Il principio di un rovesciamento

Rocco Ferrara

Da almeno due anni faccio parte di un gruppo denominato “Gruppo della Trasgressione“. Il nome è singolare, perché ha un significato opposto a ciò che facciamo. Durante gli incontri tra noi detenuti e un gruppo esterno di studenti e comuni cittadini trattiamo temi sociali come bullismo, devianza, tossicodipendenza, conflitti genitori-figli e molto altro ancora.

Mi sento fortunato di frequentare questo gruppo, che mi ha dato la possibilità di vivere il carcere da un punto di vista diverso. Coordinati dal dott. Aparo, esperto in materia di psicoterapia, gli incontri con gli studenti esterni favoriscono il confronto delle idee. I detenuti si sentono accettati e tutto questo apre un varco a un nuovo modello di detenzione, che sino a qualche tempo fa ce lo sognavamo.

L’appuntamento di oggi coinvolge i familiari dei detenuti, che affronteranno in un faccia a faccia i figli, nipoti o parenti, dei quali si vuole capire come hanno fatto a scegliere una vita rovinosa che ha danneggiato loro e coinvolto nella sofferenza anche le famiglie. Mi chiedo cosa possa venir fuori da questo confronto dentro le mura di un penitenziario dove saranno presenti anche operatori del settore, agenti e dirigenti. Direi che è il principio di un rovesciamento di un sistema di cui si è parlato tanto, ma che adesso viene attuato veramente, puntando a un recupero più energico nei confronti di soggetti che nutrono un serio desiderio del cambiamento.

 

Torna all’indice della sezione

Tirocini pre e post laurea

Chi siamo
Il Gruppo della Trasgressione comprende un’associazione e una cooperativa strettamente connesse, entrambe costituite da detenuti, ex-detenuti,  professionisti, studenti universitari e neo laureati.

Nasce dalla decennale esperienza del laboratorio coordinato dal dott. Angelo Aparo nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera e dai principi che da sempre caratterizzano tale attività: scambio fra dentro e fuori, partecipazione alla vita della comunità, lavoro su se stessi, educazione alla legalità, prevenzione di bullismo e tossicodipendenza.

 

La filosofia del gruppo
Il recupero, una reale inclusione, un effettivo superamento della sensazione di marginalità e di estraneità alle regole possono aver luogo solo se ci si sente co-protagonisti di progetti ed esperienze concrete, di attività lavorative, eventi, interazioni utili alla comunità, al suo rinnovamento, alla sua crescita.

É fondamentale che liberi cittadini, imprenditori, professionisti partecipino, insieme con le istituzioni, al recupero e alla valorizzazione di funzioni e ruoli sociali utili, non solo per gli adolescenti, ma anche per i detenuti che, lungo i percorsi della devianza, hanno perso le tracce delle responsabilità del cittadino e del piacere di esercitarle.

 

Storia e attività
Dal 1997 Il Gruppo della Trasgressione lavora sull’esperienza di chi ha commesso pesanti reati e sul sostrato affettivo che, anche nelle persone comuni, può portare a piccole violenze sugli altri e su se stessi. Punti di partenza della nostra ricerca sono l’insoddisfazione che tante volte vivono gli adolescenti nel rapporto con le proprie risorse interiori e con gli adulti, i sentimenti e gli stati d’animo che si accompagnano ai primi reati.

Da quasi 15 anni i detenuti del gruppo possono provare il Piacere della Responsabilità (è il titolo di un nostro convegno), portando il lavoro svolto su se stessi nelle scuole, con particolare attenzione per adolescenti con situazioni familiari problematiche. La collaborazione con gli istituti scolastici permette che detenuti e adolescenti divengano interlocutori critici gli uni degli altri e, allo stesso tempo, attivatori delle rispettive risorse.

Studenti e comuni cittadini possono frequentare i nostri seminari tematici, assistere a convegni, concerti e rappresentazioni teatrali, partecipare attivamente al nostro laboratorio di ricerca dentro e fuori le carceri dove operiamo.

 

La nostra missione
Studiare, progettare e lavorare con chi ha commesso reati
giova all’equilibrio sociale e protegge la salute e il bene pubblico più della separazione garantita dalle mura del carcere
.

Le nostre iniziative puntano pertanto a:

  • far sì che il reo possa interrogarsi sugli stati emotivi che hanno contribuito all’attuazione del reato e che ostacolano il suo rapporto responsabile con la società;
  • promuovere e valorizzare le risorse e le competenze dei componenti del gruppo;
  • coltivare il rapporto dell’individuo con se stesso e con la società;
  • moltiplicare situazioni in cui possa essere esercitata la responsabilità individuale e collettiva;
  • alimentare una rete di relazioni e dinamiche di gruppo atte a favorire nuovi stili di vita e una reale inclusione dell’ex detenuto.

 

La cornice teorica di riferimento
In ambito psicosociale, i due principali autori di riferimento sono Kurt Lewin e Wilfred Bion, con i loro studi sui diversi aspetti sociali e inconsci della vita collettiva e sulle dinamiche di gruppo.

Dal punto di vista psicodinamico il Gruppo della Trasgressione fa esplicito riferimento a Sigmund Freud, William Fairbairn e, soprattutto, a Donald Winnicott e ad alcuni dei suoi concetti cardine: il falso sé, l’oggetto feticcio, l’oggetto e gli spazi transizionali; il rapporto fra illusione e disillusione e i molteplici possibili sviluppi di questa dialettica nel divenire delle relazioni e nell’esercizio della creatività personale e di gruppo.

 

L’utenza
Le iniziative del Gruppo della trasgressione sono rivolte principalmente a:

  • persone che hanno commesso reati (detenuti ed ex-detenuti), in un’ottica di recupero, reinserimento e prevenzione delle recidive;
  • studenti delle scuole superiori che stanno attraversando il difficile passaggio dell’adolescenza, in un’ottica di prevenzione al bullismo e alle dipendenze da droga, alcol, gioco;
  • tirocinanti pre e post laurea.

 

Composizione dei gruppi
Ogni gruppo è composto da circa 18-25 persone di cui fanno parte detenuti, ex-detenuti, studenti universitari, professionisti e liberi cittadini. Tutti i gruppi sono coordinati dal dott. Angelo Aparo, psicoterapeuta, consulente psicologo per l’ASST Milano, ex esperto in psicologia del Ministero della Giustizia, ex docente a contratto di psicologia della devianza, che si avvale dell’aiuto di altri psicologi formatesi al Gruppo della Trasgressione nel corso degli anni.

