Quali requisiti per un risultato utile?

Quali requisiti per un risultato utile?
Maurizio Chianese

Al gruppo si continua a discutere sulla tossicodipendenza. Quel che viene fuori ogni volta fa sorgere domande alle quali io a volte faccio fatica a rispondere. L’ultima è stata: “quali requisiti dovrebbe avere una persona tossicodipendente per uscire più facilmente da questa condizione?”

Sarebbe bello identificare un pacchetto di requisiti che una persona potrebbe fare propri per uscire con sicurezza dalla tossicodipendenza, ma sappiamo bene che, purtroppo per noi, non è così. Uscirne è difficilissimo, ma credo che per una persona tossica sia difficile già il fatto stesso di partire seriamente per un percorso di recupero. Credo che giungere a questa determinazione non è cosa che avviene improvvisamente, c’è bisogno di fermarsi a pensare, facendo i conti con il passato e con il proprio vissuto.

Io sono giunto a questa decisione non solo per essere finito qui, dove si è obbligati a fermarsi, ma anche in conseguenza di un forte trauma, che inizialmente mi ha fatto crollare, ma poi, con l’aiuto di persone competenti in materia, mi ha indotto a ragionare. Oggi sono 4 anni che ci lavoro e che mi sono imposto degli obiettivi, sto facendo i conti con il mio passato, riconoscendo sbagli e mancanze e il dolore causato alle persone a me care. Mi sono anche detto che ora devo costruirmi una nuova vita, solo quando io starò bene potrò pensare di chiedere la fiducia e il riavvicinamento delle persone a cui ho fatto del male.

Cosa sto facendo per raggiungere il mio obiettivo? In questo istituto (Bollate) ci sono molte attività che offrono un aiuto concreto per lavorare sulla propria persona, gruppi che, se presi seriamente, aiutano a riscoprire emozioni, capacità di socializzare, a responsabilizzarsi e ad avere fiducia in sé e negli altri. lo ne frequento diversi: da quello del sert di reparto, dove si tratta e si condividono esperienze di vita, al gruppo “Psicodramma“, dove si mettono in scena eventi vissuti mostrando emozioni. Essendo padre, frequento il “Gruppo genitorialità”, molto importante perché, confrontandomi con altri padri detenuti, colgo riflessioni e spunti da utilizzare nei brevi momenti che hai quando i figli ti vengono a trovare, per non fagli pesare di più la tua assenza. E poi, il “Gruppo della trasgressione“, è quasi un anno che lo frequento; descriverlo è molto complicato, è fuori dagli schemi.

Qui ho trovato persone corrette che m’invogliano sempre a fare qualcosa (come gli scritti). Piano piano, mi sto aprendo, ascolto con molta attenzione ogni cosa che viene detta, a volte per la mia ignoranza non comprendo il significato di qualche parola, ma grazie al potere che c’è nel condividere le storie riesco sempre a comprendere il succo della discussione. Ogni volta che il gruppo finisce torno in cella più convinto di aver preso la strada giusta e di avere la possibilità e la capacità di uscire da questa brutta condizione. So che il tossico in me non sparirà mai, ma è altrettanto vero che se riesco a mantenere questa testa riuscirò a tenerlo in un angolo.

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Le brioches e l’airbag

Le brioches e l’airbag
Veronica La Riccia

Cibo. Ancora cibo. Sempre cibo. Sto male. Dentro di me solo vuoto. Inesorabile vuoto. Nausea. Depressione. Lacrime scorrono sul mio viso, che non cambia espressione. Il sorriso perde all’improvviso il suo valore. Sento questo peso enorme, sulle mie spalle. Tutto troppo grande per me. Sensi di colpa sopraggiungono per ricordarmi quanto sia imperfetta. Triste. Vuota. Altre lacrime scorrono. Sembra che abbia un fiume dentro di me, che necessita spazio, un’uscita. Sento tanta stanchezza. Mi sento sola, lontana dal mondo che vivo ogni giorno, sbalzata in un universo parallelo, dove le emozioni mi travolgono lasciandomi… vuota. Mi guardo allo specchio, sono pallida, lo sguardo è spento, le occhiaie viola accentuano l’espressione malinconica. Tutto sembra senza speranza… Dov’è la via d’uscita? È tutto così buio intorno a me. La nausea aumenta. Il ribrezzo nei miei confronti anche. “Che fatica”, penso.

Questo è lo spaccato di emozioni che mi capita di vivere quando mi lascio controllare, dominare, muovere dal cibo. Arrivo a desiderare la morte piuttosto che sopportare quel dolore. Ma visto che il suicidio non è una scelta che reputo adeguata, mangio di nuovo e tutto torna ad essere più piacevole. Il mondo intorno si colora di sfumature diverse a seconda di quanti grammi di zuccheri abbia ingerito e, come il mondo, così le mie relazioni.

