Quella porta che si apre

La serata inizia con alcuni volti noti fra i detenuti, che mi accolgono con un vibrante “ciao prof!”, rido, non sono prof, almeno per ora, chissà. “Ma che gelo”, rispondo – “eh sai com’è. Qui siamo al fresco” ribattono. Uno scambio di battute che mi ha fatto sorridere, sensazione di essere entrata in una comunità di cui mi sento di qualche modo di far parte, un pezzo di casa. Assurdo trovare questa sensazione da queste parti, a pensarci bene, ma tant’è. Il calore dei saluti contrasta col freddo. Il riscaldamento non funzionante, in gennaio, purtroppo, è un benvenuto che racconta di fondi mancanti e incuria. Nel novembre scorso, sempre da queste parti, ho dovuto far attenzione a non scivolare sul pavimento bagnato: acqua infiltrata per la pioggia battente. Mi sovviene un esperimento sociologico studiato ai tempi dell’università in cui era stato dimostrato che il degrado genera, ovunque, sempre maggior degrado, per una dinamica intrinseca e caratterizzante il comportamento umano. Occorre più cura, soprattutto qui dentro.

Il teatro è gremito. Mi guardo intorno. Ho l’impressione che tanti stasera entrino in carcere per la prima volta. Obiettivo centrato, sala piena. Me ne compiaccio.

Con i saluti di rito arriva potente l’invito di Aparo agli agenti di polizia penitenziaria, di mettersi in gioco ed entrare a fare parte del gruppo. Aparo, immaginazione al lavoro, che alza sempre la posta. Sarebbe bello. (Mi chiedo: non sarà forse troppo difficile proprio nel carcere e nei reparti dove lavorano?)

Iniziamo. Delitto e castigo, oggi. Penso a quel libro parcheggiato lì, sulla mia libreria, in attesa di essere letto, sorpassato da altri di cui ho sentito più urgenza. Così, arrivo a questo incontro curiosa e impreparata; aspetto impaziente di vedere questo corpo a corpo con un libro, di capire come temi, personaggi, protagonisti siano stati avvicinati, fatti propri dal gruppo.

Il più anziano riassume una trama complessa in maniera efficace. Nonostante l’accento, mi pare di poter pensare, molto bene.

Dal pomeriggio mi porto a casa due cose, una domanda e la figura di Sonja/Marisa.

 La domanda, anzitutto: il protagonista a un certo punto si chiede: “Ma io, sono come un pidocchio o sono come Napoleone?”.

Dice Nori, in sanguina ancora, riferendosi a questa domanda “e ho avuto, mi ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centodieci anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora.”

Quanto mi affascina, da sempre, sentire chi può permettersi di soppesare le parole, indugiare in una traduzione, con la responsabilità di chi intende condurre per mano senza tradire. Così affascina Nori, quando snocciola parole in una lingua che suona ostica e impronunciabile, mentre cerca di farci mettete a fuoco quell’insetto: immaginatevi una carogna, peggio, una carogna tremante, un essere spregevole – diciamocelo pure, un giovane oggi direbbe, semplicemente: una merda. Ci penso. Personalmente opto per pidocchio, quegli insopportabili parassiti che un anno fa ho combattuto per tre mesi sulla testa di mia figlia, e che non riuscivo a debellare in nessun modo. Un parassita, un essere che vive nutrendosi di sangue altrui. Che si moltiplica incontrollato, ne lasci uno libero e te ne trovi 100.

 Sono un eletto o sono un pidocchio? Se uno, come me, rifiuta categoricamente la divisione del mondo in due categorie di uomini, (pericolosissima, se è vero che Nietzsche dirà di aver trovato in chi scrive Delitto e castigo un “fratello di sangue”), tenderei a pensare che la domanda ci interroga sulla misura del nostro spessore, dell’impronta che ciascuno lascia nella società, del contributo offerto nel costruirla o viceversa nell’affossarla.

A te chi ti ha dato l’autorizzazione di uccidere? Domanda Aparo a uno che qui sembra rinchiuso da parecchio tempo. “Me la sono presa”. Certo, continua, l’ambiente era degradato e degradante. Certo, ci sono le circostanze, le attenuanti, i ma, i però, le congiunzioni avversative o le concessive. Ma in fin dei conti l’autorizzazione, ciascuno, se la prende da solo, è la risposta corale.

Il gruppo è per me da anni quel lusso – che vale la mezza giornata di ferie – in cui concedersi del tempo per ragionare. È evidente che questa dinamica, questa parabola discendente che va dal non sentirsi compreso al sentirsi legittimato a un abuso, questa altalena che trasforma un senso di impotenza in un senso di onnipotenza menefreghista non si trovi solo in chi uccide.