 

Sedi e Tempi
I gruppi si tengono all’interno e all’esterno del carcere in giornate e orari fissi. Il tirocinante viene invitato a scegliere uno o più gruppi, a seguirne con costanza gli sviluppi, a prendere attivamente parte alle diverse iniziative:

  • Martedì, Via Donizetti 8/4, Milano – Sede Libera, 14:00-17:00
  • Mercoledì, Carcere di Opera, Alta Sicurezza, 9:30-12:15
  • Mercoledì, Carcere di Opera, Media Sicur., 12:30-15:15
  • Giovedì, Carcere di Bollate, 14:30-17:30 
  • Venerdì, Carcere di San Vittore, 13:00-15:30

 

Metodi, strumenti per tirocinanti e non
Per tutti i gruppi, sono strumenti di lavoro le nostre attività quotidiane:

  • confronto costante fra i componenti del gruppo, studenti e detenuti;
  • frequente presenza di ospiti (liberi professionisti, docenti universitari, artisti);
  • seminari e convegni, interni ed esterni ai due istituti carcerari, spesso con la partecipazione di professionisti di diversi ambiti disciplinari (giuristi, psicologi, medici, docenti di letteratura e di storia dell’arte, filosofi, teologi);
  • incontri con adolescenti di scuole medie inferiori e superiori volti alla prevenzione del bullismo, della tossicodipendenza, della ludopatia;
  • scritti personali che vengono poi pubblicati su trasgressione.net e su vocidalponte.it

 

Tutti i gruppi lavorano in sinergia su progetti e temi inerenti gli obiettivi sopra descritti, scelti periodicamente sulla base delle collaborazioni con professionisti ed enti esterni al gruppo (cooperative sociali, ospedali, scuole, teatri, università):

  • i progetti, che si ripetono nel corso degli anni, comprendono interventi nelle scuole, laboratori di teatro e di psicodramma, convegni, corsi della Croce Rossa Italiana, attività come la bancarella di Frutta & Cultura e il restauro;
  • i temi su cui il Gruppo della Trasgressione ha lavorato nel corso degli anni sono moltissimi, i più ricorrenti riguardano il rapporto genitori figli, il rapporto con l’autorità, la funzione della pena e della punizione, il bullismo, il rapporto vittima-carnefice e così via;
  • i temi vengono prima affrontati dai singoli gruppi (Opera, Bollate, gruppo esterno) e poi presentati nei convegni aperti ai cittadini da una selezione dei componenti dei diversi gruppi.

 

Monitoraggio da parte del tutor e linee guida per il tirocinante
Durante le attività dell’associazione, il tirocinante non è un osservatore, ma collabora costantemente con i detenuti, con i componenti anziani del gruppo e con il tutor. I tirocinanti sono tenuti a prendere visione delle nostre diverse iniziative e a scegliere quelle dove investire il proprio tempo (il teatro di Sisifo, gli incontri con le scuole, I progetti di restauro col FAI, i Corsi della Croce Rossa Italiana, la preparazione dei convegni, la parte culturale della nostra bancarella di Frutta & Cultura).

Il tirocinante è inoltre tenuto ad avere una visione dell’intera attività, a documentarne mese dopo mese l’evoluzione e a evidenziare i propri contributi alle aree di attività scelte. Il raggiungimento degli obiettivi prefissati avviene principalmente grazie a:

  • l’affiancamento al tutor nel suo lavoro, con progressiva autonomizzazione (osservatore silente, osservatore partecipante, co-conduttore);
  • i momenti cadenzati di confronto con il tutor per la programmazione delle attività e per la discussione di aspetti di particolare interesse deontologico e professionale.

In particolare il tutor, presente a tutti i gruppi in qualità di coordinatore, si accerterà che il tirocinante:

  • partecipi in modo continuativo ai gruppi preventivamente concordati;
  • stili i verbali degli incontri;
  • sviluppi proprie osservazioni scritte sul metodo di conduzione dei gruppi;
  • produca interventi e scritti personali;
  • sviluppi utili interazioni con gli altri componenti del gruppo;
  • partecipi alle attività concrete scelte in precedenza;
  • concluda la propria esperienza con una relazione finale sulle attività svolte.

Per avviare il tirocinio:

  • Alessandra Messa, ‭342 8937330‬, ‭alessandramessa9@gmail.com,
  • Gruppo della Trasgressione, trasgressione.net@gmail.com,
  • presentarsi in Via Donizetti 8/4, Milano, il martedì, ore 14:00

Torna all’indice della sezione

 

I detenuti fruttivendoli

Per gentile concessione de La Repubblica,
un articolo di Zita Dazzi del 21 giugno 2016

Secchio Bucato, 9-05-2016

Verbale dal Gruppo del Secchio Bucato
Sarah Coco

Iniziamo l’incontro riprendendo il concetto di “visione totalizzante” del tossicodipendente. Il dott. Aparo ricostruisce che il tossicodipendente attua una riduzione della complessità a poche variabili che siano compatibili con il suo panorama emotivo attuale: “…la persona tossicodipendente riduce la gamma delle sfumature della propria esperienza, ponendo al centro di ciò che accade la propria emotività contingente. Ovviamente, questo non vale solo per il tossicodipendente, pur se nel suo caso il fenomeno è accentuato dalla centralità del rapporto con la sostanza, dal fenomeno dell’astinenza e dalla progressiva riduzione di spazio, di relazioni e della gamma di emozioni che la tossicodipendenza causa: un circolo vizioso per cui il tossicodipendente rimane sempre più isolato dai propri sentimenti e dagli altri”.

Il secondo tema riguarda il rapporto operatore-utente:

  • Qual è il pensiero dell’operatore rispetto alla dipendenza da sostanze?
  • Quanto incide il suo stato d’animo nella relazione?
  • Quali sono le aspettative dell’operatore nei confronti dell’utente?
  • Come mai sembra che a volte non ci sia interesse ad avviare una relazione che aiuti la persona con una dipendenza a crescere e a instaurare un rapporto di fiducia reciproca?

Secondo il dott. Sanò, avendo il detenuto tossicodipendente diritto di usufruire delle misure alternative, è legittimo il suo interesse nel cercare di sfruttare ogni possibilità a proprio favore. L’importante è che le intenzioni siano chiare e che non ci sia una presa in giro e una manipolazione sul proprio stato di salute.

Alcuni detenuti mettono in luce che manca il tempo per stabilire un rapporto di fiducia con gli operatori e a volte percepiscono da parte di questi ultimi disinteresse nell’approfondire i loro reali problemi. Le stesse persone si chiedono se l’operatore abbia l’intento di curare oppure no e sostengono che gli operatori dovrebbero indurre il tossicodipendente a riconoscere il proprio problema nonostante le sue resistenze.

A questo riguardo, il dott. Aparo dice che “… in carcere è molto difficile realizzare le condizioni per instaurare col detenuto una comunicazione profonda; qui le persone tendono a negare gli aspetti di sé problematici. Nel contesto carcerario, d’altra parte, le norme legislative sulla tossicodipendenza coinvolgono inevitabilmente la relazione tra operatore e detenuto e la espongono a tentativi di strumentalizzazione da parte dell’utenza. Lo psicologo in tale ambito può sentirsi ora in colpa per la grande difficoltà di cercare una soluzione attendibile ai problemi del detenuto ora sconfortato per l’atteggiamento ostinatamente strumentale della maggior parte di loro“.

