tempi – a criticare Erdogan e il suo governo islamista alleato dell’estrema destra.diAccusato di “attentato all’integrità dello stato”, “incitamento a commettere crimine”, “propaganda terroristica” e varie amenità, in realtà le “colpe” di Demirtas sono ben altre.
Aver sostenuto le proteste di massa del 2014 per l’attacco e assedio di Daesh (supportato da Ankara) alla città siriana di Kobane.
Proteste costata la vita a decine di persone, uccise sia dalle forze di sicurezza turche, sia – presumibilmente – da miliziani salafiti.
A tale proposito il partito DEM aveva emesso questo comunicato:
“Nel 2014, con l’Isis sul punto di prendere il controllo della città di Kobane, sono scoppiate proteste massicce e democratiche in tutto il mondo, anche in molte città della Turchia. Durante queste proteste, 46 civili, 34 dei quali erano membri e sostenitori dell’HDP, sono stati uccisi da gruppi pro-Isis, su provocazione delle forze di sicurezza turche.
Nonostante la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che ha chiarito che l’HDP non può essere considerato responsabile delle violenze, l’attuale governo ha continuato ad avviare un procedimento giudiziario contro i membri esecutivi dell’HDP, compresi i co-presidenti Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş. Gli imputati hanno confutato tutte le accuse, ma la corte ha proseguito i processi sotto chiara influenza politica. L’illecito giudiziario è stato evidente fin dall’inizio, quando si è scoperto che il giudice iniziale era membro di un’organizzazione criminale, ed è stato palese in ogni momento. La Corte ha ingiustamente condannato molti politici dell’HDP sulla base di accuse infondate.”
E comunque la “colpa” più grave di Demirtas e dei sui compagni è stata quella aver osato fondare un partito democratico di sinistra. Il Partito Democratico del Popolo (HDP) in grado di attirare consensi anche da una parte dell’elettorato non curdo, ottenendo ben sei milioni di voti (80 seggi su 550). Una forza politica diventato in breve tempo il terzo “incomodo” nel Parlamento. Spezzando di fatto il controllo esercitatovi da Recep Tayyip Erdogan fin dal 2015. Tanto da dover ricorrere a elezioni anticipate per riconquistarlo (alleandosi con l’estrema destra islamista, quella dei “Lupi Grigi”). Messo al bando per pretestuosi “legami con il terrorismo” (leggi con il PKK), HDP è stato sostituito in Parlamento dal partito DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli). Dal canto suo, dopo la sconfitta del candidato dell’opposizione (da lui appoggiato) al ballottaggio delle ultime presidenziali,Demirtas si è ufficialmente dimesso dalla politica attiva pur continuando “la lotta con tutti miei compagni di prigione”.
Rinchiuso nel carcere di Edirne, in questi giorni l’ex co-presidente di HDP ha potuto incontrare (per circa tre ore) i co-presidenti del partito DEM, Tülay Hatimoğulları e Tuncer Bakırhan che il giorno prima avevano incontratoFigen Yüksekdağ (ex vice segretaria di HDP e condannata a 30 anni e 3 mesi) nella prigione diKandıra.
Denunciando l’ennesimo atto di repressione contro il dissenso (il verdetto del Caso Kobane), Tülay Hatimoğulları ha ricordato che “i nostri compagni sono stati condannati a secoli di prigione. Lo abbiamo già detto molte volte e lo diciamo ancora. Il caso della “Cospirazione Kobane” è un caso di vendetta puramente politica. Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, in passato nostri co-presidenti, sono stati condannati a pene molto pesanti. Nel contempo i rivoluzionari socialisti di sinistra che avevano espresso solidarietà al popolo curdo, i rivoluzionari che cercavano una soluzione alla questione curda con metodi democratici e pacifici, i rivoluzionari cheperoravano in favore della lotta democratica unitaria furono ugualmente condannati a lunghe pene (…).
Queste le sentenze (considerate illegali dal Partito DEM):
1) SELAHATTİN DEMİRTAŞ (Copresidente dell’HDP) 42,5 anni di reclusione
2) FİGEN YÜKSEKDAĞ (copresidente dell’HDP) 30 anni e 3 mesi di reclusione
3) ALP ALTINÖRS (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
4) NAZMİ GÜR (Vice copresidente per gli affari esteri e membro dell’APCE) 22,5 anni di reclusione
5) ZEKİ ÇELİK (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
6) ZEYNEP KARAMAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
7) PERVİN ODUNCU (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione
8) GÜNAY KUBİLAY (Presidente e membro del consiglio esecutivo di HDP) 20,5 anni di reclusione
9) İSMAİL ŞENGÜL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20,5 anni di reclusione
10) DİLEK YAĞLI (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20 anni di reclusione
11) BÜLENT PARMAKSIZ (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 18 anni di reclusione
12) ALİ ÜRKÜT (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 17 anni di reclusione
13) CİHAN ERDAL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 16 anni di reclusione
14) GÜLTAN KIŞANAK (Sindaco della municipalità metropolitana di Diyarbakir) 12 anni di reclusione
15) SEBAHAT TUNCEL (ex deputato e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 12 anni di reclusione
16) ZEYNEP ÖLBECİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 11,5 anni di reclusione
17) AHMET TÜRK (Sindaco della municipalità metropolitana di Mardin) 10 anni di reclusione
18) EMİNE AYNA (ex parlamentare e membro dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 10 anni di reclusione
19) AYLA AKAT ATA (ex parlamentare e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 9 anni e 9 mesi di reclusione
20) AYNUR AŞAN (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
21) AYŞE YAĞCI (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
22) MERYEM ADIBELLİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
23) MESUT BAĞCIK (membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione
24) NEZİR ÇAKAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione
Gianni Sartori
DAL CANADA ALL’AUSTRALIA:
VITA ALQUANTO DURA PER I MANIFESTANTI PRO-PALESTINA
Gianni Sartori
Un ripasso (per quanto parziale e “a ritroso”) delle manifestazioni pro-Palestina impedite, “evacuate” o direttamente represse nel mese di maggio.
Per rendere l’idea di quanto gli eventi di Gaza (genocidio o “semplice massacro” che dir si voglia) stiano incidendo (oltre che nei corpi feriti e violati delle innumerevoli vittime) sulle coscienze dell’opinione pubblica a livello planetario. Anche nel soidisant “Occidente”.
Il 23 maggio, in Belgio, la polizia poneva termine forzatamente, su richiesta del rettorato, all’occupazione dell’Università di Gand (UGent). Oltre trecento studenti occupavano dal 6 maggio l’edificio UFO e i dintorni del rettorato chiedendo la sospensione (“un boicottaggio generale”) dei rapporti accademici con Israele.
Allontanati forzatamente dopo che si erano rifiutati di farlo spontaneamente, almeno una decina risultavano fermati nel corso dello sgombero.
Stando ai comunicati degli occupanti, l’UGent manterrebbe una ventina di collaborazioni con università e istituti di ricerca israeliani. In precedenza, “sollecitata” dai militanti pro-Palestina, l’Università di Gand aveva (avrebbe?) posto fine a tre collaborazioni con istituzioni israeliane coinvolte nel conflitto in corso.
In Canada, il 20 maggio, la polizia di Montreal reprimeva con fermezza (manganellate, gas lacrimogeni…ricordiamo che in Canada, in passato almeno, si faceva uso abbondante dei CS) un corteo di studenti provenienti dalla tendopoli pro-Palestina dell’università UQAM (da notare tra le tende gli striscioni soprattutto in francese, siamo nel Québec).
I manifestanti avevano tentato di bloccare, se pur per breve tempo, un incrocio lungo viale Kennedy e un’altra strada nei pressi del quartier generale della polizia di Montreal.
La richiesta di smantellare gli accampamenti, oltre che all’UQAM anche all’Università McGill, proveniva direttamente dal Ministero dell’Istruzione.
Il 17 maggio la polizia di Filadelfia fermava 19 manifestanti (tra cui sette studenti) filo-palestinesi nel corso di una manifestazione serale all’Università di Pennsylvania.
Numerosi militanti erano penetrati nella Fisher-Bennett Hall per occuparla barricandosi all’interno.
Mentre alcuni (una dozzina) venivano solo denunciati e poi rilasciati per essersi rifiutati di obbedire all’ordine di disperdersi, altri sette a distanza di alcuni giorni restavano ancora in stato di fermo (almeno uno per “aggressione contro la polizia”).
Nel corso dell’operazione la polizia avrebbe recuperato utensili per lo scassinamento delle serrature e scudi metallici ricavati da bidoni.
Alcune porte (in particolare quelle dei dipartimenti di inglese, di musica e di cinematografia) erano state bloccate con barricate improvvisate. La settimana precedente l’Università aveva fatto evacuare un altro accampamento al College Green.
Il 18 maggio a New-York una dozzina di manifestanti erano stati arrestati nel corso di scontri con la polizia a Brooklyn.
Stando alla ricostruzione dei partecipanti, in seguito la polizia sarebbe stata respinta dalla folla nell’area di Bay Ridge. Alla fine gli arresti effettuati risultavano una quarantina.
Contemporaneamente in Australia, a Melbourne, sei persone (tutti manifestanti pro-Palestina) venivano fermate a seguito del dissidio tra i partecipanti a una iniziativa del gruppo cristiano Christian Embassy Jerusalem (definito dagli avversari “sionista”, ma ufficialmente in piazza “contro l’antisemitismo”) e i solidali con il popolo palestinese.
Negli Stati Uniti, il 16 maggio centinaia di membri della polizia attaccavano l’accampamento filo-palestinese all’UCLA (University of California, Los Angeles). Le tende sorgevano tra l’auditorium della Royce Hall e la biblioteca.
Il giorno prima i corsi erano stati annullati a seguito di una assalto alla tendopoli da parte di un gruppo (presumibilmente filo-israeliano) armato di mazze da baseball, spray al peperoncino e petardi. Dopo gli scontri, durati oltre tre ore, poliziotti in tenuta anti-sommossa erano penetrati nel campo.
Circa 500 persone si erano trincerate nell’accampamento, mentre oltre duemila si riunivano all’esterno allestendo barricate. I membri della California Highway Patrol, attrezzati con scudi e manganelli, avevano atteso per ore ai margini del campo prima di entrare e arrestare coloro che si rifiutavano di evacuare.
Quasi contemporaneamente, nei giorni della commemorazione della Nakba del 1948, in Scozia veniva bloccata la fabbrica di armamenti Thales à Govan (non lontano da Glasgow). I manifestanti chiedevano la sospensione dell’esportazione di armi verso Israele.
L’azienda produce il drone Watchkeeper, in collaborazione con la società di armamenti israeliana Elbit Systems.
Dopo cinque-sei ore di blocco, veniva reso noto che un piccolo numero di dipendenti dell’azienda (quelli del turno di notte) erano rimasti chiusi nell’edificio. Dai manifestanti veniva consentita la loro evacuazione, ma non la sostituzione con altri lavoratori che avrebbero dovuto rimpiazzarli.
Da qui l’intervento della polizia che aveva spezzato il blocco portando via di peso alcuni dissidenti. Nei tafferugli scoppiati per impedire il fermo di un militante risultavano contusi sei poliziotti mentre quattro manifestanti venivano arrestati.
Il 6 maggio toccava al presidio pro-Palestina dell’Università di Amsterdam (UvA, Paesi Bassi) venire sloggiato (non avendo adempiuto alla richiesta in tal senso del rettorato). Per demolire le barricate erette dagli studenti la polizia aveva impiegato anche alcuni macchinari da costruzione.
Il 5 maggio un comunicato di associazioni filo-palestinesi statunitensi quantificava in oltre duemila il numero delle persone fino ad allora arrestate per le manifestazioni e occupazioni nelle università degli USA.