Penso ai colleghi che fanno quiet quitting al lavoro, a chi trova un amante. Accomunano le circostanze, e le premesse. Di chi si sente non adeguato, non sufficientemente valorizzato, non compreso, a volte addirittura in gabbia, di chi non vede all’orizzonte una progettualità possibile. Tempo fa qualcuno mi disse: se sei in una stanza e ti accorgi di sentire caldo, di solito hai sempre più di una opzione: togliere il maglione, aprire la finestra, abbassare il riscaldamento, uscire dalla stanza, ovviamente anche stare a lamentarti per il caldo, anche morire per il caldo, nel caso in cui diventasse veramente eccessivo.

Negli anni ho constatato che non sempre da soli si riesce a mettere a fuoco quanto si sta male, perché si sta male o cosa si potrebbe fare per cambiare. O non sempre si riesce ad avere, da soli, la forza o la possibilità di mettere in atto un cambiamento. Lo osservo in maniera così netta ed evidente sui miei figli… tipicamente sclerano e si urlano addosso in circostanze sbagliate di cui hanno ben poca responsabilità (ritmi della giornata costruiti male, fame, stanchezza..). Ma è una dinamica che rileggo anche su di me o su altri adulti che ho di fianco. Però, certo, l’adulto deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Sempre? Quando osservo contesti in cui il degrado è troppo iniquo mi verrebbe da interrogarmi sul grado di “responsabilità dei burattini”.

Alla me adulta suggerirei quantomeno l’importanza di sapersi fermare e trovare le giuste strategie, i giusti alleati, che ti aiutino ad aumentare di spessore e non a diminuirlo. Ecco. Quali, in questo periodo? Mentre sosto, spersa in queste derive del ragionamento, stasera, si impone la figura di Marisa, che sbaraglia tutti.

 Marisa viene chiamata in causa quando si parla del personaggio di Sonja, figura da scoprire, l’amore che tiene in equilibrio il mondo, che non giudica ma convince. Per me Sonja è Marisa, dice un detenuto. E allora Marisa Fiorani, a 84 anni, inizia a parlare con una forza così prorompente che io, che di anni ne ho la metà, penso che se arrivassi a 84 anni con la metà della sua forza ne sarei onorata.

Si presenta in maniera sintetica, Marisa: io sono una a cui hanno ammazzato la figlia. (Non si può capire però, in questa sintesi, quante ne abbia passate, quanti schiaffi abbia ricevuto, anche dalle autorità che non dovevano proprio permetterselo. Io, che in altre occasioni ho ascoltato un pochino di più della sua storia, penso che questa sintesi non le renda sufficiente ragione).

Eppure lei stasera sta alla sfida della sintesi e incanta. Quando c’è un dolore così grande, così grande, dice, ti viene voglia di piegarti in due e chiuderti su te stesso, piegare le braccia: questa sarebbe la reazione naturale. Ma io no, io ho deciso che dovevo impormi di stare dritta e aprire le braccia, amare, stare dritta e incontrare chi ha un dolore che assomiglia al mio. È con questa postura che da anni viene in carcere, con una presenza potente che non dubito possa trasformare gli animi. Questa immagine meravigliosa di chi nel dolore, nell’ingiustizia, impone a se stesso di stare a schiena dritta e a braccia spalancate credo mi interrogherà a lungo.

Francesco dice che questa serata c’è stata e ha avuto questa forma anche perché anni fa io gli ho regalato il libro “noi la farem vendetta” di Paolo Nori.

Che cosa vuol dire, vendetta, cerca di spiegare Nori a sua figlia nel finale del libro. “la punizione migliore è guardarlo e pensare La tua punizione è essere quello che sei”. Ma l’impressione, stasera, è che la “vendetta” del gruppo non si fermi qui, a illuminare una presa di coscienza di sé, con tutto il dolore che comporta. Il passo successivo, oltre a dirti “tu sei quel che sei” è prendere per mano e condurre a immaginare una progettualità, su di sé e per la società, e accompagnare nel metterla in atto.

Allora grazie al gruppo per questa serata, per avermi fatto venire voglia di leggere delitto e castigo, per avermi incuriosito su questo impronunciabile Raskolnikov e questa Sonja, prostituta sì, ma così dolce ed efficace nel suo “stare affianco”. Per aver aperto una porta sulle vostre vite, vissute senza dubbio nei loro chiaroscuri, e, soprattutto, per avermi fatto indugiare su parti luminosissime del quadro.

Grazie ai professionisti presenti e futuri (che bravi, gli studenti sul palco!) che trovano gli strumenti per umanizzare la loro professione.