Per quanto riguarda la certificazione da parte del Sert, sembra che per ottenerla i detenuti tendano inizialmente ad accentuare le problematiche legate alla tossicodipendenza, mentre il problema sembra poi svanire quando non vi è più una utilità strumentale.

Ogni operatore sembra adottare un approccio personale a queste difficoltà, mentre i detenuti che si stanno impegnando sul tema sostengono che occorrerebbero momenti di condivisione con i detenuti. Secondo alcuni partecipanti, durante gli incontri del gruppo c’è la giusta atmosfera per intraprendere una seria riflessione su se stessi e per un dialogo proficuo con gli operatori (nonostante si parta da obiettivi diversi):

  • “Io credo che non sia una malattia, ma la conseguenza di una predisposizione”  Così la tossicodipendenza viene descritta da un membro del gruppo, che prosegue dicendo che è come se ci fosse “… un istinto di morte che ci spinge ad agire in un determinato modo. È necessario dunque ricostruire la mappa di sé e dei propri sentimenti, avviando una ricerca su di essi
  • I miei sentimenti di rabbia influenzavano la mia visione della realtà
  • C’è una mutilazione a livello emotivo, non possiamo accontentarci di dire che è una malattia perché non si risolve il problema prendendo una pastiglietta!”

Torna all’indice della sezione

Indagine sull’autorità

INDAGINE SULL’AUTORITÀ
Scuola media Via Aldo Moro di Buccinasco
Report di Alessandra Messa

Abbiamo programmato con questa scuola 3 incontri (16/2, 1/3, 17/3 ).
Nell’incontro con i professori abbiamo delineato come argomento principe: il concetto di Autorità, la sua fruibilità e credibilità.
Fra le domande centrali: A cosa serve l’autorità per il ragazzo?
Abbiamo pensato a un mini-percorso da seguire in questi 3 incontri:

  1. SISIFO: tutti gli aspetti problematici dell’autorità;
  2. AUTORITÀ: credibilità/fruibilità. Immagine attuale e quale può diventare (costruzione dell’identità);
  3. DA AUTORITÀ CHE CONTROLLA AD AUTORITÀ CHE SOSTIENE: autorità-guida.

 

PRIMO INCONTRO

Nel primo incontro abbiamo rappresentato il mito di Sisifo, facendo particolare attenzione ai rapporti di potere sottesi. A fine rappresentazione abbiamo iniziato il dibattito con gli studenti.

La domanda centrale posta dal dottor Aparo è stata: Come possiamo disegnare l’immagine dell’autorità di chi commette reati e quella che ne ha il ragazzino? E in che modo queste diverse immagini di autorità danno esito a vite diverse?

Ne è nato come sempre un dibattito sul tema, che ha visto interagire studenti e detenuti.

E’ stato chiesto agli studenti di fare un’analisi dei personaggi di Sisifo e del loro modo di relazionarsi al concetto di autorità.

Il personaggio rimasto più impresso fra i ragazzi è stato Asopo, considerato eccessivamente debole e sottomesso a Giove e quindi incapace di mostrare la sua autorità. Giove invece è stato riconosciuto come autoritario, ma egocentrico, incapace di ascoltare gli altri.

Ecco l’immagine che ne hanno ricavato i ragazzi:

  • Giove: folle, autoritario
  • Asopo: autorità debole e corrotta
  • Ade: autorità sottomessa
  • Thanatos: agli ordini di Giove

Dopo una breve disamina dei personaggi, è stato chiesto ai ragazzi se la loro immagine di autorità fosse sovrapponibile a quella del mito. Qual è la prima immagine dell’autorità che vi viene in mente?

Gli studenti hanno detto: vicepreside, preside, polizia e carabinieri, professori, i genitori, la forestale.

Un ragazzo: le persone che esercitano potere su qualcuno facendo rispettare le regole dalla comunità.

Anche i detenuti sono intervenuti sul tema esprimendo la loro opinione:

Rosario: I genitori dovrebbero essere la prima guida e autorità. Io però alla vostra età queste regole non le sapevo, le autorità erano solo dei nemici. A 14 anni ero già in mezzo alla strada e da lì mi sono costruito la mia gabbia per finire in carcere tutta una vita. Non avevo nessuno che mi indicasse cosa è giusto e cosa è sbagliato, avevo guide diverse.

Nicola: Ho avuto un pessimo rapporto con l’autorità; sono finito nel carcere minorile Beccaria poco dopo la vostra età. Ho squalificato fin da subito le autorità in casa, perchè con loro non c’era alcun dialogo. Senza una guida mi sono perso.

Roberto: Non ho avuto la possibilità di riconoscere una guida nei miei genitori, nemmeno da bambino e ragazzino. Se non hai in casa un punto di riferimento lo cerchi fuori, e se ti va bene sei fortunato, altrimenti può andare male come è successo a me.

Paolo: I miei genitori mi davano solo comandi. Cosi cercavo degli esempi esterni, nei film per esempio era qualche attore. Non ho mai preso in considerazione ciò che mi dicevano i miei genitori. Facevo cazzate in giro con gli amici e non riuscivo a capire l’importanza di vivere il percorso ancor più del traguardo.

Confrontando il diverso concetto di autorità espresso da detenuti e studenti, sono stati raccolti dei fogli scritti a mano. A grandi linee:

  • per i ragazzi l’autorità è: chi ti fa star bene, chi ti insegna qualcosa, chi può essere identificato come una guida;
  • per i detenuti l’autorità è: assente, impone regole, impedisce di essere se stessi

Il dottor Aparo chiede ai detenuti se ci sia stato uno spostamento nel modo di concepire l’autorità, negli ultimi 30 anni.

Mario: Non ho bei ricordi della mia infanzia, sono andato in collegio presto e non ho mai riconosciuto nessuno come autorità. Oggi invece la vedo diversamente.

Giuseppe: Tutti hanno parlato di Asopo come un di debole, ma lui è egoista. I miei genitori non parlavano con me; a 9 anni ho rubato in casa e mi hanno picchiato di santa ragione, senza però capire perché lo avessi fatto. Per me quel modello è diventato la normalità, ho fatto la stessa cosa con mia figlia, le davo soldi rubando. In carcere ho iniziato a riflettere. Ho iniziato a riconoscere la mia famiglia e ho capito di avere inconsciamente rancore verso l’autorità. Quando riconosci il rancore, riconosci i valori che avevi nascosto e inizi a ricercare il dialogo con la tua famiglia. Inizi anche a riconoscere le istituzioni.