Almeno 25 durante lo sgombero all’Università di Virginia (UVA) alla vigilia della cerimonia di consegna dei diplomi.
Nonostante fino ad allora le iniziative pro-Palestina a Charlottesville fossero state sostanzialmente pacifiche, Il 4 maggio la polizia antisommossa aveva assaltato l’accampamento ammanettando diversi partecipanti e facendo ampio uso di spray chimici.
Nello stesso giorno venivano arrestate dozzine di persone per “intrusione criminale” all’Istituto d’Arte di Chicago.
Sempre il 4 maggio in quel di Ann Arbor, venivano disturbate dai filo palestinesi le cerimonie di consegna dei diplomi all’Università del Michigan.
Due giorni prima all’Università del Mississippi (Ole Miss) si era sfiorato lo scontro diretto tra filopalestinesi e non meglio individuati gruppi “nazionalisti e razzisti”.
Se oltre oceano le cose procedono in maniera convulsa, non va certo meglio sul vecchio continente. In Francia per esempio.
Ai primi di maggio il membro dell’Università di Glasgow, Dr Ghassan Abu Sittah, dopo aver trascorso 43 giorni a Gaza, curando i feriti nell’ospedale al-Chifa, avrebbe dovuto partecipare ad un incontro in Senato, organizzato dalla senatrice Raymonde Poncet Monge (ecologista) per raccontare la sua esperienza. Ma ha dovuto immediatamente ripartire dall’aeroporto di Roissy e tornare a Londra senza aver potuto entrare in Francia per un “foglio di divieto dello spazio Schengen” emesso dalla Germania. In aprile gli era stato ugualmente impedito di entrare in Germania, così come era capitato all’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis. Entrambi avrebbero dovuto prendere parte a un “Congresso palestinese” organizzato a Berlino. Ufficialmente allontanati per “impedire ogni genere di propaganda antisemita e anti-israeliana”.
Sempre il 2 maggio e sempre nell’Esagono, la direzione di Science Po Paris (dove studiano circa seimila studenti) aveva annunciato la chiusura della maggior parte delle aule invitando studenti e dipendenti dell’università al teleworrking (pardon, télétravail: i francesi ci tengono, diciamo telelavoro allora).
Questo dopo un dibattito interno sul Medio Oriente svoltosi nella mattinata e giudicato “deludente e inconcludente” (in quanto gli studenti riuniti nel Comité Palestine avevano colto l’occasione per chiedere la sospensione delle collaborazioni con altri università ritenute coinvolte nell’industria degli armamenti).
Per protesta gli studenti avevano organizzato un sit-in e in sei avevano iniziato lo sciopero della fame. Il 3 maggio, al mattino, la polizia irrompeva nella sede di rue Saint-Guillaume mentre un centinaio di studenti si radunava in strada per solidarizzare con quelli all’interno (una novantina) in breve tempo costretti a lasciare i locali.
Ovviamente non poteva mancare il richiamo agli eventi di Gaza nella giornata del Primo Maggio. Restando in Francia, manifestazioni molto dure (anche con scontri e arresti) si erano volte, oltre che a Parigi e a Lione, soprattutto in Bretagna. A Rennes e a Nantes si son potute vedere molte bandiere palestinesi sfilare accanto a quelle bretoni (la gwenn ha du).
In precedenza (il 29 aprile) centinaia di studenti della Sorbona avevano piantato le loro tende all’interno dell’edificio universitario (in sintonia con quelli operativi da oltre una settimana di Science Po Paris). Alquanto celere l’intervento della polizia intervenuta per allontanarli.
Stando al comunicato dell’Università Paris 1-Panthéon Sorbonne, la prestigiosa istituzione sarebbe rimasta completamente chiusa (inaccessibile) fino a nuova decisione del Rettorato.
Gianni Sartori
OMAGGIO AL COMPAGNO PARTIGIANO EUGENIO MAGRI
Gianni Sartori
NEL CORSO DELLA SUA LUNGA VITA MILITANTE, L’ANTIFASCISTA VICENTINO EUGENIO MAGRI (morto a 96 anni) HA CONTRIBUITO COME POCHI AL RECUPERO DELLA MEMORIA STORICA SIA DELLA RESISTENZA AL FASCISMO NOSTRANO, SIADELLA LOTTA ANTIFRANCHISTA
E così anche Eugenio se n’è andato. Era nato nel 1928 e quindi un po’ me l’aspettavo. L’ultima volta che ne avevo chiesto notizie al suo amico fraterno Moret, lui aveva scosso il capo.
Eugenio, operaio autodidatta e artista, negli ultimi tempi soffriva per seri problemi alla vista che gli impedivano di proseguire nelle sue inesauste ricerche storiche. Se non proprio l’ultimo superstite del movimento partigiano vicentino, con lui perdiamo una delle voci più autentiche e significative, in grado ancora di dare testimonianza.
Nell’estremo saluto (28 maggio), tra bandiere dell’ANPI, della CGIL, dell’USB…e anche un paio di quelle palestinesi, lo hanno ricordato il vicesindaco Isabella Sala, Danilo Andriolo e Gigi Poletto dell’ANPI vicentina, Germano Raniero dell’USB, Giampaolo Zanni della CGIL e altri suoi compagni di tante battaglie: dalle 150 ore alla solidarietà internazionale, dalle lotte sindacali alla preparazione di materiale divulgativo (famose in città le sue mostre, in particolare quella storica sulla Guerra di Spagna esposta anche a Barcellona).
E appunto dalla Rosa de Foc è pervenuto il comunicato dialcuni storici e attivisti catalani che hanno voluto “rendergli omaggio per tutto l’aiuto, la collaborazione e l’entusiasmo che sempre ha offerto nel recupero della memoria storica del nostro lungo transito attraverso il regime di Franco, la sua continua insistenza nel non vedere il recupero della memoria storica come qualcosa di esclusivamente nostalgico, ma piuttosto per proiettare la continuità della lotta nel futuro”.
Tra loro alcuni che avevo conosciuto nelle mie incursioni giornalistico-fotografiche nei Paisos Catalans. In particolare Joan Canet (con cui – in bicicletta – avevo cercato il muro del cimitero dove era stato fucilato il Txiki)* e Antonio Sanchezche mi aveva ospitato varie volte a casa sua (dandomi anche – in tempo reale, suo fratello era a Cuba – la brutta notizia della morte del padre del CHE che entrambi avevamo conosciuto, il padre, beninteso).
Anche se alcuni episodi della sua prima educazione politica (il gelataio friulano antifascista che nel ’39 gli parlò per primo di Matteotti, la scoperta a quindici anni del concetto di “Democrazia”, fino ad allora quasi un oggetto misterioso…) restano esemplari, emblematici, non è il momento, non per me almeno, di recuperare la cronologia della vita militante di Eugenio.**
Altri che lo conobbero più profondamente lo stanno facendo (Gigi Poletto mi pare stia scrivendo un libro, Alberto Galeotto conserva una decina di interviste registrate e sicuramente l’ANPI vicentina saprà recuperare e valorizzare il suo vasto archivio).
A me, come capita sempre più spesso in queste tristi circostanza, succede di riandare con la memoria a ricordi magari “minimalisti”, episodi frammentari, immagini di situazioni…in cui le figura del compagno Eugenio, bonaria ma determinata, si staglia quasi in controluce. Credo di averlo conosciuto esattamente 50 anni fa, alla manifestazione unitaria per la strage di Brescia quando c’eravamo veramente tutti, dagli anarchici alla CISL.
L’ultima volta che abbiamo conversato un po’ più a lungo eravamo di fronte alla libreria Galla, da dove si scorge nitidamente un’opera palladiana rimasta incompiuta. Proprio il luogo teatro di un rischioso trafugamento di armi. Quindicenne spavaldo, si era poi allontanato spingendo un carretto stracarico di mitra e fucili (ma dopo averli ben mimetizzati, mi pare con dei sacchi) sotto il naso dei soldati. Una storia che conoscevo, ma che raccontata praticamente “in loco” assumeva tutt’altra valenza (sia per quanto riguarda il “passaggio di testimone” tra generazioni, sia per la continuità storico-territoriale di una città medaglia d’oro alla Resistenza).
Senza dimenticare le molteplici occasioni in cui esponeva le sue mostre – accuratissime -sulla Guerra di Spagna, sulla storia del sindacato, sulla Resistenza…
Sia alle feste dell’Unità che a una di DP (negli anni ottanta al Parco Querini, visitata dal comandante TAR, Ferruccio Manea)***.
O un’altra, patrocinata dal Comune, nella prestigiosa Loggia del Capitaniato.
Fu lui a farmi conoscere Visentini Ferrer, volontario nella Brigate Internazionali che in seguito avrei anche intervistato.****
Di Eugenio, altrettanto fermo nelle sue idee che disposto al dialogo con chiunque, va sottolineata la grande capacità di ascoltare.
Per esempio nel 1995 lo invitai a una iniziativa sui Paesi Baschi organizzata dalla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli in Saletta Lampertico. Tra i relatori, il giornalista di Radio popolare e di Radio tandem Giovanni Giacopuzzi, Luciano Ardesi, lo storico basco Inaki Egana e l’esponente delle Gestoras Pro Amnistia(ed ex prigioniero politico ) Gari Arriaga.
Erano i giorni del ritrovamento in una fossa riempita di calce dei resti mortali, torturati e straziati, di due etarra, Laza e Zabala, sequestrati ancora nel 1983 dallo squadrone della morte paramilitare (o anche parastatale) denominato GAL.
Ma appunto eravamo negli anni novanta. E ormai la sinistra, quella stessa sinistra che all’epoca del processo di Burgos (1970) aveva parole di elogio per la lotta antifranchista del popolo basco, preferiva girare la testa dall’altra parte di fronte alle violazioni dei diritti umani (sparizioni, torture, repressione…) in Euskal Herria. Soprattutto da quando governavano i socialisti di Gonzalez.
Eugenio Magri ovviamente espresse la sua critica in merito alla lotta armata di ETA (ritenendola non solo moralmente sbagliata, ma anche controproducente dopo la morte di Franco), ma non si tirò indietro nel condannare i metodi usati da Madrid. La discussione, sostanzialmente amichevole, tra compagni, si protrasse talmente a lungo che alla fine gli ultimi sei o sette rimasti (oltre ai relatori e al sottoscritto, Magri e Moret) vennero letteralmente “cacciati” dal responsabile della saletta. E comunque continuammo discutere anche in strada, sotto i portici. A distanza di qualche anno Inaki e Gari mi chiedevano notizie del “compagno comunista vicentino”. Ne erano rimasti colpiti molto positivamente quando era intervenuto sulla Guerra Civile Spagnola (ben sapendo come i baschi versarono – sia durante che dopo – sangue, dolore e lacrime come pochi). Ecco direi che in questa capacità di Eugenio di empatizzare anche con chi si trovava su posizioni diverse politicamente, stava una sua caratteristica peculiare.
Lo sperimentai anche quando uscì il film di Ken Loach “Terra e Libertà”. Per lui, vecchio militate comunista, poteva apparire forse eccessiva la critica al PSUC per i fatti di Barcellona, ma anche qui non si tirava indietro. “L’importante- mi aveva detto – è che se ne parli, capire, confrontarsi”. Se necessario rimettere in discussionequanto fino allora veniva dato per scontato in gran parte della sinistra sia istituzionale che extraparlamentare. Come ho già ricordato, il mantra “con voi faremo come in Spagna” (in riferimento al maggio ’37) me lo sentivo ripetere tanto da quelli del PCI che da quelli di Potere Operaio (e anche da parecchi di Lotta Continua se è per questo, anche se adesso raccontano di essere stati “luxemburghiani”).
