Il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa per il condannato ma in realtà diventa l’università del crimine. Come mai succede questo?
Guarda, in proposito bisogna fare un po’ di chiarezza perché, sì, è vero che il carcere o – come dice la Costituzione – la pena deve tendere alla riabilitazione del condannato, però prima dobbiamo metterei d’accordo su che cos’è la pena. Intanto la pena serve soprattutto prima di essere applicata, non dopo. Quando viene applicata vuol dire che quella sanzione, quella minaccia di cui ho parlato poco fa ha fallito il suo scopo. Se la pena dell’ergastolo viene comminata a chi commette un omicidio, ha un senso nel momento in cui viene minacciata perché si spera che con quella minaccia l’omicidio non venga commesso. Nel momento in cui l’omicidio viene commesso lo stesso, la pena, sotto il profilo della prevenzione (che è quello più importante) si è rivelata inutile.
E tuttavia deve essere applicata… perché altrimenti se non venisse applicata fallirebbe come minaccia. Bisogna applicarla perché una volta che è stata minacciata, una conseguenza necessaria è l’applicazione della pena, soprattutto perché altrimenti nelle altre occasioni non funzionerà. Almeno si sa che se anche in quel momento non ha funzionato come minaccia, però viene applicata, quindi si spera che la prossima volta, anche evidentemente con riferimento ad altri soggetti, funzioni veramente.
Questa è la vera funzione della pena, la pena ha una funzione soprattutto nel momento in cui viene minacciata, non nel momento in cui viene applicata.
La nostra Costituzione, tuttavia, ha imposto al legislatore di far sì che una volta che questa pena venga applicata perché deve essere applicata, questa pena abbia questo carattere rieducativo. Evidentemente un carattere rieducativo lo dovrebbe avere già di per sé una pena, comunque venga applicata. Perché è chiaro che quella persona, avendo subito una pena, dovrebbe avere ulteriori remore a commettere un altro reato. Di fatto però avviene, soprattutto in riferimento a coloro che delinquono per la prima volta, che il contatto che il carcere provoca – naturalmente con altri che hanno commesso dei delitti – fa sì che si affilino, anzi, le capacità di delinquere di questa persona. Qual è la ragione? La ragione è che l’amministrazione carceraria in Italia è tenuta in una situazione assolutamente precaria, nel senso che lo Stato spende per la giustizia (e anche per l’amministrazione carceraria, che rientra nell’amministrazione della giustizia) appena lo 0,8 o 0,6 per cento del bilancio statale: molto meno di quanto non dedichi alla Rai, molto meno di quanto non dedichi ad altre attività. Cioè, una percentuale infinitesimale del proprio bilancio.
Lo Stato italiano non si è mai preso veramente carico dei problemi della giustizia. Il nostro, rispetto a quello di altri paesi, è uno dei bilanci più miserevoli con riferimento ai problemi della giustizia. Non voglio scandagliare le ragioni, dico però che è così.
È chiaro che, quando si può spendere così poco, le carceri possono restare in questa situazione precaria di affollamento e di poca possibilità lì dentro, addirittura, di far scuola o di fare attività sportive o di fare cultura o di fare opera di rieducazione, di riabilitazione. È chiaro che le carceri diventano soltanto un posto dove si è privati della libertà e in più si sta assieme agli altri delinquenti, e quindi non ci si redime affatto, ma si diventa più delinquenti. Ma non sicuramente per mal volontà dei direttori delle carceri o degli istituti di sorveglianza.
Quando io vado a interrogare i detenuti nel carcere di Marsala debbo chiedere quattro sedie, siccome normalmente quando si interroga un detenuto si è almeno in quattro persone: un giudice, un segretario, l’avvocato che difende l’imputato e l’imputato. [Ebbene, ndr] nel carcere di Marsala, che è sede di tribunale, non ci sono quattro sedie a disposizione del personale, e la sedia deve essere chiesta in prestito, o qualche sgabello preso nella cella di qualche detenuto, e il detenuto deve venire nella zona interrogatori con lo sgabello sottobraccio. Questa storia va avanti da tre anni. E tu mi parli di rieducazione dei carcerati? Ma lì bisognerebbe iniziare a rieducare gli sgabellieri, che dovrebbero pensare a procurarsi uno sgabello per fare almeno un interrogatorio in modo decente. Questa è la situazione, e una scarsa, anzi punta attenzione dello Stato a questi problemi, una scarsa o quasi punta destinazione di risorse finanziarie a questi problemi.