Antonio: A 14 anni ero io la mia autorità, non credevo in nessuno. L’evoluzione c’è stata quando è nato mio figlio e l’ho lasciato a 15 mesi. Con il colloquio settimanale di due ore, in carcere, ho calcolato di averlo visto in totale 2 giorni e 8 ore in un anno. Ho iniziato ad avere il senso di colpa per aver perso tutto. L’autorità per me, oggi, significa credere in qualcuno; e ora io credo in me stesso e negli altri. L’autorità è anche crescere insieme e far crescere, come sto facendo con mio figlio.

 

SECONDO INCONTRO

Nel secondo incontro si è parlato del concetto di limite. Il resoconto della giornata è nel testo Trasgressioni e conquiste (Il lavoro sul limite è stato continuato anche con il Villoresi di Monza).

 

TERZO INCONTRO

Nel terzo e ultimo incontro abbiamo ascoltato i lavori che gli studenti avevano elaborato in classe. Ogni classe ha analizzato il concetto di autorità attraverso un’opera letteraria o un film.

  • Rapporto padre-figlio, ”Lettera al padre” di Franz Kafka
  • La ricerca della guida, il rapporto tra ragazzi e adulti,
    “I quattrocento colpi” di François Truffault
  • Guide e adolescenti. I modelli e la realtà. ”Class enemy” di Rok Bicek
  • ”Nessun uomo è un’isola” di John Donne
  • Autorità e limiti

 

Finita l’esposizione dei lavori fatti in classe, il dottor Aparo ha posto qualche domanda: A voi (detenuti), rispetto a questi ragazzi che espongono i loro lavori, cosa manca per interagire con l’autorità? Quali caratteristiche deve avere un adolescente per essere guidato al meglio?

Ivano: Da adolescente non ascoltavo, ero ribelle, sordo e cieco. Quando sono desideroso di apprendere mi sento un buon adolescente. L’autorità deve essere equilibrata, propensa all’ascolto. Si può fare qualcosa di serio solo se la si fa insieme.

Mario: Per essere un buon allievo bisogna essere disposti a credere nell’autorità. Loro sanno ascoltare, vedere le cose; io mi sto nutrendo da voi ragazzi e spero di trasmetterlo a mio figlio, quindi vi ringrazio.

Rosario: Vorrei tornare bambino per essere un’anima pura. Avrei voluto guide come voi, ragazzi.

Roberto: Da giovane mi è stata fatta abortire la possibilità di interrogarmi. Io ho iniziato a interrogarmi a 30 anni. Non abbiate paura di porre domande, perché un dovere dell’autorità è rispondere, altrimenti andrete a cercare le risposte altrove.

Massimo: Bisogna avere coscienza del futuro; io non guardavo più in là di un anno dal mio naso.

Mohamed: Da quando avevo 6 anni ho interpretato la parte del più forte, e non mi sono più liberato da questa immagine. E’ per questo che ho fatto solo reati di violenza.

Concludiamo la giornata con una frase di uno studente: Ognuno ha un odio dentro di sé. Una buona guida ti aiuta a utilizzarlo meglio di quanto possa fare da solo.

Torna all’indice della sezione

Chi ha rubato il mio quadro?

Chi ha rubato il mio quadro?
Gabriele Rossi

È come avere di fronte un quadro dipinto tutto di bianco. Un pittore direbbe che quello è l’inizio della sua opera d’arte, i colori risaltano meglio se come sfondo c’è il bianco, ma non siamo pittori e l’arte non è il nostro obiettivo.

L’autorità nella mia testa deve ancora essere dipinta, rappresentata, perché? Perché tutto quel bianco al posto di un’immagine anche poco definita? Perché riconosco possibile l’autorità nell’immagine che mi viene data da altri o dalla logica del comune sapere e non ne ho una nella mia testa, come ad esempio l’immagine del padre, di un vigile, del poliziotto di confine, del buon vecchio nonno in divisa da carabiniere? Perché io quell’immagine non ce l’ho? Chi ha rubato il mio quadro?

Sento che non mi basta riconoscerla senza davvero sentirla, in questo modo c’è, non c’è, insomma vacilla. Credo sia fondamentale avere (o riavere) il mio quadro, e a quel ladro che me l’ha portato via dico che se lo può tenere, purché a lui possa servire almeno quanto servirebbe a me ora.

Quell’immagine la voglio scolpita nelle pareti del mio cervello, accanto alla morale, ai desideri di far bene, alla voglia di riscatto e a quel sofferto e tardivo sapere che nella vita quel quadro è troppo importante.

Torna all’indice della sezione

Quell’essere un po’ ribelli

All’inizio non era tossicodipendenza, ma quell’essere un po’ ribelli
Maurizio Chianese

Con questo scritto vorrei ricercare la mia vita partendo dall’infanzia. Ho due ragioni per farlo: la prima è ricostruire e poi condividere la mia storia; la seconda è trovare delle situazioni comuni, azioni e comportamenti che ci hanno portato qui in carcere, e non oltre. Inizio partendo dall’infanzia perché, sono d’accordo con Ivan, è proprio da qui che tutto inizia: non la mia tossicodipendenza ma semplicemente quell’essere un po’ ribelli. Sono nato nel 1975, da padre italiano e da madre africana, quello che mi appresto a narrare non è un ricordo ma il racconto che mi fece mio padre un po’ di anni fa.

Quando sono nato mio padre non mi riconobbe subito, infatti da piccolo portavo il cognome di mia madre. Lei lavorava come domestica presso una famiglia benestante e la mia nascita causò dei problemi perché non poteva lavorare e contemporaneamente seguirmi. Così, s’intromisero gli assistenti sociali che, senza giri di parole, dissero a mia madre che, essendo lei straniera e ragazza madre, non poteva da sola prendersi cura di me… ma c’era la possibilità di darmi in adozione essendoci già una famiglia disposta ad adottarmi…

Fu allora che mio padre mi riconobbe come suo figlio, presi il suo cognome e con qualche difficoltà venni affidato ai nonni paterni. Avevo un paio d’anni, andai con i nonni e stetti con loro fino a 5, in questo tempo mia madre e mio padre si trasferirono a Sesto San Giovanni, dove presero in gestione un bar. Assieme agli assistenti sociali del comune riuscirono ad ottenere il mio affidamento, però non tornai a vivere con loro ma venni spedito in collegio, dove trascorsi 5 anni: uno di asilo e 4 di elementari.

Nel periodo scolastico, da settembre a giugno, stavo in collegio a Rota d’Imagna in provincia di Bergamo e l’estate a Marina di Bibbona in Toscana. Mia madre e mio padre li vedevo una volta al mese, inoltre, finito l’anno scolastico, trascorrevo una decina di giorni con loro e altrettanti quando tornavo dalla colonia estiva.