Diciamo che invece quello di Eugenio Magri era proprio “un altro stile” (e sto citando Camillo Berneri).
Gianni Sartori
nota 1: https://www.veliber.org/archivio/Arivistaanarchica/A165/A165_ARTICOLO_PAG165_05-HTML.PDF
** nota 2: https://www.noipartigiani.it/eugenio-magri/
** *nota 3”: https://www.anpi-vicenza.it/ferruccio-manea-nome-di-battaglia-tar/
**** nota 4: https://www.anpi-vicenza.it/ferrer-visentini-in-spagna-per-la-liberta/
E’ MORTO UN RIVOLUZIONARIO
UN RICORDO DI ARNALDO CESTARO, COSCIENZA CRITICA DELLA TERRA VICENTINA
Arnaldo Cestaro non c’è più. Ma solo fisicamente. Il ricordo di tutte le battaglie a cui ha preso parte da protagonista insostituibile riecheggerà a lungo nelle lande desolate (cementificate, militarizzate, inquinate…) del Vicentino.
La notizia della sua scomparsa, malauguratamente, non è giunta inaspettata. Solo qualche giorno prima, passando per l’ennesima volta da casa sua in bicicletta in quel di Agugliaro (un autentico presidio – casa sua non il paese – di Resistenza proletaria nel profondo Basso Vicentino, l’altro ieri democristiano, ieri leghista e ormai passato in blocco ai fratelliditalia) la sorella mi aveva informato dell’ictus e che per il momento forse era meglio non andarlo a trovare all’ospedale per non affaticarlo. Le avevo raccomandato di salutarmelo sperando in un miglioramento. Invece stavolta il suo cuore generoso non ce l’ha fatta.
Per decenni la sua è stata una presenza costante a ogni manifestazione antimperialista, antifascista, anticapitalista…
Davanti alla base militare “Pluto” di Longare con l’inseparabile amico Francesco (per decenni quasi ogni domenica), alla Ederle dove lo ricordo mentre bruciava la bandiera statunitense nel 1986, al Presidio contro il Dal Molin, a Cà Brusà contro l’A31 (e i rifiuti tossici sepolti sotto l’asfalto), alla cerimonia in Val Liona per i partigiani massacrati a Grancona, in Val di Susa e ovviamente a Genova nel 2001 e a Firenze nel 2002. Imprescindibile per la sua determinazione e umanità.
DUE UOMINI IN CORRIERA
A Genova in quel fatidico sabato del 21 luglio 2001 eravamo arrivati insieme, seduti fianco a fianco in pullman (ma parlandone fra di noi dicevamo sempre “in corriera”).
Facevamo parte della nutrita delegazione di varie associazioni vicentine che intendevano portare – pacificamente – la loro protesta al G8: Gocce di Giustizia, Movimento UNA (Uomo-Natura-Animali), Lipu, Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, Rifondazione Comunista, diversi pacifisti della Casa per la Pace di Vicenza, Collettivo Spartakus, Centro Sociale “Ya Basta!”, alcuni sindacalisti della Cgil e della Cisl vicentine sensibili alle problematiche del Terzo Mondo. Durante il viaggio avevo avuto modo di chiacchierare a lungo con Arnaldo che conoscevo da anni.
Militante maoista dei primi anni Sessanta, anche per questo venne espulso dal PCI. Parlando dei vecchi tempi, gli avevo chiesto informazioni su tutti quei compagni di buona famiglia – talvolta un tantino presuntuosi e autoritari – che dopo gli entusiasmi giovanili, erano rientrati nei loro ovili dorati. Mi spiegò che “uno era diventato dentista, un altro ingegnere, un altro ancora imprenditore…” E fin qui niente di strano, ovviamente. Però, aggiunse, la maggior parte di loro- incontrandolo – fingeva di non conoscerlo. “Su quali basi – gli avevo chiesto – si permettono questo atteggiamento?” Risposta: “Caro Sartori te me pari bauco. Ossia, tradotto dal veneto “mi sembri ingenuo” (ma tanto). “Ma xe logico. In base all’articolo quinto: chi che ga fato i schei ga vinto” (non penso di doverlo tradurre). Purtroppo per lui, l’ottimo e saggio Cestaro la sera non rientrava con noi in pullman ma si fermava a Genova (il giorno dopo voleva portare dei fiori sulla tomba di un conoscente) e andava a dormire alla Diaz. Anche dopo tanti anni portava i segni e le conseguenze delle percosse subite (braccia, gambe e costole rotte). Lo rividi,, sempre indomabile se pur zoppicante, soltanto l’anno dopo, a Firenze (mentre entrambi uscivamo dalla Fortezza da Basso per unirci al corteo del 9 novembre 2002) e poi in tante altre occasioni (appunto dalle già citate dalle manifestazioni “NO-DAL MOLIN” alle iniziative contro i rifiuti tossici sepolti sotto la A31).
Ma soprattutto la sua casa, in genere ricoperta di manifesti e striscioni di protesta (oltre all’immancabile bandiera rossa) era diventata una tappa obbligata durante i miei giri in bicicletta tra Colli Berici e Euganei.
Tante altre cose avrei da dire e raccontare, ma mi fermo qui.
Grazie compagno, che la terra ti sia lieve.
Gianni Sartori
Vedi anche:
https://www.labottegadelbarbieri.org/scusate-se-vi-parlo-di-cico-e-di-bibi/
PAKISTAN: TERRORISMO DI MARCA SETTARIA O STRATEGIA DELLA TENSIONE?
Gianni Sartori
Sempre più spesso ci tocca consatare come molte lotte di natura indipendentista (di “liberazione”) vengano strumentalizzate (degenerando rispetto alle rivendicazioni originarie) per qualche “regolamento di conti” tra le varie potenze regionali. Forse è anche il caso del Belucistan
Per cui appare arduo collocare i recenti massacri di natura settaria perpetrati in Pakistan da un presunto (soidisant…?) Fronte di Liberazione del Belucistan.
Quantomeno bisogna ricordare altri avvenimenti, non necessariamente collegati, ma in qualche modo “sincronici”.
Dalla ribellione innescata dai giovani in Bangladesh che ha portato alla cacciata e fuga (in India) della prima ministra Sheikh Hasina (e sui cui aleggia – così come aleggiava sulla defenestrazione nel 2022 del leader pakistano Imran Khan e del suo PTI – il sospetto di “rivoluzione colorata”, manovrata fomentando anche movimenti islamisti) alla recente visita del leader indiano Shri Narendra Modi a Kiev interpretata come una “andata a Canossa” per espiare (dopo la tirata d’orecchi di Washington) in qualche modo l’eccesso di equidistanza (pendente verso Mosca) nella guerra tra Russia e Ucraina. Osservando quel che accade in Pakistan e in Bangladesh si deve sempre tener conto di un possibile ruolo dell’India (e viceversa). Non solo quando si tratta del conteso Kashmir, ma anche per la regione del Punjab (divisa in due dalla frontiera indo-pakistana).
E poi, dato che qui si parla di Belucistan, non si può trascurare ovviamente l’Iran. Se il Belucistan “pakistano” costituisce circa il 48% del Paese (la più vasta provincia del Pakistan con ben 347.190 km²), in Iran (province di Sīstān e Balūcistān) arriva a coprire 181.785 km² del territorio (a cui va aggiunta una piccola porzione delle aree meridionali dell’Afghanistan). E come in Pakistan, ormai da decenni anche le province iraniane di Sīstān e Balūcistān sono percorse da fermenti separatisti dei Beluci.
Il 16 febbraio di quest’anno Teheran aveva bombardato con aerei e droni il territorio pakistano per colpire le basi di un gruppo separatista del Belucistan Jaish ul-Adl. Gruppo considerato salafita e jihadista e già noto in quanto responsabile nel 2019 dell’uccisione di 27 membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica.
L’operazione iraniana sul territorio pakistano era avvenuta a un giorno di distanza da un’altra analoga condotta in Irak.
Entrambe come risposta agli attacchi rivendicati dallo Stato islamico a Kermal (3 gennaio 2024) e a quello di Rask del 15 dicembre 2023 (undici poliziotti uccisi) rivendicato da Jaish ul-Adl.
Ovviamente il Pakistan aveva protestato vigorosamente per questa violazione dello spazio aereo. Accusando l’Iran di aver provocato la morte di alcuni bambini.
Insomma un bel casino, un groviglio. Non contate comunque su chi scrive per sbrogliare il bandolo della matassa.
Cerco solo di “contestualizzare” quanto è avvenuto nel Belucistan “pakistano” alla fine di agosto.
Questi i tragici eventi.
Il 26 agosto oltre una ventina di persone (23 quelle accertate, per la maggior parte originarie del Punjab) sono state uccise nel distretto di Musakhail (sud-ovest del Pakistan, Belucistan).
Stando alle rivendicazioni, i responsabili dell’eccidio appartengono a un gruppo di separatisti beluci, il BLA (Baloch Liberation Army). Una trentina di terroristi avevano installato posti di blocco lungo l’autostrada costringendo a scendere i passeggeri di una ventina di autobus e di alcuni camion e furgoni (poi incendiati). Dopo averne controllato i documenti e l’identità, avevano aperto il fuoco.
In un’altro attacco (sempre nella nella provincia di Monday), evidentemente coordinato con il primo, una quindicina di persone, ugualmente provenienti dal Punjab, venivano assassinate.
In un comunicato il BLA aveva rivendicato il grave atto terroristico sostenendo che in realtà sarebbero stati uccisi “soldati in abiti civili” in quanto “la lotta è contro l’esercito pakistano occupante”.
Una presa di posizione poco convincente se pensiamo ad altri episodi simili.
Come in aprile quando, nei pressi della città di Naushki, una decina di lavoratori provenienti dal Punjab (e impiegati nell’estrazione delle risorse minerarie), dopo essere stati fatti scendere, venivano ammazzati brutalmente.
Nelle ore immediatamente precedenti il gruppo separatista aveva assaltato anche una caserma nei pressi di Kalat uccidendo sei agenti e quattro civili. Inoltre erano stati distrutti con l’esplosivo alcuni tratti della rete ferroviaria.
Da un comunicato del ministro dell’Interno Mohsin Naqvi si è poi appreso che le forze dell’ordine avevano ucciso una dozzina di miliziani (mentre altre fonti dell’esercito pachistano parlavano di una ventina).
Alla fine le vittime complessive (compresi militari e miliziani beluci) superavano come minimo la settantina.
Gianni Sartori (30-8-2024)
IN MORTE DI LICIA PINELLI
Considerazioni e divagazioni su una vecchia agendina stropicciata…e su un’intervista sempre rinviata e alla fine mancata
Gianni Sartori
Ogni tanto, sfogliando la vetusta agendina che non mi decidevo a buttare (non dopo aver almeno ricopiato nomi, numeri e indirizzi di quelli ancora in vita, sempre meno), lo ritrovavo. Tra quello di Claudio Venza e l’altro della redazione di “A”, di fatto Paolo Finzi (o era quello di Fabio Santin? Devo controllare…).
Me l’aveva dato, penso ormai più di quindici anni fa se non venti, proprio Claudio Venza (direttore del Germinal di Trieste) spronandomi a intervistarla. Non me l’ero mai sentita. Ci sono incontri, interviste o semplici conversazioni che – per me almeno – risultano troppo dolorose. Di quelle che poi ti porti appresso nel tempo. Per dirne un paio, alla madre di Patsy O’Hara (prigioniero politico repubblicano morto in sciopero della fame nel 1981) e a Duma Kumalo uno dei “Sei di Sharpeville” (vittima di torture, scampato alla pena capitale e scomparso prematuramente nel febbraio 2006). Semplicemente devastanti per quanto mi riguardava.