A volte realizzo quanto la solitudine sia la mia migliore amica: lei non mi dice “basta”, non mi chiude il pacchetto di biscotti, non mi fa notare quanto sia esagerata, non mi giudica. Sono così contenta quando arrivo a casa e sono da sola. Con lei posso riempire quel vuoto, me lo lascia fare. Anzi, con quella vocina subdola mi sussurra “mah si, mangia ancora! Che sarà mai! Da domani vedrai che sarà diverso, non lo farai più!”. Poi, all’improvviso, bum. Nero. La solitudine cambia forma, mi soffoca, mi trascina vorticosamente nell’abisso. “Non erano questi i patti!”, le dico. Ma lei stringe ancora di più, facendomi tornare al punto di partenza o addirittura più in basso. In quel momento il mio fidanzato, i miei genitori, i miei amici… li annullo. Li anniento. Io, io e ancora io. Nel bene e nel male.

Ma tutto questo, da dove ha origine?

Ci ho pensato ed è davvero difficile trovare il punto esatto in cui io abbia scelto di mettere in atto questa strategia. Ma alla mente è arrivata un’immagine: mia madre in ospedale, con l’ago nella vena che iniettava il farmaco chemioterapico. Io avevo 13 anni. Una ragazzina che fino a quel momento aveva vissuto sotto una campana di vetro, dove di pericoli non ce n’era nemmeno l’ombra. Però, quando a casa di mia nonna mia madre disse ciò che il medico aveva scoperto, andai in mille pezzi. Da quel momento mi trovai a fare i conti con la paura enorme di perdere mia mamma e con la necessità di crescere, in fretta. E allora, quì torna l’immagine dell’ospedale: lei distesa sul letto e io a mangiare brioches su brioches. I “Buondì” al cioccolato. Me lo ricordo come se fosse ieri.

A questo punto, la domanda del dott. Aparo arriva prepotente alla mente: il legame con l’oggetto-dipendenza impedisce la creazione di altri legami o protegge dal crearne?

Io credo che la risposta sia più vicina alla seconda ipotesi. Io considero questo problema come un rifugio, una base sicura, una strategia per non dipendere dagli altri. Una modalità disfunzionale per non permettere ad altri di farmi del male. Peccato che in questo modo me lo faccia da sola.

E’ come se dentro di me fossi costituita da tanti pezzettini di un puzzle che devo, in un qualche modo, tenere insieme, dargli un senso. E donare qualche pezzettino all’altro significherebbe lasciare dei buchi, perdendo così la mia identità, costruita con dolore, difficoltà e nemmeno tanto bene. E il cibo è proprio una delle colle che mi aiuta a tenere insieme questi pezzettini e trovare una colla più adatta, magari contemplando l’apertura verso l’altro, costa tanta fatica.

D’altra parte, l’esperienza vissuta a Bollate e l’aver raccolto le sensazioni che gli altri hanno avuto nei miei confronti, per un po’ mi ha fatto stare meglio. Credo che l’aver concesso a me stessa di prendere uno dei miei pezzettini e di metterlo sul tavolo abbia permesso agli altri di avvicinarsi e arricchire quel pezzettino che poi ho potuto rimettere dentro di me. Però questo discorso mi rendo conto che mi crea molta confusione, non riesco ad avere un quadro chiaro e nitido. Forse ho bisogno di qualcuno che mi guidi e che mi aiuti a districare la matassa.

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Droga e relazioni viste dall’altro

Droga e relazioni viste dall’altro
Jessica Piccinali

E’ da circa un anno che frequento il gruppo della trasgressione, esperienza che ritengo arricchente ed emotivamente forte. La sua bellezza sta nella possibilità di creare discussioni e confronti costruttivi tra persone che hanno storie di vita diverse, ma che in questa sede hanno la libertà di esprimersi secondo il loro essere, indipendentemente da ciò che hanno fatto. Sono parecchie settimane che, guidando verso casa dopo il gruppo e riflettendo su cosa “porto a casa” dai contributi di ognuno, forniti attraverso gli scritti condivisi, penso a ciò che è stata la mia esperienza e alla curiosità che, da sempre, mi contraddistingue.

Non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti, ma la mia troppa curiosità, forse insieme a un’inconsapevole ingenuità di qualche anno fa, mi hanno indirettamente portata ad un contatto con queste sostanze. Ripercorrere quegli anni non è facile per me, non con la consapevolezza di oggi, ma a volte risulta fondamentale perché riconosco di essere diventata ciò che sono, anche grazie a quelle esperienze.