Io ci credo, nella necessità di fare cultura, nella cultura come strumento insostituibile di crescita. Antonio Gramsci scriveva nel 1916, a 25 anni: «La cultura… è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri». E ogni volta che qualcuno riesce a fare cultura, aprendo una porta – sia essa quella di un libro, o quella di un carcere, quella di un incontro… ecco: trovo ci sia da festeggiare.

Delitto e Castigo

Ciascuno cresce solo se sognato

“C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,

sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato”

[Danilo Dolci]

Reparto La Chiamata

Cosa me ne faccio della mia consapevolezza?

<< Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio é discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla.
L’inferno dei viventi non é qualcosa che sarà; se ce n’é uno é quello che é già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo é rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non é inferno e farlo durare e dargli spazio>>

Calvino, Le città invisibili

 

Della serata del 16 marzo scorso, in carcere a Opera per “Lo strappo”, mi sono rimaste in mente tante piccole cose, immagini, frasi, domande, abbozzi di ragionamento.

– Gli occhi del detenuto dietro al computer e a sistemare l’audio (quando davano i croccantini al gatto, o mi dicevano che serate come queste erano importanti, o si scusavano che la tecnologia era un po’ quella che era)… a me sembravano occhi che ridevano.

Una difficoltà tecnica che mi è sembrata emblematica: Alex che doveva leggere il testo della strage di Pizzolungo non aveva abbastanza luce per leggere; il mio microfono – quando dovevo recitare le parole di una vittima – si rifiutava di funzionare. Vittime ineffabili. Erano giorni che mi chiedevo quanto fosse difficile dare voce alle vittime, lì dentro.

– Il rammarico per la domanda di un detenuto che chiedeva conto della propria detenzione. Rammarico, perchè possiamo ipotizzare non lo sapesse davvero, o non avesse in mano strumenti per capirlo, o le persone a cui chiederlo non sapeva chi fossero o non gli davano ascolto… Rammarico perchè sembrava non avere gli strumenti per cogliere che era impossibile che quella sua domanda ricevesse una risposta in quella sede. Rammarico perchè, da quel che diceva, era probabile uscisse da lì a breve, e il tono con cui parlava in quel contesto non sembrava essere quello di una persona che avesse fatto bene i conti con la propria storia.
(Eppure, possiamo prenderla sul serio, quella domanda? Ha poi avuto risposta? E la risposta è stata capita?)

– La delusione nelle spalle di quel ragazzo che quando ha chiesto al magistrato cosa lo avesse spinto a intraprendere quella carriera si è visto negare la risposta. E io che invece pensavo che quella domanda fosse azzeccata e avesse assolutamente a che fare con lo strappo e la volontà di ricucirlo, avesse a che fare con quella cosa potente che è immaginarsi grandi (e mi sono sincerata – cuore di mamma dicono – che in separata sede abbia ricevuto una risposta da Franco Roberti mentre insieme uscivano dal carcere, e almeno questa so che è una parentesi a lieto fine).

– Con riferimento alle letture iniziali, e alla parte recitata schiena contro schiena fra vittima/carnefice: e al di là del microfono, della mia performance migliorabile… ripenso che nelle ore/giorni precedenti ero molto tesa al pensiero della possibile reazione dei detenuti, almeno tanto quanto ero tesa al pensiero delle vittime presenti in sala (Che moti dell’animo mi potrò aspettare? E se la nostra interpretazione risultasse inadeguata… addirittura offensiva? E la nostra scelta dei testi come sarà giudicata? C’è chi ha parlato addirittura di arancia meccanica… quelle letture, fanno troppo male? Troppo o troppo poco? Sono servite?)

– Ambrosoli che dice di non essere cresciuto pensando di essere una vittima, di aver cercato di evitare questo alibi. E il mio pensiero va alle guide che ha incontrato sul suo cammino. Chissà se saprei essere così brava…

– Ambrosoli che fra tutto quello che poteva dire sceglie di dire che si dispiace per non aver immaginato che uno dei detenuti avesse una figlia. Di aver perso una occasione di curiosità. Accidenti.