Paolo Borsellino, 26.1.1989
[incontro con i ragazzi di un liceo di Bassano del Grappa, dal min. 41.20 – trascrizione tratta da P. BORSELLINO, Cosa nostra spiegata ai ragazzi, PaperFirst, 2019]
Falcone e Borsellino sono oramai per tutti icone di eroismo e in questo mi unisco al coro, ma la risposta di Borsellino sulla funzione della pena mi motiva a specificare che la pena come minaccia serve a poco. Una cosa è avvertire qualcuno che la corrente elettrica può causare una scossa mortale e un’altra è dire che, se ti comporti male, ti punisco. Informare e minacciare sono due modalità di comunicazione molto diverse. Quanto più l’informazione e l’avvertimento hanno il sapore della minaccia, tanto più si attivano nel soggetto spinte più o meno contorte a sfidare la minaccia stessa.
Minacciare non equivale a educare, tanto meno a ri-educare. Informare di una minaccia che incombe come risposta esterna a una violazione equivale a confermare la distanza e la diversa visione delle cose fra chi minaccia e chi viene minacciato. Il vivere in collettività, invece, richiede che fra l’autorità e la parte più civile del cittadino esista una alleanza che la minaccia in quanto tale mette in dubbio o addirittura ostacola. Ogni cittadino è un potenziale trasgressore per il solo fatto che in ognuno di noi esiste un impulso a ribellarsi all’autorità e a fare quello che ci conviene, ma la minaccia esterna, per quanto ci è dato sapere, stuzzica e fortifica la nostra arroganza, oltre a rendere più imbecille (cioè incapace di comunicare con se stesso) il ribelle che a volte sorride giocosamente e a volte digrigna i denti nei nostri sogni.
Credo che la funzione dell’educazione sia quella di favorire un dialogo costruttivo fra il cittadino e il ribelle che ci accompagnano per tutta la vita. La mia esperienza del carcere dice che le persone che commettono abusi sono poco capaci di metterli in comunicazione. Nessuno dei due, io credo, deve essere soppresso; la dialettica fra il nostro ego autocentrato e l’io aperto alla città deve essere coltivata dal soggetto e dalle istituzioni, ma bisogna ammettere che tante volte si cresce in condizioni da rendere questa comunicazione molto problematica. E quando è così, la minaccia e la funzione deterrente della pena non servono; in questi casi occorre proprio un intervento di rieducazione.
Sono ovviamente d’accordo con Borsellino quando dice che il carcere (come era ai suoi tempi e come è ancora oggi in gran parte degli istituti penitenziari italiani) non assolve a questa funzione e sono d’accordo con chi dice che il carcere deve essere usato solo come rimedio estremo per rispondere al reato, ma rimane il fatto che dove c’è un abuso manca un’educazione alla dialettica fra dottor Jeckill e mister Hyde e credo che in qualche modo questa rieducazione alla dialettica debba avere dei luoghi e delle persone competenti per occuparsene (fermo restando che non è facile e che questo è un campo dove ideologie e fanatismi scorazzano senza pudore).
La leopardiana similitudine fra infinitamente grande e infinitamente piccolo, mi spinge ad alcune pragmatiche considerazioni.
Il ruolo di genitore che ho fin qui, più o meno, egregiamente rivestito mi ha insegnato quanto segue: ( prendendo ad es. una tipica situazione familiare “se non studi ti tolgo il cellulare per un mese).
Posto che in questo microcosmo lo studio equivalga all’obiettivo finale, il cellulare rappresenti la privazione della libertà e il mese la durata effettiva di tale privazione ho imparato che:
– la minaccia della pena non serve praticamente a nulla
– la pena minacciata e poi non rigorosamente attuata serve ancora a meno (se non hai studiato e non ti tolgo il cellulare sarò da quel momento non credibile)
– durante la pena devo investire ogni energia per farti comprendere il valore dello studio, perché è così importante studiare e quali vantaggi potrai trarre per la tua vita futura.
– sempre durante la pena cercherò di accompagnarti affinché tu percepisca la privazione del cellulare come un’opportunità da cogliere pienamente.
– quando poi, dopo un mese, rientrerai in possesso finalmente del tuo telefonino io, genitore sarò sempre lì, pronto a sorreggerti in questo nuovo cammino consapevole.
Leopardi docet
Firmato
Una mamma