Fu in collegio il mio primo campanello d’allarme, vi erano bambini della mia età e bambini più grandi. lo trovavo più piacere a stare con i più grandi che si divertivano e facevano scherzi alle suore. Un giorno feci la mia prima marachella, il collegio si trovava in cima ad una montagna e al confine del campo di calcio c’era una vallata con una piccola fattoria. Un giorno, mentre si giocava, il pallone finì nella vallata; con la scusa di andare a prendere il pallone, raggiungemmo la fattoria dove io presi una gallina, la portai in collegio e la liberai dentro al camerone. Feci impazzire le suore che sudarono sette camicie per poterla acchiappare. Ora, in quel momento non pensai minimamente di aver commesso un reato, ma oggi mi rendo conto che ero già propenso a non rispettare le regole.

Un giorno decisi con alcuni compagni della colonia di fuggire per raggiungere il luna-park, dopo cena io e altri 4 compagni prendemmo la strada verso la spiaggia per raggiungere il luna-park. Quella sera non la dimenticherò mai, mentre noi ci divertivamo, dalla colonia era stata avvisata la polizia che aveva iniziato le nostre ricerche. Ci trovarono parecchie ore dopo, capii subito che ci avrebbero messo in punizione, difatti il direttore ci proibì di svolgere ogni attività per una settimana e ci impose di pulire la colonia sotto la guida di un educatore.

Mentre mi trovavo in collegio, i miei genitori avevano ottenuto una casa dal comune e così furono in grado di far venire i miei fratelli, figli di mia madre, in Italia. Il fatto di incontrarli fu una gioia ma, nonostante i miei lavorassero, i soldi bastavano a malapena per vestirci e mangiare. I pochi giochi che avevamo erano doni di famiglie che non li utilizzavano più. Di regali in casa, non parliamone nemmeno.

Mi ricordo che un Natale chiesi una bicicletta, mio padre mi disse che l’avrebbero portata non appena finito di costruirla. A ogni compleanno o Natale che passava io chiedevo della bicicletta e lui ogni volta rispondeva che la stavano costruendo. Un giorno l’occasione mi fece ladro, vidi una bella bici da cross fuori da un panificio, era slegata, così la presi e scappai.

Avevo fatto un furto, ne ero consapevole, ma avevo la bicicletta tanto sognata, avevo circa 12 anni ed ero contento perché finalmente avevo la bici che avevano tutti. E così iniziò la mia escalation di reati, non avendo i soldi per comprarmi le cose, iniziai a rubare e nel giro di qualche anno in compagnia ebbi il primo incontro con la droga. Era hashish, iniziai con una canna e una birra nei giardinetti sotto casa, ne fui sedotto e conquistato subito, mi piaceva e così è stato facile per me sperimentare altre droghe, arrivando alla cocaina, che all’inizio quando ancora non era un abuso, mi faceva stare bene, riuscivo più facilmente a non essere timido, a conoscere ragazze, avevo più coraggio ad affrontare dei rischi e la consumavo solo il fine settimana quando si andava per locali e discoteche.

Il bisogno di soldi aumentava e di conseguenza i furti divennero rapine. A casa dei miei tornavo di rado, li chiamavo al telefono e inventavo scuse per rimanere fuori… fino a quando ci fu il mio primo arresto. Avevo rapinato un ragazzo, ma in pochi minuti mi sono trovato circondato dai poliziotti. Arrivato in questura, avvisarono subito mio padre, avevo 16 anni quindi ormai grande abbastanza per essere processato e condannato, feci 15 giorni al centro di prima accoglienza del carcere minorile “Beccaria” e poi venni mandato a casa con la condizionale di 1 anno e 8 mesi. Oramai avevo la fedina penale sporca, il consumo della cocaina diventò abuso e la mia vita prese la strada della delinquenza.

A 17 anni conobbi Rosy, anche lei consumava la sostanza, ma il fratello era un gran lavoratore, faceva l’artigiano e montava stand nelle fiere oltre a controsoffitti e pareti in cartongesso. Mi chiese di lavorare con lui ed io accettai. Era bello girare per le fiere di tutta Italia. Nonostante fosse pesante, ci andavo volentieri e in più il consumo di droga era molto meno. Andò così per qualche anno anche se nei periodi morti qualche rapina la facevo e il consumo aumentava.

A 21 anni sono diventato padre, non per scelta, ma Rosy, a differenza di me, si è assunta le sue responsabilità. lo non ero pronto a questo. Nonostante tutto, ci sposammo qualche mese prima che nascesse Antonio e occupammo un appartamento, dopo un anno ottenemmo un contratto. La nascita di Tony doveva essere una motivazione importante per cambiare, invece si sviluppò una situazione ingestibile. Avevo tutto, lavoro, casa, ma non riuscivo a mettere la testa a posto e dopo 3 anni me ne andai. Ho lasciato Rosy e Tony, sapendo che non erano soli grazie alla sua famiglia e ho iniziato a fare danni.

Ero uomo di merda e non avevo interesse per nulla. Mio padre un giorno mi prese per strada, mi portò a casa e mi fece riprendere, dopo di che mi mise in testa che dovevo allontanarmi da Milano, mi consigliò di prendere i soldi che avevo e di raggiungere mia madre a Londra, li sarei stato lontano dalla droga e poi, con l’aiuto di mio cognato, marito di mia sorella, avrei potuto continuare il mio lavoro.

lo partii, ma il giorno dopo essere arrivato mi recai in centro, a Piccadilly Circus, un’enorme zona pedonale piena di negozi, locali, e soprattutto piena di ragazzi Italiani che bivaccano lì giorno e notte, drogandosi e spacciando soprattutto crack. Tossico sei a Milano e tossico sei a Londra, quindi mi ritrovai a fumare crack e i soldi finirono subito, così iniziai a chiederli a mia madre, che dopo un po’ si stancò e mi disse di tornare in Italia, e così feci.

Era il 2001. Dopo un anno ero di nuovo da mio padre, molto più tranquillo, avevo mollato l’alcol ma non la cocaina. Durante il giorno stavo al parco Sempione, lì faccio amicizia con Thomas un ragazzo dell’Eritrea molto intelligente ma col mio stesso vizio. Insieme ci procuravamo i soldi per la cocaina facendo furti e rapine e in qualche occasione spacciando.

Un giorno dopo una nottata di droga e alcol andammo a mangiare al McDonald, eravamo ben messi, il locale era semivuoto, solo per scherzare facemmo finta di voler portare via un contenitore di monete, ma le persone che stavano lavorando si spaventarono e senza che noi ce ne accorgessimo chiamarono la polizia. Noi eravamo seduti a mangiare, si avvicinarono 3 persone che senza identificarsi ci chiesero i documenti. Ci fu una violenta discussione, ci portarono in questura e ci riempirono di botte per poi denunciarci per aggressione a pubblico ufficiale, ci rilasciarono il giorno seguente con la notifica del processo che si tenne 15 giorni dopo, io non mi presentai e venni condannato a 9 mesi e 15 giorni in contumacia.