Era un venerdì sera. Avevo 18 anni e, fresca di patente, andai a prendere un’amica per quattro chiacchiere insieme e, una volta finite le chiacchiere, mi accorsi che era ancora presto per tornare a casa, anche se il giorno dopo sarei dovuta andare al liceo. Perciò pensai di fare una sorpresa a quello che all’epoca era il mio fidanzato e, avendo le chiavi di casa sua, decisi di andare a trovarlo.

Ricordo come fosse ieri, io che infilo le chiavi nella toppa della porta e la apro. La scena che mi si prospettò davanti cambiò ogni cosa. Lui era lì, chinato sul tavolo, con qualche striscia di cocaina a tenergli compagnia. Non si accorse nemmeno della mia presenza, se non quando mi misi di fianco a lui e lo guardai incredula. Sento ancora i miei occhi pulsanti di rabbia e probabilmente lo gelai con lo sguardo, lessi nei suoi occhi terrore, misto a senso di colpa, insieme alla vergogna. Io provavo delusione, senso d’impotenza e ancora rabbia, tanta rabbia. Rabbia perché non sapevo nulla, perché lui giustificava la mancanza di soldi dicendo che la vita costa cara, che doveva pagare l’affitto e la spesa. Rabbia perché a 18 anni mi ritrovavo a passare i weekend a casa perché lui non poteva nemmeno pagarsi il biglietto del cinema, e mi confrontavo con le mie compagne di classe che invece cominciavano ad andare in discoteca per la prima volta. Rabbia perché mi ero sentita stupida di fronte alle sue menzogne e ingenua per non essermi mai accorta di nulla.

Era da tempo che lui mi faceva sentire inadeguata, brutta, aveva ridotto a zero la mia autostima, facendo anche crollare la mia voglia di fare ciò che le coppie normalmente fanno, tanto che i nostri weekend significavano solo una cosa per me: mangiare per tutto il fine settimana. A un certo punto avevo talmente vergogna di me stessa, da evitare persino di guardarmi allo specchio.

Aveva capito la fragilità che mi apparteneva da qualche anno, da quando i miei genitori si separarono e mio padre perse la testa per una “signora” che lo voleva tutto per sé, che aveva priorità sulle sue figlie, quel padre che chiamavo l’”uomo bancomat” solo perché, in quel momento, era totalmente anaffettivo e l’unica sua funzione di padre era quella di mantenermi economicamente.

Lo guardai di nuovo, mi voltai, e me ne andai. Nei giorni successivi lui cercò di giustificarsi, ma continuavo solo a chiedergli “Perché?”. E proprio la ricerca della risposta a quell’unica domanda che gli feci, mi spinse ad andare oltre. Mi raccontò di essere figlio di una donna eroinomane che, fin da quando lui nacque, si prostituiva per mantenere la sua dipendenza. Mi raccontò che per questo, un giorno, sua madre venne uccisa e lui venne affidato alla zia. Aveva 6 anni. Tutto ciò lo travolse, crebbe con il desiderio di vendicare sua madre, questo era l’unico pensiero che lo faceva sentire vivo. Questo causò in lui, però, un senso di protezione assoluta nei confronti delle donne in generale, che diventava possessione verso la fidanzata, che in quel caso ero io. Possessione che veniva gestita in modo subdolo. All’inizio sembrava quasi normale gelosia, “chi è quello che hai salutato?”, “chi è che ti manda i messaggi?”, eccetera, trasformatasi poi quasi in perversione: ad oggi ho capito che lui, screditandomi ai suoi occhi, ha causato il mio non sentirmi adeguata agli occhi del mondo.

E perché stavo con lui? Perché pensavo di non meritarmi nulla, pensavo che solo lui potesse volermi bene, vista la mia inadeguatezza. Passò qualche mese e mia mamma, preoccupata per la mia salute, decise di portarmi da un nutrizionista. Cominciai a perdere peso, ed il mio perdere peso creò in lui agitazione. Era come se stesse perdendo il controllo della situazione. Era come se il mio volermi bene, non gli permettesse di avermi in pugno. Stavo lentamente tornando a guardarmi allo specchio, piacendomi. A quel punto venne fuori la sua vera indole di manipolatore, non voleva che io uscissi con le mie amiche, non voleva nemmeno che andassi in gita con la scuola, mi ricattò più volte affinché io facessi ciò che lui voleva. Io mi ribellai, trovai la forza per farlo: aveva usato la mia fragilità per esercitare una forma di controllo e di potere su di me. Chiusi la relazione senza alcun tipo di rimorso. Lui impazzì. Mi chiamò per giorni interi, all’inizio risposi anche, sentendomi miriadi di insulti gratuiti. Smisi di rispondere, mi si presentò totalmente fatto davanti a casa. Ho ancora impressa quell’immagine. Svenne davanti a me, io chiamai sua zia, nonché madre adottiva, che lo venne a prendere. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

C’è voluto molto tempo per poter affrontare le ferite lasciatemi da quella relazione, ferite che erano sia fisiche a causa del mio ingente aumento di peso, sia psicologiche a causa della mia autostima distrutta. C’è voluto molto tempo anche per tornare a fidarmi di qualcuno.