Per cui, dopo aver rimandato di giorno in giorno la telefonata e l’intervista alla vedova di Pino, avevo deciso di lasciar perdere.
Ma ogni tanto, ritrovando appunto il numero di telefono (un fisso, vecchia maniera; lo sentivo familiare, mai posseduto un cellulare), ci ripensavo.
E anche in questi giorni, mentre riconsultavo il libro di Salvini (il giudice) “La maledizione di Piazza Fontana”, mi ero chiesto se la lei lo avesse mai incontrato. E cosa ne pensasse di certe tardive “rivelazioni” (in gran parte già acquisite dai compagni e dal movimento) qui pubblicate.
Fermo restando che comunque andrebbe letto e consultato (il libro intendo), per lo meno per certe informazioni in passato “accantonate”, trascurate (o semplicemente rimosse). Per esempio sul ruolo rilevante di certi personaggi vicentini.
Si narra che anche il padre di Licia (un falegname poi operaio alla Pirelli) fosse stato anarchico. Cresciuta in una casa di ringhiera in via Monza, quelle con il gabinetto (alcuni hanno scritto “bagno”, un eufemismo) in comune sul ballatorio, al freddo.
A scanso di equivoci, chi scrive è cresciuto in quel di Casaletto (S. Piero Intrigogna) con il cesso in lamiera sitemato fuori, a fianco dell’orto.
Come usava all’epoca per i figli – e ancor più per le figlie – dei proletari, a tredici anni entrò nel “mondo del lavoro”: Con Pino si erano conosciuti ai corsi di esperanto, una speranza – o forse un’altra illusione – di internazionalismo e pace universale.
Ed era stata lei (così almeno mi aveva raccontato Edgardo Pellegrini) a battere a macchina, nell’ufficio del fondatore di Medicina Democratica Giulio Maccacaro, il testo de “La Strage di Stato”, pubblicato da Samonà e Savelli nel giro di sei mesi da quel dicembre di sangue.
Riprendo in mano l’agendina e scorro le pagine. Ormai un monumento funebre con più della metà quelli “andati oltre”, la gran parte compagni: Claudio Venza, Paolo Finzi, Alex Langer, Febe Cavazzutti, Edgardo Pellegrini, i partigiani Giuseppe Sartori e Nino De Marchi, Benny Nato, Peggy O’Hara, Aureli Argemì, Pepe Rei, Tavo Burat, Bruno Zanin…
E ovviamente tanti vicentini. Per lo più ambientalisti e antimilitaristi, magari anche antimperialisti. Forse inevitabile in una città con cinque o sei basi militari: Stefano Dal Cengio (protezionista, a Genova nel 2001…), Giorgio Fortuna (movimenti vari, U.N.A., Genova 2001, No dal Molin…), Gianfranco Sperotto (PSIUP, Legambiente, No Dal Molin…), Rino Refosco (anarchici, Radio Vicenza…), Olol Jackson (CSO Ya Basta! No Dal Molin, Bocciodromo…), Franceso Scalzotto (Presidio di Longare alla Base Pluto…), Eugenio Magri (giovanissimo partigiano, PCI, CGIL, CUB..), Alberto Carta (WWF), Luciano Ceretta (D.P, Rifondazione comunista…), Arnaldo Cestaro (praticamante tutto e anche di più…)…
Per ognuno di loro una storia condivisa di impegno, di militanza…
E come il Guccini di sessanta anni fa, a volte anch’io “vorrei sapere a che cosa è servito…”.
Ma almeno, mi consolo, l’importante è averci provato. In faccia al mondo e a quelli che verranno.
Che la terra ti sia lieve compagna.
Gianni Sartori
“Non lo so, ma dobbiamo andare…”
IN MEMORIA DI BRUNO ZANIN PARTITO PER UN ALTRO VIAGGIO…
Gianni Sartori
Bruno Zanin se n’è andato – in “ malo modo – a luglio.
Cominciamo allora dalla fine. Da quanto il figlio Francesco ha scritto per la morte di suo padre. Essenziale, toccante.
”Pour certains c’est le Tita de Fellini, pour d’autres un écrivain, un journaliste, pour d’autres encore un marcheur infatigable, un conteur, un jardinier aux pouces verts, un homme engagé auprès des migrants, engagé dans l’aide humanitaire, un masson, un homme en recherche de vérité… Pour moi, il est mon père, avec sa part de lumière et sa part d’ombre. Il était rugueux, aimant, généreux, exigent, cultivé, borné, curieux, “brontolone”. Il ne laissait pas indifférent : on l’aimait ou on le détestait quand ce n’était pas les deux à la fois.. A-t-il été un bon père ? Il a fait ce qu’il a pu, il s’est rendu compte qu’il avait fait beaucoup d’erreurs, il a essayé de réparer celles qui pouvaient l’être, et il a transmis…
A moi il m’a transmis l’amour des mots, de l’écriture. Une grande partie de ma culture littéraire, c’est à lui que je la dois. A mon frère et à moi, il nous a laissé des amis qui ont été et sont pour nous comme une famille. A-t-il été un bon père ? Je pense qu’avec les années, il a été un aussi bon père que ce que ses écorchures le lui permettaient, infatigable dans ses tentatives d’essayer de s’améliorer, ne se resignant pas à ses propres limites. Ces derniers jours que j’ai passé avec lui et mon frère Fiorenzo, j’ai réalisé que personne n’avait expliqué à mon père comment on vit “ensemble”, et que très jeune il avait dû se débrouiller avec ses écorchures pour s’adapter au mieux à un monde où la différence fait peur et exclut. Il a su en partie transcender ses différences, mais il n’a jamais su tout à fait trouver sa place même parmi les gens qui l’aiment. Papà a reçu beaucoup d’hommages après sa mort, merci pour lui. Il a aussi reçu beaucoup d’affectation et de soutien durant ses derniers jours, et ça, ça n’a pas de prix. Merci du fond du cœur à vous qui lui avez manifesté votre affection.
Merci à la famille que nous avons en Italie. Nous n’avons pas été proches par le passé, mais vous vous êtes montrés présent pour nous, avec humilité et grand cœur, discrétion et bienveillance. Merci pour tous vos mots de réconfort. Enfin, merci à Anne-Lise, Charlène et maman. Pas de fleurs, pas de cartes, (voir commentaire) merci“.
E qui forse bisognerebbe aver l‘umiltà di fermarsi. Quello che si doveva dire è stato detto.
Tuttavia, per quanto al momento del suo trapasso sia stato ricordato dai media, resto convinto che Bruno Zanin si meritava di più. Di essere letto, conosciuto…e anche ”studiato“, interpretato. Da vivo, intendo.
Vorrei quindi provare a rimediare, portare un mio piccolo contributo.
O almeno provarci.
Una vita la sua a dir poco emblematica. Da tanti e tali punti di vista (nessuno dei quali può darci la cifra complessiva dell‘Uomo Zanin) che non si può certo esaurire in un articolo-epitaffio.
E proseguo con una testimonianza ormai postuma, la sua ultima, lapidaria, mail. Non un lamento, forse nemmeno un’invettiva o una condanna, ma comunque un grido che suona da rimprovero per chi avrebbe potuto se non salvarlo, perlomeno rendere meno dolorosi, disperati i suoi ultimi giorni in questa valle di lacrime.
Ma, come ha commentato un comune amico ”neppure la decenza di rispondere“.
Nel suo “messaggio in bottiglia“ scritto d‘impeto evidentemente, si rivolge a quei medici che in Veneto lo avevano “posteggiato” a lungo, in attesa di una visita che non arrivò mai. Tanto che quando venne finalmente sottoposto a una TAC a Domodossola era ormai troppo tardi per qualsiasi cura.
Un testimonianza che vorrei riportare qui per intero (ho ritenuto di omettere solo i nomi, anche se circolava già in rete).
Rivolgendosi a uno dei medici che avrebbero dovuto prenderlo in carico, Bruno spiega “…perché non sarò da voi: dalla TAC fatta all’ ospedale di Verbania addome e torace una settimana fa si avvince che la massa del cancro si è praticamente raddoppiata nel fegato, forti dolori all’addome, la bilirubina dai valori tollerabili quando mi avete visitato il 28 maggio, sono saliti ad otto, qui al day hospital di Domodossola reparto oncologia, hanno tentato inutilmente di abbassarla con delle infusioni contenenti diversi farmaci, per cui mi hanno detto che la terapia chemio aggraverebbe il mio stato per insufficienza epatica. Mi chiedono tutti perché non mi avete programmato la terapia già allora quando mi avete ricevuto che ero in condizioni di tollerarla? La documentazione che vi avevo portato, mi ripeto, era completa, c’erano i risultati della biopsia della TAC addome e torace, l’ecografia che vi dava un quadro completo della mia situazione clinica. Invece no mi avete fatto tornare in Piemonte e aspettare qui. ed intanto le cose sono peggiorate velocemente, dolori intollerabili all’addome nausea inappetenza disturbi che i vostri colleghi risolvevo con le flebo Ma la bilirubina non è diminuita anzi è aumentata fino a giungere a 8,3 , urina marrone feci simile allo yogurt alla frutta. Non aggiungo altro perché veramente mi ha preso una rabbia che difficilmente riesco a controllare, e come sono un personaggio pubblico (fui il protagonista di Amarcord di Federico Fellini oltre che molto teatro e con registi e compagnie di fama internazionale e altro cinema è chiaro che i media gossip si interesseranno a questa mia vicenda arrivata al capolinea, ripeto, impossibile fare le terapie sia qui a Domodossola dove si erano già procurati anche il farmaco immunoterapeutico più la chemio da protocollo. Sicuro che voi potete capire clinicamente parlando, e come sono stato anche un giornalista e reporter di guerra questo prima di ritirarmi a vita privata è chiaro che i media si interesseranno a questa mia situazione di salute arrivata al capolinea, mi ripeto, cosa si dovrà dire della dottoressa(…) che il professor (…) mi aveva assicurato che mi avrebbe preso in carico, cosa si dovrà avrebbe dire dello (…) ,eccellenza riconosciuta a livello europeo dove accorrono malati di tutta l’Italia soprattutto dal sud? Che sono diventati dei burocrati dei funzionari e hanno perso l’umanità? credo che sia così! (…) ma invece ho dovuto aspettare due settimane ospite di un centro di accoglienza , un monastero e venivo dal Piemonte e invece no ho dovuto aspettare due settimane prima di essere preso in carico da voi. Saluti Bruno Zanin”.
Avevo conosciuto Bruno diversi anni fa, nel 2007 mi pare.
Lo avevo intervistato e avevamo presentato il suo libro in un centro socio-culturale di Mestre (in coincidenza con la pubblicazione dell’intervista sul “Germinal” triestino).
Nato nel 1951 a Vigonovo, provincia di Venezia (“…un paese tagliato in due dal Brenta, che allora aveva una sola strada asfaltata; partiva da un fondale di pioppi, rasentava l’argine per perdersi più avanti allo sguardo e sboccare nel respiro della pianura infinita. E ovunque casolari, campi lavorati, vigneti, stalle, pagliai…”), lo scrittore Bruno Zanin era sicuramente più noto come attore. Iniziò interpretando Titta Biondi in «Amarcord» di Federico Fellini, per lavorare in seguito con altri registi come Montaldo, Giordana, Ronconi, Brusati, Ferrara. E poi in teatro: con Strehler al Piccolo, con Lucien Piutilie al Théatre de la Ville a Parigi…
Qualche anno fa, dal suo rifugio in una baita sul Monte Rosa, aveva intrapreso una nuova carriera, quella di scrittore. All’epoca il suo libro «Nessuno dovrà saperlo», pubblicato nel 2006 da Tullio Pironti, era stato positivamente recensito dai principali giornali italiani. In occasione del suo 65° compleanno era stato ristampato (in edizione limitata e numerata, diventata preziosa) da Grafica Veneta.