Per qualche anno la vita continuò così senza essere mai fermato o arrestato, e nel 2004 durante una festa in Giambellino conobbi Alessia, una bella ragazza che lavorava in un ristorante. Sapendo che da lì a poco sarebbero venuti a prendermi, non volevo assolutamente avere legami affettivi. Lo feci presente anche a lei, che nonostante tutto volle rimanermi vicina.

Arrivò il giorno fatidico e mi portarono a San Vittore. Era ottobre 2004 e con grande stupore una settimana dopo a colloquio vidi arrivare mio padre e Alessia. Con molta gioia le chiesi come aveva fatto ad avere il permesso e lei mi rispose di aver fatto l’atto di convivenza, mi è stata vicina per tutta la carcerazione.

Dopo un mese a San Vittore venni trasferito qui a Bollate e uscii in affidamento dopo 6 mesi. Andai subito a convivere con Alessia decidendo di fare il regolare, dovendoglielo dopo tutto quello che mi aveva dimostrato. Mi misi a lavorare con serietà e il fine settimana uscivamo per locali. Io mi permettevo la seratina con la sostanza, che era molto più contenuta, ma il mio grammo o 2 non me lo facevo mancare. Devo dire che, se anche la sostanza non l’avevo mai lasciata, le cose andavano bene, avevo preso la strada giusta e lei si sentiva molto appagata e sicura di me, tanto da volere un figlio. All’inizio dissi subito no, lei conosceva la storia di Tony, ma non si lasciò scoraggiare e con insistenza mi mise di fronte a come stava andando la mia vita, convincendomi che ero pronto a fare una vera famiglia.

Dopo un paio d’anni rimase incinta, durante la gravidanza passammo momenti indimenticabili e di seratine non ce n’erano più. A ottobre 2008 nasce la mia principessa, Sofia. lo lavoravo per una ditta di mozzarelle di bufala, avevo il furgoncino per le consegne, iniziavo alle 5 del mattino fino alle 13.00 e il resto della giornata la passavo con lei e la piccola.

Ogni tanto però mi concedevo una serata e fu così che una sera usai il furgone per andare a prendere un grammo. Stesi la coca sul libretto di circolazione e mi dimenticai di pulirlo. Dopo un paio di giorni venne il principale da Napoli e come sempre si mise a controllare il furgoncino, arrivato al libretto mi diede un’occhiata e mi chiese “cos’è questa polvere?” BECCATO! Disse che se avessi presentato subito le dimissioni, per come mi ero comportato fino a quel momento, avrei avuto subito la liquidazione e nessuna segnalazione, e così feci.

Mi crollò il mondo addosso, come potevo dirlo ad Alessia? Allora faccio finta di nulla, alle 5 del mattino andavo via in macchina dicendogli che il furgoncino era all’ortomercato e tornavo alle 15. Ma arriva la fine del mese e quindi devo portare lo stipendio, così pensai di fare qualche rapina. La prima andò bene, la seconda no, mi presero in flagranza di reato e patteggiai 30 mesi di condanna.

Alessia e i suoi erano neri, mio padre molto deluso e Sofia aveva appena compiuto un anno. Da qui, San Vittore e poi Saluzzo. Alessia, mio padre e i miei suoceri mi rimasero vicino, restai in carcere 2 anni, uscii gli ultimi 6 mesi in affidamento che finì a Novembre 2011.

Ero convinto che dopo tanto tempo e avendo portato a termine un percorso con il Sert, sarei stato in grado di gestire tutto, ma dopo nemmeno 6 mesi arriva la ricaduta e, senza rendermi conto, nuovamente in galera. Luglio 2012, condanna a 9 anni e tutto perso, non ho più nulla. Per 10 mesi non vedo mia figlia, sentendola solo al telefono, Alessia di me non vuole più sapere, mio padre peggiora con la sua malattia ed io sono psicologicamente distrutto.

Non mi abbatto, alzo le mani e chiedo aiuto. Inizio il percorso di cura, espongo i miei problemi e le mie paure agli psicologi del carcere dove vengo trasferito: San Vittore 10 mesi, poi arriva Opera dove, per la prima volta dopo l’arresto, vedo Sofia. Inizio a essere più tranquillo, dopo arriva il trasferimento a Pavia, dove ho la possibilità di lavorare fisso come inserviente in cucina. Mentalmente sempre più sereno e molto disposto a intraprendere il percorso di cura, ma essendo un padiglione nuovo, c’era carenza di attività come gruppi e i colloqui con gli psicologi sono molto rari.

Finalmente giungo a Bollate e qui da subito con la dott.ssa Mastrapasqua intraprendo con serietà il mio ultimo percorso, stimolato ancora di più dal fatto di vedere la mia principessa più frequentemente. Partecipo a vari gruppi del Sert compreso il gruppo della trasgressione, a questi gruppi devo molto soprattutto alle persone che li gestiscono e le persone che li frequentano. E’ grazie a loro se oggi sono qui con questo scritto.

Torna all’indice della sezione

Sulla cresta dell’onda

Sulla cresta dell’onda
Giuseppe Migliore

Ho incominciato a utilizzare sostanze stupefacenti dopo aver abbandonato gli studi e nel giro di pochi anni la mia vita è completamente cambiata…

Frequentavo una scuola superiore molto particolare, volevo fin da bambino diventare un pilota di jet, i caccia militari che volano a velocitá supersoniche e che vengono impiegati per le missioni di guerra. Questo sogno l’ho coltivato da quando ero piccolo, sapevo tutto sugli aerei e mi ero messo in testa che un giorno sarei diventato un “top-gun”! Dopo la terza media riuscii a convincere mio padre a iscrivermi all’istituto tecnico aeronautico e, a onta delle sue perplessità iniziali, gli dimostrai che facevo sul serio e che studiare era davvero la mia missione… infatti giunsi fino all’ultimo anno collezionando sempre bei voti.

Nello stesso tempo seguivo un corso di volo e conseguii il brevetto di primo grado-allievo pilota di volo… al volo mi appassionavo sempre di più e l’adrenalina cresceva a dismisura!

Purtroppo, questa storia non ha avuto un lieto fine! In quegli anni coltivavo anche la passione per le due ruote perché la velocitá delle moto mi trasmetteva la stessa adrenalina che provavo quando volavo, ma pagai a caro prezzo questa mia debolezza perché in occasione di un brutto incidente con conseguente trauma cranico ebbi per un lungo periodo disturbi neurologici che preclusero il conseguimento dei brevetti di volo successivi. L’ufficiale medico dell’aereonautica, infatti, mi sospese l’abilitazione al volo e dopo diversi esami medici di controllo mi tolse completamente l’idoneità a volare.