Passarono diversi anni da quella relazione, anni in cui ho fatto la mia “rivoluzione” ed ho scoperto di avere una forza interiore prima sconosciuta. Mi sentivo piuttosto bene: avevo cominciato l’università, avevo nuovi amici, quelli vecchi erano sempre presenti, il mio percorso dal nutrizionista stava sortendo i suoi effetti positivi, avevo recuperato la mia autostima, insomma ero fiera di me stessa.

Frequentando il locale in cui lavorava la mia amica storica, sono entrata in contatto con una realtà che ho sempre e solo visto da lontano: vedevo strani giri, persone che andavano e venivano, continue strette di mano, gente che faceva la fila per andare in bagno… ma ben presto ho capito cosa succedeva in quel locale. Ero però sicura del mio totale disinteresse e della mia non tolleranza rispetto all’uso di sostanze, vista la mia esperienza precedente.

Una sera, stavo tranquillamente parlando con quella mia amica, quando è entrato nel locale un ragazzotto dalla faccia simpatica che, incuriosito dal discorso, si è avvicinato per chiacchierare. Fondamentalmente sapevo benissimo cosa faceva lui, ma la mia curiosità non mi ha permesso di fuggire, in un certo senso. Lui diceva di non fare più uso di cocaina da qualche mese e diceva anche che era sulla buona strada per smettere totalmente con la sostanza; io, che di cocaina nemmeno ne volevo sentire parlare, ero quindi perfetta per accompagnarlo nel tempo futuro, perché con me non avrebbe avuto la tentazione di fare QUEL passo indietro.

Così diceva. MA… a questo punto c’erano due problemi abbastanza ingombranti: il primo era che lui, oltre ad un onesto lavoro, ne aveva anche un altro, faceva soldi vendendo cocaina. Il secondo era che tutte le persone che lo circondavano avevano in qualche modo a che fare con la sostanza, soprattutto il suo migliore amico e sua sorella che avevano un livello di dipendenza decisamente grave. Inizialmente la relazione andava piuttosto bene, lui non usava la sostanza, non la aveva mai con sé in mia presenza ed era davvero convinto di voler smettere perché troppe persone a lui care si erano rovinate la vita a causa della droga.

Quando era adolescente, suo padre e suo zio vennero processati per traffico di stupefacenti e sua madre, per questo, scappò di casa con un altro uomo. A quel punto il padre divenne un eroe agli occhi dei suoi figli, tanto che gli capitava di fare festini di cocaina con loro. Di fronte ai suoi racconti, io rimanevo sempre più perplessa del modo in cui questo padre veniva giudicato come il padre migliore del mondo, questo padre che morì di infarto proprio a causa dell’uso ingente di sostanze. Cercavo di capire quale fosse il motivo per cui una persona può farsi così condizionare la vita dalla droga, capire perché quella persona non è in grado di smettere con la sostanza nel momento in cui tutto ciò che ha crolla come conseguenza della stessa. Il suo amico non si alzava dal letto, se non grazie ad una riga di prima mattina, la sorella gli rubava una busta ogni sera per chiudersi in camera a fumare e non usciva mai e di lavorare nemmeno ne parliamo! Chiaramente le relazioni familiari erano disfunzionali, sua madre sapeva tutto, ma non era in grado di aiutare i figli, o forse, e sarò cattiva, le faceva anche comodo che lui provvedesse a pagare il mutuo della casa.

Ed io ero assorbita da questa situazione, ero assorbita dalle stesse relazioni disfunzionali che erano per me così bizzarre: ero diventata una sorta di spugna a cui raccontare ogni singola cosa perché sapevano che non avrei giudicato, anzi, avrei cercato un modo per poterli aiutare. Mi sentivo la crocerossina del momento, tentavo di far in modo che le cose migliorassero (soprattutto per sua sorella a cui facevo quasi da baby-sitter nonostante i suoi 30 anni), tentavo anche di difendere la mia opinione contro tutte quelle persone affamate di cocaina che tentavano di convincermi che quello fosse l’unico modo per divertirsi davvero, proprio loro che per una busta erano disposti a fare qualsiasi cosa.

Dopo qualche mese, per motivi di studio, ho deciso di prendere casa a Milano con una mia compagna di università, perciò durante la settimana ero sempre via, tornavo solo per il weekend.. e questo divenne un problema per me, una scappatoia per lui.