Nel romanzo, in pratica autobiografico, un sacerdote si rende responsabile di un delitto da “macina al collo”.
Racconta l’infanzia di un “bambino prodigio in una povera famiglia di contadini veneti negli anni 60 destinato da tutti a diventare prete”.
Ma che prete non diventerà: ”un intoppo tragico insanabile lì nel collegio dove studia interrompe quel percorso e vocazione, invece che prete il ragazzino diventerà un piccolo delinquente, un alcolista, un emarginato”.
Denuncia una realtà scabrosa in seno alla chiesa “realtà che se in tempi andati rimaneva sotto traccia, da come sta venendo fuori in questi ultimi anni, pare non abbia riguardato solo il protagonista del mio libro, ma tante altre persone che non avevano allora voce e coraggio per farlo sapere, per chiedere aiuto, per denunciarlo. Mi riferisco alla pedofilia dei preti e alle loro vittime. Il mio libro racconta il percorso doloroso che quel ragazzino uscito dal seminario dovrà fare in un paese di campagna dove, senza alcuna delicatezza, nella totale incomprensione e indifferenza, verrà chiamato “Prete falso“; racconta cosa può essere il dopo per un adolescente che ha subito un abuso da parte di un prete , un ragazzino che trovato il coraggio di raccontarlo al padre non viene creduto ma bastonato perché per l’uomo gli è impossibile credere a una cosa del genere”.
Diventando con gli anni ben consapevole delle oscure dinamiche (sostanzialmente di potere) che portano le vittime a doversi “sentire in colpa”, mentre chi usa violenza trova il modo di auto assolversi. Gli oppressi diventano “colpevoli” di ribellarsi, le donne “colpevoli” di essere state violentate. Un meccanismo ben consolidato per perpetuare il dominio, il controllo.
E così commentava:
”Non è semplice capire questo perverso meccanismo che fa sì che chi usa violenza si auto assolve e chi la riceve si sente in colpa. Quello che so è che chi usa violenza lo fa in forza a un potere che detiene e gli viene riconosciuto. Chi la subisce è sempre una persona debole, subordinata o sottomessa a quel potere. Perché succede questo, come mai la vittima non si ribella a volte, potrebbe spiegarlo con termini più appropriati un psicologo, un psicanalista. Io so solo che ero un ragazzino tredicenne totalmente ingenuo e timido, se posso fare riferimento al mio caso personale, il prete che abusò di me era un uomo sapiente, rappresentante di Cristo, un suo ministro, verso il quale andava la mia fiducia e totale obbedienza. Chi e cosa ero io ai suoi occhi e agli occhi del mondo? Nessuno, uno dei tanti; lui invece era un bravo prete, un prete che aveva avuto un momento di debolezza, forse anche due o tre momenti di debolezza, ma era comunque un bravo prete, un ottimo professore ed infatti in seguito ha fatto carriera e io che non valevo niente divenni uno sbandato e poi un delinquente.
A chi avrebbero creduto se avessi denunciato la cosa allora? A me o al bravo prete professore? Ed infatti mio padre non mi credette e mi picchiò. Ora ho potuto farlo perché la cosa è sotto gli occhi di tutti e la Chiesa stessa ai massimi vertici lo ammette e sta facendo mea-culpa”.
Scriverla, raccontare senza remore questa vicenda ha rappresentato quindi non solo una catarsi, una liberazione, ma anche una denuncia inappellabile. Ne riparleremo.
Intanto va detto che Bruno Zanin non era un personaggio qualsiasi, da “prendere con le molle” talvolta. Ma comunque, per quanto ho potuto conoscerlo, dava regolarmente l’impressione di posizionarsi parecchi passi avanti. Sia sul piano culturale, sia per esperienze vissute (digerite e metabolizzate, almeno in parte), sia per consapevolezza generale sulla vita e sui massimi sistemi. Ma senza tirarsela, disponibile, alla mano.
Altra considerazione personale (ne avevo anche parlato con l’interessato a suo tempo). Per una serie di coincidenze, analogie, affinità elettive etc. mi faceva pensare a qualche personaggio – di quelli border line, non omologati – espressione della controcultura del secolo scorso.
Come lo scrittore Jack Kerouac (all’anagrafe Jean-Louis Lebris de Kérouac, franco-canadese con ascendenze bretoni). Universalmente ritenuto l’ideatore del termine beat (si presume da beatific)
Accomunati, Kerouac e Zanin,dall’intima necessità di muoversi, viaggiare, vagabondare. Dal non poter star fermo troppo a lungo e da una una predisposizione – concimata e coltivata – alla discontinuità, alla devianza.
Fermenti che impregnano sia “Sulla Strada (”On the Road“, ma la prima stesura era in francese), sia un libro di Zanin (rimasto purtroppo inedito, almeno per ora) di cui mi aveva parlato diffusamente: “Il ragazzo dei colombi viaggiatori”. Del resto Lipari era stata la sua Big Sur.
Per entrambi una “breve estatica estate” sospesa sul mare della libertà
Con uno stesso conduttore: il viaggio per il viaggio. Viandante e pellegrino instancabile (quante volte avrà percorso il Camino de Santiago?) avrebbe potuto senz’altro partecipare al famoso dialogo:
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare”
Ma Bruno evocava anche un altro “irregolare”. Un attore che recitò soltanto in tre film (in realtà due, l’ultimo rimase quasi sconosciuto): Mark Frechette.
Come quella di Zanin anche l’infanzia di Frechette era stata segnata da abusi sessuali. Ed entrambi (oltre a conoscere il carcere) erano divenuti attori quasi per caso. Presi direttamente dalla strada da due grandi registi italiani:Fellini per Zanin, (nel 1973), Antonioni per Frechette (nel 1968).
Entrambi da giorni, settimane (Antonioni da quasi un anno) andavano cercando invano un volto, uno sguardo, una postura confacenti ai personaggi ideati.
Rispettivamente il “Titta” Biondi di Amarcord (1973) e Mark (conservando anche il nome), il protagonista bello e perdente di Zabriskie Point (1970).
Così Bruno raccontava della sua iniziazione alla settima arte:
“Ero arrivato a Roma da Lipari, dove, dopo la fuga da casa, ero vissuto alcuni anni fabbricando collanine, sulle tracce di un’avventuriera a cui avevo prestato centomila lire senza riaverle indietro, erano soldi che mi servivano per comprare il materiale per il mio lavoro, filo e perline. I suoi figli lavoravano come comparse, quindi li avevo seguiti a Cinecittà sperando di essere preso anch’io per un western, ma nonostante i miei capelli lunghi mi avevano scartato. Ero deluso, arrabbiato, quando vidi la fila interminabile davanti alla porta dello Studio 5. Mi misi in coda anch’io per vedere il grande Fellini. Lui entrò, con certe madonne addosso, scontento di tutte quelle facce che gli sottoponevano per i provini. Io avevo una consuetudine di visioni, preveggenze. Cose strane, che non capivo. Oggi credo siano fenomeni isterici, qualcosa che succede a persone cui il dolore ha acuito la percezione e che non hanno più i muri, sono trasparenti. Quando ho visto Fellini devo avergli mandato un messaggio come a dire ‘prendimi’ e ho provato una grandissima emozione, come se mi avesse ‘trovato’. Come se lui avesse visto chi ero sotto le maschere che portavo. Vivendo sulla strada, dovendo sopravvivere, ero diventato Zelig”.
Mentre la carriera cinematografica di Bruno Zanin fu piuttosto lunga (con oltre una ventina di film) quella di Frechette, per quanto intensa, risulterà brevissima.
Dopo Antonioni Mark ebbe una parte importante in un altro film italiano “Uomini contro” di Francesco Rosi. Film antimilitarista ispirato da “Un anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, a cui prese parte anche Gian Maria Volonté.
In entrambi Mark alla fine veniva fucilato.
Un tragico presentimento della sua fine da ribelle. Arrestato per tentata rapina (con armi scariche) a una filiale della New England Merchant’s, verrà ritrovato cadavere nella palestra del prigione di Norfolk il 27 settembre 1975.
Ma vedo che sto divagando. Del resto la personalità di Zanin mi appariva talmente sfaccettata, poliedrica, difficile da mettere a fuoco, da “scolpire”una volta per tutte.
Ragion per cui lo devo abbozzare un po’ alla volta, procedendo per accostamenti, affinità, analogie.
Per esempio confrontandolo con un altro “outsider per scelta” che entrambi avevamo conosciuto: l’eremita scalzo (e vegetariano) della Val Grande, Gianfranco Bonaldi.
Per tutti “il Gianfri” scomparso tragicamente nel 2015
Praticamente un suo compaesano (da quando Bruno si era insediato nei pressi del Monte Rosa) in cui aveva riconosciuto una certa sintonia spirituale, un riflesso delle medesime inquietudini. Entrambi tra le montagne per lenire un malessere esistenziale non solamente metropolitano.
Tra gli scrittori a lui affini, oltre al Kerouac, dovrei citare anche William Seward Burroughs e Heinrich Karl Bukowski.
Se non altro per quella vena di “realismo sporco” che scorre, striscia (tra sesso occasionale,, alcol, rassegnato cinismo e disperata solitudine) anche tra le pagine di Zanin.
Lascerei perdere invece il riferimento a Pasolini (apparentemente scontato). In realtà per certi aspetti si tratta di esperienze diametralmente opposte.
Anche se – confrontandolo con don Gelmini – aveva detto che “Pasolini passerà alla storia perché era un grande, di Gelmini fra 10 anni nessuno più ne parlerà se non per disprezzarlo”.
Spiegando che “Pier Paolo Pasolini che pure era omosessuale e ha vissuto sulla sua pelle un cristianesimo sofferto in contrasto con le pulsioni della carne, ha pagato con la vita quella contraddizione.
Don Gelmini invece si definisce martire, perseguitato, messo in croce, bestemmia: è un ipocrita, vive una doppia morale. In pubblico appare il santo paladino contro la droga, in privato è ben altro”.
Intravedo invece dense sintonie (ma anche dissonanze) con Vitaliano Trevisan.
ntrambi hanno saputo esplorare il lato oscuro (o meglio: non del tutto colonizzato) dell’animo umano. Con lucidità, andando oltre la propria sofferenza personale e le proprie (indiscutibili) contraddizioni, arrivando a un grado di consapevolezza dei rapporti umani e – più ancora direi – dei rapporti “di potere” in questa società gerarchica e ingiusta. Fornendo una “mappa esistenziale” a viandanti, pellegrini, sfollati e naviganti su come si possa affrontare la tragicità della vita senza soccombere, rielaborandone anche gli aspetti peggiori.
Ma fermiamoci qui che mi divento retorico.
Talvolta Bruno poteva (voleva ?) apparire ingenuamente naif.
Un “Forrest Gump de noaltri” che quasi per caso aveva incontrato e frequentato personaggi del calibro del pittore-scultore Edward Melcarth (nel 1967), Peggy Guggenheim (lo assunse come dog sitter a Venezia), Federico Fellini, Raffaele La Capria, Giorgio Strehler, Elsa Morante, Quanto a Luca Ronconi, raccontava – da finto ingenuo – che quando lo chiamò a recitare Goldoni credeva “parlasse dei preservativi…”.
E su richiesta di Jean Louis Barrault reciterà (in francese) anche in commedie di Ionesco al Théâtre de la Vallée a Parigi.