Quello che sembrava solo un brutto incubo divenne dunque una cruda realtà e le mie speranze di un futuro fra i cieli divennero un sogno infranto perché mai più avrei potuto volare. Lo sconforto mi assalí… di continuare gli studi e diventare “uomo di terra” non ne volevo neanche sentir parlare! Sarebbe stato come dire a un calciatore nel culmine della propria carriera di sedersi in panchina, di non essere più protagonista! Sprofondai dunque nella più completa desolazione, mi lasciai abbandonare giorno dopo giorno e, non riuscendo ad affrontare questa dura realtà, decisi di lasciare la scuola e di chiudere completamente con questo mondo, interrompendo drasticamente tutte quelle relazioni che avevo costruito nell’ambiente scolastico e nell’aereoclub che frequentavo e dove ero solito prendere le mie lezioni di volo.

I miei genitori non compresero il profondo dramma che stavo vivendo, mi dissero che avrei trovato altre sfide e che mi sarei potuto realizzare nel mondo del lavoro, visto che avevo deciso di abbandonare gli studi all’ultimo anno. In effetti, le nuove sfide non mancarono ed in meno di un anno mi trovai giá a San Vittore grazie al mio primo arresto per rapina a mano armata e le prime esperienze con la cocaina.

Passai dal paradiso all’inferno, da un mondo di sapienza ad un mondo di trasgressiva incoscienza! Avevo l’autostima sotto i piedi, mi sentivo allo sbando, il sogno di una vita infranto, un vero e proprio fallimento! Incominciai a frequentare nuove compagnie, giovani sbandati, problematici, come me d’altronde… che, per quanto potessi essere vestito ed infighettato di tutto punto, ero in balia dei venti come loro, senza più un obbiettivo nella vita e con una gran rabbia verso il mondo intero!

In poco tempi diventai il leader di questo gruppo, che di certo non era una comitiva di bravi ragazzi… di quelli da far frequentare alla propria figlia insomma, ma balordi da tenere lontano, che ben presto passarono dai furterelli nei supermercati, ai furti di motorini, di auto e a rapine vere e proprie, radicandosi sempre di più nel tessuto criminale di questa grande cittá, costantemente alla ricerca di nuove leve da inserire e da selezionare per il salto di qualità, quello nella malavita che conta.

Ben presto il giro di conoscenze si allargò, nell’ambiente incominciò a sentirsi parlare anche di noi, eravamo visti come ragazzi “svegli”, che sanno il fatto loro e parlano poco! Il mio primo arresto fu il battesimo di fuoco, entrai in carcere “camminando ad un metro da terra”, ero a dir poco lusingato di essere anche io uno di quelli che contano, di quelli che hanno fatto la galera senza parlare! Uscendo da San Vittore tutti mi rispettavano, mi cercavano, insomma stavo cavalcando l’onda del “successo” e in poco tempo incominciai a raccoglierne i primi frutti.

Uscivo con quelli più grandi, ero sempre pieno di soldi, le ragazze facevano a gara per venire in moto con me, che oltretutto ero un bravo pilota… insomma mi sentivo un uomo di successo e volevo arrivare sempre più in alto, anche perché sapevo di essere furbo e intelligente!

Mancava solo la ciliegina sulla torta, ma non tardò ad arrivare! Ben presto, infatti, cominciai ad usare anche la cocaina, non potevo esimermi dal farlo, era nel manuale del perfetto balordo e io mi ero costruito un personaggio che abbracciava tutte queste teorie. La droga girava a fiumi, non era un problema riuscire a procurarsela, tutti l’avevano in tasca, tutti ne facevano uso e anche io in poco tempo ne divenni consumatore abituale. Accresceva sempre di più il mio delirio di onnipotenza, mi trasmetteva adrenalina e soprattutto faceva gruppo, appartenenza, insomma divenne in poco tempo un valore aggiunto, tanto da non riuscire più a farne a meno. Riempiva i miei vuoti, mi trasmetteva sicurezza e mi permetteva di essere sempre sulla cresta dell’onda perché mi cercavano tutti… per “farsi”… logicamente… ma io questo non riuscivo a capirlo o meglio era tutto normale.

Sentivo finalmente di aver trovato la mia dimensione, e il forte riconoscimento da parte degli altri accresceva sempre di più la mia autostima! Presto però i miei comportamenti incominciarono a cambiare, avevo improvvisi sbalzi d’umore, non riuscivo più a controllarmi, ero diventato irascibile, aggressivo e in breve tempo naufragarono molte delle mie relazioni affettive e sentimentali!

Entrando e uscendo dal carcere, mi ripromettevo di non farmi più, ma puntualmente ci ricascavo perché non farsi voleva dire essere tagliato fuori dal giro che conta e non avere più amici con cui condividere qualcosa. Insomma, la mia vita era davvero povera di contenuti ed io, nonostante non me ne rendessi conto, ero più a pezzi di prima, anche se ostentavo sicurezza e potere, che solo i soldi riuscivano a trasmettermi. La continua ricerca di adrenalina ed emozioni aveva contribuito a sregolare completamente la mia esistenza! Passando da un eccesso all’altro, giorno dopo giorno si plasmò quel personaggio di cui diventavo sempre più vittima perché non riuscivo più a farne a meno.

Questo film è andato avanti per circa vent’anni, quel ragazzino è cresciuto ed oggi, leccandosi le ferite, sta cercando giorno dopo giorno di scrivere una trama diversa perché vorrebbe che questa storia avesse un finale non troppo scontato.

Torna all’indice della sezione

Il muro e la prateria

Carcere di Opera, 20 Aprile 2016
Asya Tedeschi

Al gruppo del mattino, il dott. Aparo dice che la cooperativa Trasgressione.net, con le sue attività imprenditoriali e con la necessità di un’efficace collaborazione fra chi lavora, permette di osservare che la serietà e l’equilibrio che i detenuti praticano in carcere o durante i nostri incontri con le scuole spesso si riduce drasticamente quando si è fuori in una situazione di minore costrizione.

In seguito viene letto uno scritto di Pasquale Fraietta sul tema della “Seconda possibilità”, dove si parla delle possibilità sprecate e di quelle mai realmente avute perché inesistenti o perché senza strumenti per riconoscerle.

Aparo lo commenta dicendo: “Quando si è in carcere l’unico modo per rendersi liberi è condividere i propri obiettivi con chi ti può aiutare, con chi si può provare a costruire; quando si mette il naso fuori, spesso si pensa di potere raggiungere l’obiettivo da soli e gli altri, che erano stati alleati, vengono vissuti come ostacoli, residui fossili di limiti anacronistici e poco funzionali.

Viene chiesto come mai per molti il senso della responsabilità, che fuori non c’era, aumenti all’interno del carcere e poi diminuisca nuovamente una volta fuori.