A volte le telefonate erano strane, cambiava atteggiamento, modo di parlare, evitava le domande scomode ed io avevo subito capito cosa stava succedendo: quando il gatto non c’è, i topi ballano. Quando tornavo chiedevo sempre spiegazioni, ma venivo rassicurata dalle sue promesse a cui, però, non credevo fino in fondo. E le bugie, di nuovo bugie, hanno aperto nuovamente quelle ferite da cui pensavo di essere guarita.

Nel momento in cui viene meno la fiducia, si sa, le cose non vanno per il giusto verso ed era proprio così che stava andando e con la fiducia se ne andavano anche la mia comprensione e la mia sensibilità: ero diventata intollerante a qualsiasi tentativo di fingersi vittime della sostanza, ero diventata scontrosa e mal disposta nei confronti di chi cercava di farmi pena.

Un giorno eravamo ad un pranzo a casa di amici a cui hanno partecipato anche QUEGLI amici, dopo pranzo ricordo che si è alzato per andare in bagno e mi ha rivolto uno sguardo strano, come se volesse controllare che io non stessi pensando a nulla, ma io ormai conoscevo il pollo. Infatti, appena uscito dal bagno, ho notato quel famoso tic che gli veniva ogni volta che sniffava anche solo una riga. È calato il silenzio. L’ho guardato e me ne sono andata. Non avevo intenzione di fare alcuna scenata davanti a quegli ipocriti.

Lui non stava tentando di smettere perché davvero non voleva fare la fine di quelli che conosceva, lui non voleva smettere, pensava che mentirmi sarebbe stata la scelta giusta, per tenermi buona. Come se gli avessi chiesto io di non farne più uso, stava fingendo di rigare dritto per non farmi arrabbiare, come se stesse facendo un favore a me. Forse gli facevo anche un po’ comodo perché, non avendo alcun tipo di interesse nei confronti della cocaina, non avrebbe dovuto finanziare la mia dipendenza come aveva fatto con la sua ex e come stava facendo con sua sorella.

Da quel giorno lui non è più stato lo stesso ai miei occhi, era la prima volta che concretamente vedevo la sua vera natura: chi nasce rotondo non può morire quadrato, mi diceva per giustificare il suo stile di vita. Io a quel punto ha capito di essermi illusa di aver visto in lui una persona che nessun altro aveva mai visto e mi sono totalmente distaccata da quella realtà. Tutte le amicizie che aveva erano false, erano suoi amici solo perché lui era generoso, ma se avesse avuto davvero bisogno loro non sarebbero mai corsi in suo aiuto.

Ho capito che il mio desiderio di stargli accanto era vanificato ogni volta dalla cocaina, veniva prima quella roba. Prima di me, prima di tutto il resto, anche prima di lui: la droga gli ha provocato anche danni fisici, ma a lui questo non importava. Tutta la sua vita girava intorno a quello, per soldi, per dipendenza, ma anche per essere importante per qualcuno, per sentirsi voluto bene, per imitare quel padre tanto amato, per l’incapacità di tirare fuori le palle e di affrontare la vita, con i suoi pro e i suoi contro. Era più semplice rifugiarsi in quel mondo, nella disfunzionalità delle sue relazioni, nell’illusione di essere davvero una persona che conta qualcosa per gli altri solo perché hai “ciò che li fa felici”, piuttosto che rinunciare ai soldi facili e a quell’identità fasulla che si era costruito.

Da tutto questo ho preso le distanze quando ho capito che non avrei potuto fare nulla perché ero solo un ostacolo per lui, in quel momento, qualcosa che gli creava problemi nel raggiungimento immediato del suo desiderio e mi sentivo totalmente svuotata. Svuotata perché avevo impiegato tutte le mie forze per sostenerlo nella sua scelta di smettere, per poi essere presa in giro. Svuotata perché supportavo sua madre disperata per la sorella, tanto da portarmela ovunque pur di non farla stare a casa da sola altrimenti faceva ciò che non doveva fare, per poi sminuirmi dicendo che lui aveva ragione perché io volevo cambiarlo ingiustamente. Svuotata perché avevo capito di non contare poi così tanto per lui, dopo tutto quel tempo speso.

Ci siamo lasciati. Successivamente è stato arrestato per spaccio.

E quando qui al gruppo sento dire che il tossicodipendente non riconosce l’altro se non come oggetto, mi sento tirata in causa. Quando sento dire che il tossicodipendente non è in grado di mantenere relazioni sane, avverto ancora quel senso di svuotamento.

I momenti di debolezza li ho avuti anche io, momenti in cui mi sentivo inadeguata, momenti in cui la mia fragilità era talmente forte che evitavo di guardarmi per non riconoscerla, nemmeno quando mi sono sentita inutile per qualcuno, nemmeno quando ho capito che una sostanza potesse avere più importanza di me, ma il pensiero della droga non mi ha mai sfiorata e questo non perché sono wonder woman.