A Parigi Bruno era già approdato tempo prima, in autostop e privo di documenti. Vagabondando poi curioso per la città (mete ricorrenti le Père-Lachaise, il Marché aux Puces de Saint-Ouen, Pigalle…).
“A’ la derive”. Applicando, consapevolmente o meno, il metodo lettrista e situazionista della psicogeografia.*
Speculare a certi atteggiamenti vagamente autodistruttivi, la sua costante ricerca di redenzione o almeno di serenità. Sia, poco più che adolescente, andando a vendere collanine ai turisti nelle isole Eolie, a Lipari (dopo una parentesi convulsa, caotica a Roma). Sia, più avanti nel tempo, tra le vette delle Alpi occidentali. E soprattutto con gli anni di generoso, disinteressato volontariato in zone di guerra (Bosnia- Erzegovina).
Qualche aspetto meno “nobile”.
Parlando della sua altalenante relazione con una attempata nobildonna romana benestante (Lydia da lui detta “Maga Circe”), avevamo discusso in merito allo stile non “politicamente corretto” con cui raccontava di alcune “sue” donne.
Costei (da cui si era fatto mantenere, quasi come un toy-boy) veniva descritta in maniera irriverente: “agile e morbida come una foca da circo quando le prendeva la fregola (…) negli ascensori, dentro le toilette, nei guardaroba degli hotel, nei vicoli bui di Sperlonga…”
Non in linea con l’abituale sua sensibilità, empatia verso vittime, esclusi e diseredati.
Parentesi non propriamente edificante quella romana. Da cui l’inquieto adolescente si era emancipato fuggendo a Lipari (e portandosi appresso la vespa regalata da Lydia e i piccioni viaggiatori). Perdendosi, anzi ritrovandosi, tra la luminosità marina (“tutto brillava, tutto risplendeva…”).
A distanza di anni rievocava (lo sguardo un po’ appannato, nostalgia ?) le piazzette e le stradine impervie, le “lampare tremolanti”, il castello, la cattedrale, le case antiche. Ma soprattutto il mare “così turchese, così trasparente e sfavillante, da flippare, altro che Ostia o Fregene”. E la gente. Che pasolinianamente percepiva non ancora corrotta dalla modernità capitalista (non del tutto almeno). Ritrovandovi l’innocenza della mitizzata infanzia perduta. Pur mantenendo anche nell’isola uno stile di vita quanto meno “scanzonato” (oggi magari si direbbe fluido) in campo sessuale.
Vivendo quasi con rassegnazione tale contraddizione.
Con rimpianto anche in anni successivi per quel periodo: “Oh, poter stare lì con lei (rievocando, con toni francamente piccolo-borghesi per lui inusuali, la visita in casa della nonna di un suo amico isolano nda) rincantucciato nel salottino da bambola con l’odore di cera dei pavimenti, la pendola grande della sala da pranzo che spandeva per tutta la casa quel suo tic tac rassicurante, il debole ronzio del frigorifero, il remoto rumore della risacca del mare così rilassante, e lì dentro, avvolto in quel tepore, da quel senso di benessere, con un gatto tra le ginocchia leggere tutti quei bei libri rilegati ed esposti con tanta cura nelle librerie e nella vetrinetta accanto alle foto di famiglia. Verga Pirandello Deledda Pavese Melville London Maupassant Flaubert Proust Dostoieskij Tolstoj…(l’ansia di appropriazione della cultura “borghese”, peculiare di ogni proletario autoalfabetizzato nda) e liberarsi da quell’intimo malefico sospetto che mai avrei conosciuto in realtà una gioia così grande”.
Ma forse, come Jack Kerouac, anche Bruno in fondo cercava solo il suo spicchio di “beatitudine”.
Mi spiego. Kerouac ideò l’espressione Beat Generation nel 1948 per definire il movimento giovanile dell’underground newyorkese attribuendole aspetti quasi mistici (nel senso di “beato” dalla contrazione di “beatific”). Tanto che per lo scrittore cattolico franco-canadese esprimeva la sacralità segreta degli oppressi.
E Bruno il suo “spicchio di beatitudine” lo inseguiva, pedinava anche entrando “senza sapere perché in una chiesa appena giunto a Lipari”.
Mettendosi in ginocchio davanti alla statua della Vergine (“carica d’oro”) a pregare “con gli occhi chiusi, le mani giunte, il cuore traboccante di gratitudine”. Finché a strapparlo dall’estasi mistica non giunse, strattonandolo sulla spalla, sbraitando “in siciliano stretto” e tirandolo per un braccio, un “prete con la faccia butterata, lo sguardo cattivo, con un vocione da orco” che lo aveva scambiato per “uno delle giostre. Era infatti la fiera di San Giuseppe ed era arrivato anche il circo”.
Ma l’idillio bucolico-insulare doveva presto finire. Interrotto dall’arresto – a Stromboli dove lo aspettavano i carabinieri – per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (tre grammi di cannabis nel borsellino). E poi, dopo la perquisizione a casa sua, anche per coltivazione di canapa indiana. Con un risvolto tragico. Una parte dei suoi amati piccioni viaggiatori venivano abbattuti a fucilate dai finanzieri (non dai carabinieri, precisava) in quanto sospettati di venir utilizzati per il traffico della droga (!?!).
Conseguenza fatale, un periodo di permanenza forzata nella Casa circondariale di Messina, il “Gazzi”. Per la cronaca, la sua terza esperienza carceraria dopo quelle al minorile e al Regina Coeli (per “resistenza a pubblico ufficiale”).
Tra i ricordi indelebili, una frase, vagamente dantesca, scritta con il fumo di una candela sul soffitto: “Ricorda sempre tu che sei entrato: la legge degli uomini è uno sporco trucco e puzza di merda come questo bugliolo”.
Tuttavia l’infelice esperienza non mancò di produrre effetti benigni. Grazie a un compagno di cella istruito (un ex accademico all’ergastolo, il “professore”) che lo incoraggiò alla lettura (“Pirandello, Herman Hesse…”) e alla scrittura. Cominciando “a scrivere su un quadernetto una sorta di diario, provando l’estasi di sfogare la propria tristezza sulla carta”.
In tempi successivi avrebbe spiegato che “personalmente alla scrittura io ci sono arrivato per un bisogno tutto mio di tirare fuori un mondo segreto e doloroso che mi portavo dentro e premeva per uscire, un peso di cui dovevo per forza liberarmi per poter tornare a vivere. Avevo degli amici- parlo di quando ero ragazzo- a cui scrivevo delle lettere dove raccontavo ciò che mi accadeva in giro per il mondo dove, da quando ero uscito dal correzionale, me ne andavo zaino e sacco a pelo in spalla. Ad un certo punto qualcuno di loro ha cominciato a dire che non scrivevo poi così male e che non erano tutte stupidaggini quelle che raccontavo. Fellini, col quale ebbi una significativa corrispondenza durante e dopo Amarcord, fu uno di questi, ma non il primo. Elsa Morante con la quale dopo aver letto l’Isola di Arturo entrai in contatto sommergendola di lettere, me lo disse che avrei dovuto cominciare a farlo con applicazione e costanza, e me lo ridisse anche Giovanni Comisso quando lesse le sgrammaticate poesie il giorno che lo conobbi, tantissimi anni fa, ma io, io non ho mai creduto a costoro, non davo peso a questi complimenti. E poi ero troppo intento nella mia fuga ad oltranza a scorribandare per il mondo, a barcamenarmi e sopravvivere per fermarmi, sedermi davanti a una macchina da scrivere e farlo. Per me valeva il detto o si vive o si scrive. Se prima ero un sradicato saltafossi senza fissa dimora, in seguito, passato a una vita totalmente diversa dentro il vortice del cinema, vita che non era mia, vita senza tempi morti per poter esistere e restare a galla nella fiera delle vanità chiamata cinema, non avevo nè tempo nè voglia di farlo”.
Finché anni dopo, lo Raffaele La Capria, suo vicino di casa a Roma “mi obbligò a farlo il giorno che gli raccontai un fatto accadutomi in Bosnia durante la guerra. Obbedii e la cosa portò dei risultati lusinganti, ebbi una pagina intera sul Corriere della Sera, fu la conferma che potevo scrivere, La Capria mi esortò a continuare e di fare della scrittura un metodo, una disciplina, una ricerca introspettiva. Gli ho dato retta…”.
Per fortuna vien da dire.
Bruno uscì dal “Gazzi” in anticipo sul previsto. Sostanzialmente per “non aver commesso il fatto” in quanto un maresciallo dei carabinieri dal cuore tenero avrebbe – a suo dire – bruciato le pianticelle di “maria” sostituendole con erbacce di aspetto simile. Quanto a Bruno si è sempre detto convinto che in realtà se le fosse fumate.
E intanto la vocazione letteraria innescata dal carcere e perorata dal “professore” non si andava esaurendo.
Mettendo per scritto una sorta di autobiografia, riandando all’infanzia trascorsa in un paese della campagna veneta dove allora “c’era solo povertà, odore di fiume e di letame, d’inverno la nebbia chiudeva tutto dentro un sacco che si riapriva a primavera”.
Per inciso, un paese (Vigonovo, ancora provincia di Venezia, ma in realtà più vicino a Padova) che come minimo dovrebbe dedicargli una via, un parco. O come suggeriva un amico “almeno una panchina”,
Di fatto stava creando una prima, ancor rozza stesura di quello che diventerà il libro-denuncia “Nessuno dovrà saperlo” (Tullio Pironti editore, 2006; menzione speciale premio letterario Città di Latisana per il Nord Est; quarta di copertina di Raffaele La Capria).
Un crudo, impietoso resoconto dell’esperienza in seminario quando, tredicenne, cadde nelle grinfie di un prete pedofilo (un “missionario” che in seguito divenne anche vescovo).
Come ebbe a scrivere Ferdinando Camon su La Stampa:
“Non è un libro, è una vita. Una sapiente, allucinata, ingenua-veritiera descrizione-narrazione di quel mondo nascosto, dove succede ciò che “nessuno dovrà sapere”. Zanin voleva alzare un grido al mondo. Ecco, il grido arriva, lo sentiamo. Chi ha orecchie per intendere, intenda…”.
Altra sofferenza al ritorno in paese (incompreso, deriso…) dove “per reazione al mio isolamento feci tutta una serie di esperimenti altresì chamati cazzate”. Poi la fuga da casa, il vagabondaggio durato mesi, le violenze subite da un giostraio incontrato alla stazione di Milano, i carabinieri che lo fermano a Busto Arsizio per portarlo al Cesare Becccaria, il carcere minorile di Milano: “vi rimasi un bel po’ finché non venne uno zio a prendermi e tornai a casa con lui”.
Seguirà un periodo come apprendista tagliatore in una fabbrica di scarpe. “Mi misero – raccontava – alla trancia a tagliare fodere, cinturini, punte, solette. Nove ore al giorno a volte dieci sempre piegato sulla trancia con la luce del neon che illuminava il reparto di una luce spettrale (…). Quando entravo nel reparto, mi accoglieva il gelo totale, i compagni mi apparivano dei fantasmi con volti duri, ostili, senza nessuna gentilezza, se sorridevano era per sfottermi con battute cattive, mi coglionavano perché non parlavo con loro, e come avrei potuto, appena tentavo di dire qualcosa le parole mi si fermavano in gola e mi veniva da piangere”.
Ripercorrendo poi, con puntiglio e precisione, il primo viaggio oltre confine in semi-clandestinità. Sua meta, Parigi. Raggiunta con l’autostop passando la frontiera illegalmente (”de sfroso”) in quanto sprovvisto di documenti. Periodo non limpido, sia per certe ambigue frequentazioni, sia per la sfortunata incursione di un paio di mesi in quel di Amstersdam. All’epoca ritenuta la “capitale immorale” di hippy e capelloni europei (anche se, spiegava “non era tutto quel paradiso che tutti dicevano”). Sempre in autostop, ma stavolta provvisto di documenti, per quanto falsi.