Aparo: in carcere l’odore della libertà è legato al piacere della progettualità, addirittura all’esercizio della responsabilità. In carcere è così difficile sentirsi liberi che l’attenzione per l’altro e la responsabilità reciproca vengono usate come strumento per la libertà (che è poi quello che viene insegnato normalmente ai bambini e che, quando non sono troppo di cattivo umore, gli adulti riescono a praticare). Quando si torna fuori, molto facilmente riprende quota il delirio che la libertà possa essere vissuta galoppando senza freni in una prateria senza confini. In presenza di condizioni motivanti, il muro del carcere ti costringe e ti permette di guardare attorno a te, invece che pervicacemente avanti; se il muro cade, non è detto che gli occhi sappiano continuare a guardare con l’equilibrio necessario quello che ci sta vicino.

Il Gruppo della Trasgressione, in conclusione degli incontri, è stato allietato dalla musica e dalla voce di Tonino Scala e dalla mirabile performance di Veronica.

Torna all’indice della sezione

La seconda chance

La seconda chance
Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

In previsione degli incontri con gli allievi del Bertarelli, abbiamo cercato di riflettere sulla cosiddetta “seconda possibilità”. In carcere si parla spesso di una “seconda chance” per chi ha sbagliato e, quando se ne parla, si fa implicitamente riferimento al fatto che la prima è stata malamente sciupata.

A tale proposito, però, va detto che forse già all’origine è mancata una “prima valida possibilità”. Un adolescente, con le sue instabilità e le sue confuse aspirazioni, non ancora padrone di un suo personale spirito critico, assorbe inconsapevolmente e combatte confusamente quanto la propria famiglia e la società gli trasmettono; in questo modo, la “prima possibilità” rimane tendenzialmente confinata dentro orizzonti ridotti, delimitati dai sentimenti di cui sopra, dai conflitti e dai modelli di soluzione più facilmente accessibili.

Si potrebbe parlare di “seconda possibilità” se tutti noi nascessimo in condizioni equivalenti, se tutti noi all’origine avessimo condizioni simili… come accade per gli atleti di una gara. Ma è così? Veniamo tutti equamente educati e sostenuti per giungere a un ruolo adulto sano e costruttivo? Da bambini, avvertiamo intorno a noi tutti allo stesso modo le attese e le attenzioni di genitori e insegnanti che ci guidano verso la realizzazione del meglio di noi stessi? Cresciamo tutti in ambienti dove ci sentiamo parte significativa della società in cui viviamo?

L’atleta che punta a superare l’asticella in gara, dopo il primo errore, ha una seconda e una terza possibilità; alla fine, a conquistare la medaglia sarà l’atleta che, dopo averle sfruttate tutte, sarà giunto più in alto. Ma la pedana e la rincorsa possibile nelle gare sportive sono uguali per tutti! E’ così nella vita?

D’altra parte, il paragone con l’atleta ci mette nella condizione di fare anche un’altra osservazione: il saltatore, se sbaglia, ha altre due possibilità per dimostrare i risultati del suo impegno e affermare il proprio valore, ma in quel caso noi tutti siamo certi che l’atleta ha come aspirazione proprio quella di superare l’asticella posta il più in alto possibile! Possiamo essere altrettanto certi che chi ha commesso dei reati volesse realmente arrampicarsi fino all’asticella più alta senza barare? Sappiamo bene che molti di noi sono passati sotto, sperando che nessuno se ne accorgesse… e questo è successo ben più di una volta.

Ma allora parlare di “seconda chance” è un inganno sia perché non tutti hanno avuto la “prima chance” sia perché non tutti l’hanno veramente cercata; con la complicazione aggiuntiva che non si sa se non la si è cercata perché non c’era, perché era troppo difficile vederla o perché la si è deliberatamente ignorata.

Come possiamo intendere il concetto di “seconda occasione” di fronte a chi, come me, ha violato le regole fin da quando aveva 12 anni e si ritrova oggi a 45 anni, con oltre metà della vita trascorsa in carcere?

Devo riconoscere che, ogni volta che violavo le regole, avevo la possibilità di farlo o non farlo… dunque non si tratta semplicemente di seconda possibilità, ma forse dell’ennesima possibilità. D’altra parte, essendo nato e cresciuto in un paesino della Calabria, fotografata dalla cronaca come terra di faide e di famiglie malavitose, quelle che mi mancavano erano le condizioni morali per percepire come e quanto fosse giusto o sbagliato perseverare nel reato.

Comportarsi e agire in modo antisociale, in assenza di una solida ossatura morale, era per me naturale e, da un certo punto in avanti, è stato quasi inevitabile.

Ovviamente la mia, non può e non vuole essere una giustificazione, tuttavia quando mi sono ritrovato in carcere a scontare una lunghissima condanna per reati gravissimi, non ho avuto l’impressione che le mie prospettive morali potessero mutare.

Oggi arrivo a pensare che, se mi fossero stati forniti gli strumenti necessari, come è accaduto negli ultimi anni col Gruppo della Trasgressione e come sta accadendo con i cambiamenti radicali che vediamo in questo periodo all’interno dell’istituto di Opera, forse non mi sarei ritrovato ancora in carcere per l’ennesimo reato grave.

Non saprò mai come sarebbe andata, ma concedetemi di dire, forse in modo provocatorio, che non aver mai avvertito da parte dell’istituzione e della società alcuna partecipazione alla punizione inflittami ha giocato non poco. La condanna era certamente legittima ma, più che una punizione, ho sentito un senso di vendetta nei miei confronti. La punizione può offrire al condannato degli stimoli positivi solo se accanto alla punizione della persona è riconoscibile il dolore di chi punisce, ovvero della società.

La pena, nella logica attuale, di sicuro ferma colui che continuerebbe a commettere reati se non venisse rinchiuso, forse ha anche qualche funzione deterrente, ma di certo non risolve i danni arrecati, non cancella la colpa, non favorisce la comprensione del male praticato né il riconoscimento del proprio senso di colpa, infine ma non meno importante, non riconosce le corresponsabilità sociali. Molte volte si parla di comportamenti delinquenziali, criminali, deliranti… ma noi sappiamo che una pianta non cresce se non in un terreno che la nutre.

In conclusione, ritengo si possa parlare seriamente di “seconda possibilità” solo quando l’individuo, con un passato e uno stile di vita deviante, abbia realmente la possibilità, nel luogo e con la pena che sconta, innanzitutto di accrescere la propria consapevolezza, di nutrirsi con i valori morali che non sentiva all’epoca dei reati, di vivere e maturare in un “terreno” (strano chiamare il luogo della pena così!) che gli offra dei riferimenti grazie ai quali sentirsi protetto ed entrare in relazione con gli altri.

In tal caso, dalle macerie del suo passato, potrà venire fuori il materiale utile per sviluppare gradualmente un nuovo modo di sentire: una seconda possibilità, quindi, collegata a un nuovo modo di guardare il mondo e se stessi, collegata soprattutto a un nuovo modo di vivere la relazione con gli altri.

Torna all’indice della sezione