La forza di rialzarmi, la forza di riconoscere di avere un problema, la forza di perseverare, di aspettare prima di ricevere una gratificazione, l’ho sempre trovata nelle persone che avevo accanto e negli obiettivi che volevo raggiungere nella mia vita. E l’ho trovata anche in me stessa, perché è quando il tuo impegno viene ripagato attraverso evidenti risultati, e questi risultati sono solo frutto della tua perseveranza, che ti senti piena di orgoglio per te stessa.

È vero che cambiare i modelli disfunzionali con cui una persona è cresciuta credendoli giusti, non è facile, ma è soprattutto doloroso. È anche vero che il contesto gioca un ruolo fondamentale nelle decisioni che il soggetto compie e nelle scelte che compie nei confronti della guida. Bisognerebbe fare in modo di riconoscere l’altro che ci sta di fronte non come oggetto, l’altro su cui possiamo investire per costruire quella guida positiva che, comprendendo le nostre fragilità, ci aiuti a costituire quel senso d’identità smarrito o mai trovato. Quell’identità che ci permette di riconoscerci tra gli altri, dando a ciascuno la consapevolezza che è la relazione con l’altro che rende l’essere umano straordinario.

 

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Dignità e bellezza

Dignità e bellezza
Simona Michelon

Leggendo gli appunti dell’incontro del 7 aprile, mi vengono in mente due parole: dignità e bellezza. Essere portatore di “dignità” significa curarsi di sé, tanto da non mettersi mai nelle condizioni di non rispettare se stessi e quindi gli altri.

La dignità si respira o non si respira. I genitori sono custodi unici e insostituibili della dignità dei figli. La dignità passa attraverso lo sguardo libero e attento, passa attraverso le regole offerte e condivise, regole che contengono, proteggono e limitano, mi viene quasi da dire regole che amano.

Tutti concordano sul fatto che dire NO all’adolescente che cresce e crea tensioni per misurare i suoi limiti è un dovere dell’educatore genitore e non.

Anche noi insegnanti abbiamo un ruolo, benché minore, nella costruzione della dignità di una persona-studente: un metodo coerente e accogliente è già un buon percorso da battere; all’interno di un binario rassicurante l’alunno si può muovere serenamente e poter misurare le proprie potenzialità e/o fallimenti; oppure per esempio un’autorevole descrizione dei criteri di valutazione di un modulo o di un argomento trattato è un momento in cui si possono passare regole, spiegando il significato che l’insegnante vede all’interno della richiesta e comunicando così cosa ci si aspetta da un alunno, spingendolo a dare il suo meglio e poter godere di una valutazione “dignitosa”.

La peggior cosa che possa accaderci, dico come insegnanti, è che qualche ragazzo dica di noi che non c’è nulla che può farci cambiare idea su di lui, del tipo “non c’è speranza, non cambierà mai parere su di me”. Chi fatica a raggiungere dignità a casa deve poter provare a scuola e noi dobbiamo concedere terreno fertile perché ciò avvenga.

La seconda parola è la motivazione, che dobbiamo dare, offrire a tutti: la bellezza. Chi conosce la bellezza del mondo, che ne so della natura o della musica o di un libro, quella bellezza che rapisce e ci porta lontano ma dentro noi stessi e che ci fa dire “voglio questo” non cadrà facilmente in meccanismi regressivi, benché seduttivi.

A casa, a scuola, ovunque dobbiamo essere portatori di bellezza. A volte basta poco per rapire l’attenzione di un ragazzo e trascinarlo al di qua verso il bello. Chi non conosce la bellezza non riesce a desiderarla, s’imbruttisce, non la vede, si chiude e poi finisce per soffrire di una sofferenza profonda, buia che non lascia agganci alla salvezza. Credo funzioni un po’ così.

Penso sempre a me in classe, quando provo a raccontare un passaggio di economia che mi entusiasma, una questione che a mia volta mi aveva rapita quando ero studentessa. Sono lì e spero che accada anche a loro che ascoltano e pensano a ciò che diciamo. Mi è capitato oggi in classe, in uno di questi momenti di vedere Gabriele un po’ perso nei suoi pensieri. Mi sono fermata e mi è venuto di dirgli “ dove sei?” poi un cenno suo e poi io “stai con noi!”. Dobbiamo sempre provare a lanciare tentativi di condivisione di pathos.

Io credo che la “guida” di cui parlavamo debba far respirare dignità almeno a giorni alterni e vedere la bellezza almeno nei weekend. Penso anche che la fragilità è di tutti, tutti si scontrano con una fragilità prima o poi. Credo che la fragilità non sia gestibile se la persona non riconosce il suo valore a priori, la sua dignità intima, e se gli occhiali appannati dalla bruttezza impediscono di vedere il bello.