Acquistati presso la fontana di boul’mich (boulevard St. Michel).
Purtroppo in Olanda si lasciò convincere, venne indotto a fare uso di altre sostanze stupefacenti (acido lisergico, oppio…):”Vissi male e vissi brutte esperienze”.
Spaesato e confuso dopo esser rocambolescamente sfuggito (buttandosi contro una finestra e rimanendo ferito) a un tentativo di stupro. Per ritrovarsi, in pieno “delirio allucinatorio, assalito da visioni spaventose, seminudo e mezzo dissanguato”, su una diga a 30 chilometri dalla città. Braccato da mostruosi gabbiani (presumibilmente un effetto dell’LSD) come in un film di Alfred Hitchcock.
Fermato dai gendarmi olandesi, dopo qualche giorno in ospedale (“reparto psichiatria”) venne rimpatriato. Preso in consegna dalla polizia a Linate, il suo peregrinare si concludeva provvisoriamente al “Paolo Pini”, il noto ospedale psichiatrico di Milano. Dove in anni futuri (i novanta) Enrico Baj metterà in pratica la lezione di Franco Basaglia. Coinvolgendo gli ex degenti, nella realizzazione di alcune opere alquanto significative (utilizzando anche specchi e specchi infranti: riflessione, sparizione, ricomposizione…). Alcune come “Il Sole di Specchi” sono ora esposte al MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini).
Quanto a Bruno, con il foglio di via della questura, se ne tornò a Roma.
E qui la storia si fa lievemente surreale. Avrebbe (mantengo qualche riserva nell’usare l’indicativo) convissuto e collaborato con un misterioso “avvocato”. In realtà un esperto “truffatore professionista, famoso per aver venduto anche una nave che non era mai esistita”. Un “bandito gentiluomo” che dopo la truffa inviava mazzi di fiori alle sue vittime “giustificandosi con ragioni sociali” (alla Horst Fantazzin).
Stando al racconto di Zanin funzionava così. Spacciandosi per studente e nipote del sedicente avvocato (“colto e preparato anche se in realtà aveva solo la terza elementare e tutto quello che sapeva lo aveva imparato leggendo”) andava ad abitare in un appartamento affittato dal lestofante di professione che intanto con annunci sul giornali lo metteva in vendita.
A un prezzo vantaggioso in quanto spiegava affranto che “i soldi gli servivano per curare la moglie”.
Ovviamente chiedeva una caparra a tutti i potenziali acquirenti e appena ne aveva raccolte il più possibile il sedicente nipote e giovane studente sloggiava dal locale. Tornando a vivere dall’avvocato in contrada Ottavia.
Finché una sera, sceso dall’autobus incontrò un signora che gli chiese cosa avesse combinato “suo zio” per essere stato appena “portato via in manette da quelli della Questura”. Rispose che “forse non aveva pagato una multa”.
Entrato in casa “col cuore in gola dopo aver rotto i sigilli del sequestro giudiziario” mise le sue poche cose tutte insieme e se ne andò dritto alla stazione.
Dopo un mese trascorso “dormendo sui treni e mangiando dai frati” (e altre storie non propriamente esemplari), finì a piazza Navona. A collaborare con un pittore di strada tossicodipendente e bohémien di Primavalle che gli propose di vendere i suoi disegni ai turisti tenendosi la metà del ricavato. Mentre il pittore si assentava sempre più spesso andando in farmacia per rifornirsi di Cardiozol. Uno sciroppo oppioide, sedativo per la tosse che all’epoca andava forte tra i freaks (falciandone parecchi oltretutto).
Ma lasciamo ora il Bruno diciottenne al suo girovagare per l’Europa “dormendo sotto i ponti solo e malato di scabbia” e alle sue picaresche disavventure romane, per ritrovarlo negli anni novanta quando per tre anni è stato in Bosnia (allora percepita come “una patria ideale, da difendere”). Sia come corrispondente free lance (Radio vaticana, Corriere della Sera, Der Spiegel, Famiglia Cristiana…) che in veste di volontario per una ong francese, trasportando viveri e medicinali ai profughi.
Mi aveva spiegato di essere stato in un primo tempo volontario fai-da-te, per poi entrare a far parte dall’ong francese Emmaus Internazionale, fondata dall’Abbè Pierre (altro personaggio oggetto in anni recenti di controversie, rivelazioni e discussioni, ma lasciamo perdere) come “responsabile stipendiato, ma non credo che rifarei ancora una scelta del genere avendo visto e capito laggiù cose che mi hanno cambiato molti punti di vista, in primis l’ opinione che avevo sulla guerra, sulle guerre in genere e anche sugli aiuti umanitari e le organizzazioni umanitarie di cui ho fatto parte. Lo stesso vale per la politica messa in atto dai responsabili delle parti coinvolte nel conflitto e così per i governi che hanno preso parte alle trattative per risolvere la spinosa questione. In poche parole, per usare un eufemismo, la guerra è comunque e sempre un gran merdaio, dove tutti hanno una buona dose di torto e responsabilità, nessuno ha sufficiente ragione per dire: sono totalmente dalla parte della ragione, sono stato aggredito ingiustamente”
Pur concedendo che magari “ci saranno anche delle eccezioni…”.
Tutto era cominciato vedendo in televisione un programma su”un Paese vicino all’Italia dove accadevano cose inimmaginabili. Passavano al Tg scene raccapriccianti che solitamente si vedono solo nei film: bombardamenti, violenze, villaggi bruciati, gente cacciata dalla propria terra, esodi strazianti di donne e bambini terrorizzati, piangenti. E decisi così su due piedi, senza tanto pensarci, di andare a vedere. Erano l’infelicità o forse la voglia di evadere, l’attrattiva del rischio, che mi spinsero laggiù a cercare un valore e una ragione di vita? Ancora non mi è chiaro. L’ infelicità ha questo di straordinario, che ci fa uscire a volte da noi stessi e frantuma ogni struttura protettiva, ci stana dalla nostra appagante mediocrità per scaraventarci in mare aperto in balia degli eventi e del destino. Ed ecco che partii, in testa una quantità di propositi incantevoli, una chiarezza di coscienza così acuta da esserne eccitato come da uno stimolo fisico, quasi affrontassi una avventura estrema; ma oggi so che forse era più per arrestare la caduta e attutire l’impatto con il fondo del baratro dove stavo precipitando che per portare aiuto a gente che non conoscevo. Poco dopo il mio arrivo incontrai per caso un altro italiano che s’era mosso per una ragione più che nobile, quella di andare laggiù a cercare e portare in salvo la famigliola di un giovane bosniaco musulmano conosciuto a un semaforo di Lecco, rimasta bloccata in un villaggio non lontano da Sarajevo. E mi accodai a quella impresa romantica e sgangherata senza una carta geografica, senza sapere una parola di quella lingua, senza sapere chi combatteva contro chi, senza sapere cos’era una guerra. E quanto più ci inoltravamo nel territorio dove uno spettacolo maestoso si andava presentando ai nostri occhi, un esodo biblico in tutta la sua grandiosità e caos, ovvero migliaia e migliaia di civili in fuga con ogni mezzo, carichi oltre il credibile di masserizie, avvolti da una inverosimile nuvola di polvere, trasfigurati dalla stanchezza, tanto più la mia mente lavorava, tesseva instancabile progetti di protezione e salvezza per quella gente di cui da subito m’ero invaghito, a cui ciecamente mi votai. E quanto più in fretta andava la nostra macchina in direzione opposta a quel flusso senza fine, tanto più ero esaltato dall’immaginazione, avevo come la certezza di essere stato chiamato a una missione dove serviva solo il mio sì, la mia adesione a tempo pieno, la mia furbizia e quanto di meglio o di peggio avevo imparato nella mia strampalata vita. Non tutto mi era chiaro, né razionalmente comprensibile, ma sapevo, sentivo che tutto mi sarebbe stato rivelato, chiarito in seguito. Non ero io a creare le circostanze, queste mi attendevano, erano misteriosamente lì in attesa di me. Si era risvegliato l’idealismo e tutto il romanticismo che da bambino aveva animato il mio cuore, l’ideale cioè di fare il samaritano. Avevo la sensazione di aver ritrovato un cammino perduto, perduto per una colpevole distrazione, e di essere lì lì per rimpossessarmi della mia parte più autentica e genuina. A tal punto ne ero convinto che, una volta che fummo catturati e poi rilasciati dai serbi, mi sono proiettato a capofitto a servire la causa dei musulmani che a buona ragione ritenevo gli aggrediti, le vittime per eccellenza di quella barbarie. E’ stata questa la dinamica e il ragionamento, oppure, oppure ero precipitato senza rendermene conto in un delirio mistico?”.
Di quella intensa esperienza rimane esemplare un suo articolo apparso sul Corriere della sera in cui delineava la figura di un mercenario tedesco che combatteva per i bosniaci e che aveva tentato, ma invano, di andarsene, forse disgustato dalla brutalità della guerra. Alla fine “Heinz il mercenario” (orogonario dalla DDR) si era tirato un colpo alla testa.
In tempi più recenti Bruno aveva scritto un altro libro (purtroppo rimasto inedito, forse per un eccesso di scrupoli da parte di Bruno, nell’ultima versione stava cambiando tutti i nomi…) “dove questi “mutamenti e alchimie” che la guerra produce sulle persone sono osservati e raccontati dal suo particolare punto di vista.
“La guerra – spiegava – non solo tira fuori ciò che in peggio o in meglio sta nell’uomo e alla massima potenza, ma molto, molto di più essa produce o distrugge (…). Credo sia indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico, e per nemico si intende tutto quello che è diverso e lontano da te”.
Tra le persone che ricordava con maggior frequenza, apppunto il combattente “Heinz, un gigante alto 2 metri e passa, finito in Bosnia a fare il mercenario; eppure non è riuscito a compiere il suo sporco lavoro senza esserne sopraffatto, il male fatto si è trasformato in pentimento e vergogna e si è ucciso, ha compiuto alla lettera un precetto evangelico si potrebbe dire, alla macina ha sostituito il mitra. Motivo? Si era reso complice dell’uccisione a sangue freddo di un ragazzino disarmato e indifeso”.
Alla fine aveva voluto vedere con i suoi occhi, toccare con mano:
“Sovente i soldati di ritorno dal fronte venivano in abiti borghesi nel magazzino dove tenevo e distribuivo gli aiuti umanitari che attraverso la mia organizzazione andavano alla popolazione della cittadina dove operavo. Ascoltavo i loro discorsi e vedevo che le crudeltà, i massacri, la pulizia etnica che il mondo indignato condannava, sui quali i media versavano fiumi di inchiostro a renderli ancora più raccapriccianti e assurdi, non erano perpetrati solo dai serbi a danno dei poveri musulmani o croati aggrediti, ma anche costoro, che lamentavano d’esserne vittime, similmente le compivano e se non le stesse, di peggiori e più atroci. Ciò che i serbi avevano fatto loro, essi restituivano con gli interessi maturati. E si vantavano pure di compierle queste imprese, le raccontavano come si racconta la trama di un film appena visto o la cronaca di una partita di calcio.
Ero allibito, non potevo credere che quei ragazzi cosi apparentemente miti e simpatici, sempre pronti alla battuta, allo scherzo, un tempo contadini, operai, studenti ora soldati per necessità, bravi ragazzi tutto sommato che aiutavano le vecchie nonne a spingere le carriole piene di taniche d’acqua nelle ripide salite e quando c’era un pallone giocavano come ragazzini con i bambini, una volta al fronte si facessero crudeli e sanguinari come dai racconti, capaci di azioni simili… poteva essere vero quello di cui si vantavano?