– la domanda “cosa me ne faccio della mia colpevolezza“, che un detenuto ha rivolto alle Istituzioni. Non ero nella testa di quel detenuto, e mentre la faceva mi ero chiesta se il sottotesto – il non detto – in quella affermazione fosse la denuncia  “non ci vengono dati contesti in cui poter esprimere la nostra crescita“. Il magistrato che ha risposto “ad esempio la prevenzione al bullismo è una cosa bella per ricucire lo strappo” l’ha letta come domanda effettiva, non come domanda provocatoria. E se era una vera domanda, da un lato volevo rispondere che io ad esempio mi sono stupita/commossa quando mi hanno accennato del progetto di prevenzione al suicidio in carcere portato avanti dai detenuti, che mi è sembrata una idea bellissima, geniale, importante.
Dall’altro lato, quella domanda nella mia testa era subito diventata “cosa me ne faccio della mia consapevolezza“. E volevo rispondere: “eh, grazie. Sarebbe bello che qualcuno ci dicesse cosa dobbiamo fare da grandi“. Sarebbe tutto più semplice. Ma non è così, nemmeno per noi.
Nella cucina della vecchia casa di mia madre, lei aveva appeso un sacco di frasi e foto che le piacevano. Frasi della Bibbia, poesie, cose così. C’era anche una foto di un muro, con una scritta che recitava: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo“. E lei che era una insegnante di italiano alle medie, mi diceva “sai, perchè questa frase è importante? Il primo vero ostacolo perchè il figlio di un bracciante diventi un imprenditore o un professore universitario, o qualunque altra cosa non sono i soldi, ma è l’immaginazione. Non si immagina in quel ruolo. Non si immagina diverso”. È l’immaginazione la risorsa più potente da sviluppare. E ripenso a Juri, che fa diventare i detenuti educatori e nel farlo regala una possibilità di “immaginarsi diversi” pazzesca. E come lui molti altri.
Quindi, in quel frangente, a Opera, pensavo che la mia risposta unica possibile e forse la più seria risposta a quella domanda sarebbe pertanto una domanda: “come lo sogni, tu, il tuo futuro, facendo i conti con quella colpevolezza li? A te cosa piacerebbe fare?”.
The future is unwritten, questa cosa io la voglio pensare. Ma non in maniera stupida, lo so che non ho più la stessa vita potenziale di un bimbo di 10 anni, o che un ergastolano ha una rosa ancora più ristretta di possibilità davanti a sè… eppure gli uomini “guidano da soli la propria canoa“.  Quanto meno nei territori inesplorati del pensiero, della conoscenza, della parola, della relazione: il futuro non è già scritto.
E a me è lì a Opera era tornato in mente un libro che ho letto e riletto a mia figlia, un albo illustrato. Si chiama  “Un piccolo passo”  (Simon James, Zoolibri). Ne copio qui di seguito due pagine:

 

Io sono una fondamentalmente insicura, e se qualcuno oggi mi chiedesse come vedo il mio futuro, preferirei limitarmi ad una domanda più piccola. Hai provato a fare un passo?

– poi penso alla delusione/rabbia provata pensando a Carmelo, fra gli intervistati del documentario, che una volta uscito è tornato a spacciare, ed è di nuovo in galera. E vorrei sapere da lui, non da altri, il perchè. Quando si parla di spaccio, a me torna in mente la sig.ra Bartocci (che ha perso il marito… per due lire e quattro drogati…e che pensa che lì non si può recuperar niente), la sig.ra Fiorani (e lei che ha combattuto per anni contro la droga, e ha perso una figlia, quando ha incontrato dei ragazzi ha detto “i problemi vanno affrontati“), e poi mi viene in mente la riduzione teatrale che ho visto di Caracreatura di Pino Roveredo (e io mamma di bimbi piccoli mi chiedo come si fa a tenere i miei figli lontano da quello specchietto di allodole lì. Da quel dramma lì. Da quel disastro lì della droga e non mi so rispondere e dico che basta, basta. BASTA. Abbiamo bisogno di alleati).
Ecco. A Carmelo voglio chiedere anche quale contesto lo ha accolto una volta uscito di galera, se s’è l’è cercato lui. Era l’unico possibile? Ci sarebbero stati contesti diversi che potevano accoglierlo? E c’era un lavoro? Abbiamo bisogno di analizzare e capire bene il perchè, per sapere in che direzione lavorare.

– Poi, di tutto il lungo discorso di Lucilla,  di Libera, mi è rimasto impresso il richiamo al “vedo sento parlo“. E subito penso al mio compagno, a una dinamica che c’è spesso fra noi, lui che si arrabbia perchè non mi arrabbio abbastanza quando vedo qualcosa di sbagliato. Viviamo in una società di pavidi, mi dice. Tu – mi dice – sei troppo pavida. Io lo guardo, che si incazza in giro per la città quando vede piccoli grandi soprusi quotidiani e il più delle volte gli dico stai attento per carità che tieni famiglia, e che io ci tengo a te, in giro ci sono troppi pazzi o criminali, oppure mi innervosisco che non può sempre guardare quello che non funziona e lui mi dice ti arrabbi con la persona sbagliata. “Io ho una certa pratica del mondo. E quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi, che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù, i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà. Che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre” (Sciascia, il giorno della civetta).
E sì, mentre Lucilla parla penso che davvero i beni più importanti da conquistare alle mafie sono le persone, siamo noi.
E allora.  Uno due tre quattro cinque dieci cento passi…