Ecco quindi che diventa importante investire in progetti di rieducazione nelle carceri che mostrino ai detenuti la loro autentica dignità che va oltre il “commesso” e la bellezza che si deve recuperare, unica dipendenza ammessa. Ecco che diventa importante ragionarci insieme, contaminarci, per poter capire bene e prevenire.

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Volti e voci

Volti e voci, parole e silenzi per aprire gli occhi
Una giornata al carcere di Bollate con il Gruppo della Trasgressione
Gli studenti del Pietro Verri di Busto Arsizio.
Coordinamento di Patrizia Canavesi

Il 7 aprile le classi 5B, 5S e 5V si sono recate al carcere di Bollate. Noi studenti immaginavamo il carcere come una struttura grigia e spoglia, con detenuti in divisa, invece siamo stati accolti in un ambiente colorato con scritte e dipinti, con detenuti vestiti come noi e così, l’ansia e i pregiudizi si sono stemperati. Nel corso della visita al carcere, abbiamo potuto vedere i luoghi dove alcuni detenuti svolgono attività: la serra, i box con i cavalli, il teatro dove i carcerati fanno un’importante preparazione psicofisica e loro stessi diventano attori e poi la lavorazione del vetro, il laboratorio di musica e di arte da cui escono veri capolavori.

Durante la visita la guida ci ha anche mostrato lo spazio in cui i detenuti passano l’ ”ora d’aria”, un’enorme gabbia di cemento che, per risultare meno opprimente, è stata decorata sui muri col disegno di un grande pentagramma, con delle note vuote, completate da frasi belle e profonde.

Lo stabile non accoglie solo detenuti di sesso maschile, ma una piccola ala della struttura è riservata a un centinaio di donne, che vivono con un carico di tensione maggiore rispetto agli uomini la detenzione.

Finita la visita ci siamo riuniti con il Gruppo della Trasgressione guidato dal Dott. Angelo Aparo, tutti in cerchio, mischiati, studenti, detenuti, docenti e universitari.

E’ giusto che i soldi dello Stato vengano spesi per dei carcerati?”…

Così si è aperto il dibattito e un detenuto ha subito risposto sottolineando che la stessa Costituzione italiana dice che il carcerato deve avere un giusto trattamento, in vista poi di un più “facile” reinserimento sociale. Maurizio, uno dei detenuti, ha letto un suo testo che ha colpito molti di noi; non è l’unico che scrive, perché, in questo gruppo scrivere aiuta a pensare, riflettere, tenere impegnata la testa!

Si è parlato di una caratteristica in cui spesso si riconoscono i detenuti: LA FRAGILITA’. Per compensare questa fragilità, vissuta come limite, vergogna e debolezza, manifestavano prepotenza e arroganza nei confronti di chi era più debole di loro. “Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata” Schiacciare la fragilità dell’altro ti fa sentire forte e onnipotente, anche se, in realtà sei solo pre_potente

Rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva è decisamente più bassa: si parla del 17% contro il 67% degli altri penitenziari italiani. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Molti di noi, avrebbero voluto conoscere il passato e il cambiamento dei detenuti, per sapere cosa è migliorato in loro. In questo modo avremmo anche saputo perché si trovano lì, ma forse molti di noi non si sarebbero voluti fermare a parlare con loro perché non avrebbero accettato di condividere dei momenti con chi ha ucciso, stuprato….

L’esperienza è stata comunque positiva per aiutarci a riflettere: la brutta strada porta solo in un brutto posto e all’interno del carcere si può anche non pentirsi e rimanere convinti che ciò che si è fatto è stata la cosa giusta. Alcuni pensano che tenerci nascosto il motivo della loro condanna sia stata una scelta meschina, altri credono che, al contrario, non sia stato fatto perché forse i detenuti non si sentono ancora pronti a confessarsi e si vergognano ancora, oppure per non far scaturire in noi troppi pregiudizi.

L’esperienza è stata forte: chi pensa ‘voglio diventare volontario del carcere’, chi curiosa nei siti, chi dice mai cadrò nella trappola delle tossicodipendenze e nel ‘Virus delle gioie corte’, chi non ha tutta questa sicurezza.

Insomma in classe c’è fermento, si parla, si discute… Abbiamo bisogno anche di questo per crescere. Intanto qualcuno andrà allo spettacolo “ PSYCHOPATIA SINPATHICA” che verrà messo in scena dagli stessi detenuti giovedì 21 aprile alle 21:00.