Così, per rendermi conto se erano spacconate o fatti veri, un giorno mi presentai nella caserma di un gruppo di giovani squadristi, la jeep piena di ogni ben di Dio e offrii quel carico al comandante chiedendo, come controparte, un ragionevole favore: poter andare sulla linea da lui presieduta a dare un’occhiata (…).
La vita di trincea, gli angusti bunker densi di fumo dove l’odore del sudore e della polvere da sparo creava un eccitante lezzo di gioventù votata alla morte, mi avvolse e stravolse conquistandomi. Il mio cuore si aprì e si sciolse per quei soldati così giovani, così mal equipaggiati e malmessi eppure arditi e coraggiosi, saldati insieme da antica frequentazione, dalle avventure adolescenziali, così protesi anima e corpo, uniti e inseparabili nelle azioni. Tornai e ritornai altre volte, feci amicizia e mi legai ad alcuni, i più diretti nei sentimenti; per questi soldati provai una dolorosa ammirazione, mi sentii uno di loro, solo e perduto come loro, generoso e irresponsabile come loro, assetato di grappa e canzoni come loro. E in loro compagnia le giornate volavano via tra dettagliati racconti di terrore e morte, scherzi e lazzi goliardici, giochi di carte, partite a scacchi, lettura di giornali, bevute di grappa, canzoni e caffè, e le notti erano calme e tranquille, nei soldati c’era l’idea che quel tratto di linea fosse sicuro e inattaccabile, e come la zona era in aperta campagna, lontana da qualsiasi obiettivo, strada o presidio strategico, questa convinzione incoraggiava e giustificava. Vi furono comunque delle scaramucce, un paio di azioni di disturbo e in primavera una grossa offensiva, appoggiati da forze provenienti da altri corpi. Vi partecipai rimanendo nelle retrovie. Passai la notte precedente spiando tutto quanto emergeva dalla tenebra dalle colline circostanti battute dai canti dei grilli, notte passata con i ragazzi che si caricavano a vicenda il morale, filmai l’attesa e filmai lo scontro che avvenne all’alba nel folto di un bosco di faggi ai margini di un villaggio musulmano perduto e ripreso più volte. Provai il brivido della guerra in diretta, provai l’ansia di vedere con quale noncuranza e vaghezza quei ragazzi, sani e giovanissimi, il viso pitturato come selvaggi della Amazzonia andassero, con quel terrificante aspetto, ad affrontare i serbi di gran lunga meglio equipaggiati e superiori in armamenti, senza tenere presente gli svantaggi, calcolare gli imprevisti, gli scarsi margini di riuscita che avevano. E il frastuono delle raffiche di mitra, il fragore delle esplosioni delle granate era tale da sospendere ogni facoltà percettiva. Dimmi tu quanto mi bastava a quel punto passare dalla telecamera a imbracciare un mitra?”.
Rimane un’altra questione. Come mai un promettente, affermato attore aveva abbandonato quella carriera quando molta gente farebbe carte false per una semplice apparizione in TV?
Questa la spiegazione che mi aveva fornito all’epoca della prima intervista:
“La verità è questa: innanzitutto era lontano da me anni luce l’idea di diventare attore e questo vuol dire molto. Se non hai l’ambizione, la passione o chiamiamola vocazione per fare una certa cosa e la fai lo stesso, la fai male e stai male, se poi la fai anche bene, e io ero un discreto attore, così almeno diceva la critica di quel tempo, allora sorge dentro di te una voce implacabile e urticante che ti dice: non vedi che ti stai prostituendo? Stai imbrogliando tutti e anche te stesso, nulla di ciò che ottieni con questo mestiere è meritevole, tanto meno il guadagnato, troppo facile, i soldi che ti danno non te li meriti e così le lodi la fama e l’ ammirazione. Questo è quello che ho sentito per tutto il tempo che ho fatto l’attore conducendo una vita non autentica, dissipata e filtrata attraverso questo equivoco. Il malessere è poi cresciuto con la consapevolezza che non riuscivo ad amare assolutamente quel lavoro anche se mi dava l’occasione di vivere dentro una favola. Credo sia stato il bisogno di realtà, la voglia di crescere, di rendermi indipendente, di prendermi cura di me, di sanare vecchie ferite. Ecco, la scrittura mi ha dato questa opportunità. Sono ancora agli inizi, diciamo, agli inizi del cammino, e non è mai troppo tardi per cominciare a mettere a posto le cose, e poi meglio tardi che mai, meglio coltivare il proprio orticello che entrare in un mondo che non è il proprio, un mondo in cui si è destinati solo ad essere usati. Il mio orticello oggi è la scrittura. Con essa voglio avvicinarmi al massimo a quello che sento di essere”.
Questo estratto di parte della vita di Bruno Zanin è forzatamente parziale. Da raccontare ci sarebbero tante altre faccende. Per dirne una, il suo ruolo di accusatore nei confronti di don Gelmini in quanto molestatore seriale di ragazzini. Non certo secondo rispetto a quello più noto del giornalista Marco Salvia (autore di “Mara come me” pubblicato da Stampa Alternativa, un preciso atto d’accusa nei confronti del prelato).
Dell’ambigua personalità di don Gelmini, Bruno aveva avuto modo di farne diretta esperienza alla fine degli anni sessanta. Così l’aveva raccontata a Rete Abuso (associazione dei sopravvissuti agli abusi sessuali del clero):
“Erano i tempi in cui la Beat Generation cominciava a confrontarsi con gli Hippies, i capelloni, come ci chiamavano allora. Io ero scappato di casa e mi ritrovavo insieme agli altri ragazzi a Piazza di Spagna a Roma. Don Gelmini ai tempi si faceva chiamare “il monsignore”, e veniva a cercarci nei nostri luoghi di incontro, nei locali che erano diventati le nostre mete preferite. Ci raccontava che la Chiesa e il Vaticano erano molto vicini ai nostri ideali e che se Gesù fosse vissuto in quel tempo, sarebbe certamente stato un capellone (…). Ci portò a casa sua perchè potessimo farci una doccia. Mentre eravamo in bagno entrò e si rivelò per quello che era. Insisteva, nonostante i nostri rifiuti. Ero solo un ragazzino. Ci vergognammo moltissimo del suo atteggiamento. Era un uomo di 40 anni passati e noi dei ragazzini. E poi era un uomo di chiesa! E io, che avevo vissuto delle bruttissime esperienze, non li sopportavo proprio i tipi come lui, per questa loro doppiezza che li portava a predicare una cosa e fare, poi, l’opposto”.
Anche per questo diceva a tutti di “non mandare i figli ad Amelia (la comunità di recupero per tossicodipendenti “Incontro”, basata sulla “Cristoterapia” e conosciuta come Centro di Mulino Silla, nda) perché rischiavano di finire nell’harem di don Pierino”. Rivendicando apertamente il suo ruolo nella beffa “situazionista”, orchestrata da Luther Blisset, con cui nel gennaio 1997 venne diffusa la notizia (falsa, ma quasi “profetica” con dieci anni di anticipo) dell’arresto di don Gelmini (dal 1988 Esarca Mitrato della Chiesa cattolica greco-melkita).
E Bruno non si era tirato indietro nemmeno nel 2007, andando a deporre davanti agli investigatori della Procura di Terni nell’inchiesta giudiziariain cui ad accusare don Gelmini erano decine di ragazzi. Come da manuale, don Gelmini si scagliò allora contro le “toghe rosse” e la “lobby ebraico-radical-chic” (diventata poi, correggendo il tiro “lobby massonica-radical chic”) per quello che definiva un “complotto” ordito nei suoi confronti per “indebolire la Chiesa tutta”. Patetica, pietosamente e miseramente patetica la difesa d’ufficioportata daVittorio Messori: “Un uomo di Chiesa fa del bene e talvolta cade in tentazione? E allora? Se fosse così per don Pierino Gelmini, se ogni tanto avesse toccato qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora?”.
E allora, appunto.
Per la cronaca, nel 2008 la Procura chiese il rinvio a giudizio accordato dal gup nel giugno 2010. Tuttavia, dopo una serie di rinvii (ufficialmente per ragioni di salute), anche il presunto reato veniva a cadere con la morte del controverso personaggio (12 agosto 2014).
Degli abusi di cui si era reso responsabile il discusso sacerdote, Zanin ne aveva parlato sia con Federico Lombardi, all’epoca direttore di radio Vaticana (“mi rise in faccia”), sia con Monsignor Giovanni d’Ercole (in Bosnia per Tele Pace). Tempo sprecato, ca va sans dire.
Rendendone partecipe anche Carlo Carretto quando si era recato in pellegrinaggio – a piedi – fino alla comunità religiosa di Spello.
Ma scoprendo che ne era già a conoscenza in quanto “don Gelmini aveva infastidito sessualmente anche due ragazzini dell’Azione cattolica quando Carretto ne era presidente”. Già da tempo isolato dalla Chiesa per le sue posizioni “mi disse che l’unica possibilità era che lo denunciassero direttamente i ragazzi vittime dei suoi abusi”.
Insomma, all’epoca per la Chiesa cattolica i tempi non erano ancora abbastanza “maturi”: Del resto l’avevo sperimentato anch’io nel mio piccolo. Quando – forse ingenuamente – inoltrai la mia intervista a Zanin alla redazione del giornale diocesano con cui ho collaborato per anni (pagine degli Esteri). Mai pubblicata, nemmeno in parte.
In ogni caso (a mio parere) da gran parte delle vicende e vivissitudini intrecciate alla vita di Bruno Zanin emerge una costante. L’ostinato tentativo di suturare la ferita del seminario (mai del tutto rimarginata), ricomporre il mosaico della propria esistenza e della propria identità. Violate, “dirottate”. Avendo dovuto prendere atto che “le esperienze vissute in collegio mi avevano segnato, la mia sessualità era stata pervertita e violata…”.
Cos’altro intendeva descrivendo la sua precipitosa esistenza come “precaria e assurda, selvatica e aggressiva”?
In fondo anche per Bruno, a titolo di epitaffio, vale quando scrisse (una citazione ?) del suo alter-ego Alessandro: “Accumulò dei vizi. Ma mai rimase a lungo soggiogato a uno di questi”.
Se non una totale redenzione, sicuramente un degno riscatto.
Un pensiero finale. A Roma e a Lipari Bruno accudiva i colombi viaggiatori, in montagna le capre. Regolarmente poi gli capitava di adottare qualche bastardino randagio, i gatti provavano per lui una simpatia istintiva (ricambiata)…
Un aspetto questo della sensibilità, empatia verso gli animali che – col senno di poi – lo caratterizzava. Forse avrei dovuto approfondire. Si identificava? Compensava qualche carenza affettiva?
Avrà pensato anche lui “meglio di tanti esseri umani?”. Purtroppo ormai nessuno potrà saperlo.
Gianni Sartori
*nota uno:
“Une ou plusieurs personnes se livrant à la dérive renoncent, pour une durée plus ou moins longue, aux raisons de se déplacer et d’agir qu’elles se connaissent généralement, aux relations, aux travaux et aux loisirs qui leur sont propres, pour se laisser aller aux sollicitations du terrain et des rencontres qui y correspondent. La part de l’aléatoire est ici moins déterminante qu’on ne croit: du point de vue de la dérive, il existe un relief psychogéographique des villes, avec des courants constants, des points fixes, et des tourbillons qui rendent l’accès ou la sortie de certaines zones fort malaisés”.
(Guy Debord)