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Restauro e recupero

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Progetto: Restauro e Recupero
Proponente: Cooperativa Sociale Trasgressione.net
Indirizzo: Via dei Crollalanza 11 – 20143 Milano
Presidente: Angelo Aparo
Responsabile Progetto: Vittorina Bertuolo
Data inizio progetto: Gennaio 2013

 

OBIETTIVI DELL’INIZIATIVA E CAMPI D’INTERVENTO

Formare, attraverso un breve percorso di studio teorico e, soprattutto, attraverso l’esperienza sul campo, un gruppo di persone eterogeneo, detenuti e non, in grado di operare a vari livelli nell’ambito del restauro. In questo modo le conoscenze e le competenze della squadra di lavoro aumentano e si integrano giorno per giorno, mentre vengono applicate sul campo e mentre si impara a riconoscere il valore di beni abbandonati, a recuperarli dal degrado e a proteggerli.

Data la vastità e complessità del campo in cui si vuole operare, si ritiene opportuno circoscrivere l’ambito d’intervento agli edifici storici e, più precisamente, al recupero degli intonaci, del materiale lapideo e dei metalli.

Lavorare al recupero è, sul piano simbolico e fattuale, l’attività che meglio si sposa con gli obiettivi del Gruppo della Trasgressione: scrostare, recuperare, riattivare risorse e funzioni coincide infatti con i nostri obiettivi primari, a maggior ragione se tali interventi promuovono la collaborazione e il reciproco riconoscimento fra cittadini di diversa provenienza; implementano le competenze del gruppo di lavoro in campo storico e artistico, oltre che sotto il profilo tecnico.

 

FASI PROPEDEUTICHE E OPERATIVE

Le squadre di lavoro vengono formate all’interno degli istituti penitenziari. Con immagini e brevi filmati, sono presentati in carcere i vari tipi di intervento, i materiali, le modalità di applicazione, ecc.

La formazione vera e propria, tuttavia, avviene sia sul piano pratico che teorico soprattutto con l’esperienza in cantiere.

Condizione fondamentale per la riuscita del progetto è l’acquisizione dei cantieri che, inevitabilmente, passa attraverso l’appoggio delle istituzioni e degli alleati del gruppo.

 

PRIMI RISULTATI

A distanza di tre anni dall’avvio, ecco i primi risultati tangibili del laboratorio di restauro. Accanto a questi, pur se più difficili da quantificare, vanno conteggiati benefici in termini di formazione professionale e umana maturati dai detenuti che hanno preso parte all’iniziativa nonché la ricaduta di tale maturazione sui loro figli e sulla società in generale.

 

 


 

 


 

 

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Gioco e Realtà

Corso Croce Rossa, 2° Edizione, 3° giornata
Angelo Aparo

Sembra che Vittorio Fioravanti, Gemma Ristori e Noemi Ottaviani stiano giocando e forse stanno proprio giocando. Il problema serio è che non abbiamo ancora capito se, ed eventualmente come, sia possibile passare dallo status di protagonista di reati e di degrado personale a quello di comprimario di progetti compatibili con la collettività. Forse occorrono delle cellule staminali che possano ricostruire l’intelaiatura morale ed emotiva del soggetto. In ogni caso, a me sembra proprio che bisogna tornare all’età in cui si giocava ad dottore e all’infermiera.

Per questa ragione le proviamo tutte. Donald Winnicott, un autore al quale devo buona parte degli occhiali con cui mi guardo attorno,  non ha mica scritto per niente il suo “Gioco e realtà“!

Un sentitissimo grazie alla Croce Rossa, al dott. Vittorio Fioravanti e a tutto il Rotary Duomo per essersi fatti alleati di questo progetto, in collaborazione col P.R.A.P. della Lombardia e col Gruppo della Trasgressione.

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Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

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La scelta della scopa e quella del pacco

La scelta della scopa e quella del pacco
Giampaolo Monaco

Sono il terzo di sei figli, cresciuto con la nonna materna sino all’età di otto anni; questo perché mio padre è stato un delinquente. Poi, quando aveva compiuto i quarantacinque anni, diede un taglio netto a quella vita che da sempre conosceva. Iniziò a lavorare come operatore ecologico e allora, non solo gli amici si meravigliarono per la fine che secondo loro aveva fatto, ma sua madre stessa si vergognava di vedere suo figlio che puliva le strade. Un giorno arrivò a dirgli di lasciare quel lavoro e di non portare più il disonore a casa e che alla sua morte gli avrebbe assicurato l’eredità. Mio padre non solo non diede retta a quello che sua madre gli disse, ma dichiarò che l’onore lo aveva raggiunto prendendo una semplice scopa in mano per ripulire la città.

Questo radicale cambiamento di vita, portò mio Padre a pensare che, dopo otto anni da mia nonna, fosse anche ora che io iniziassi a vivere in casa sua con il resto della famiglia. Vi dico con molta onestà che, quando mi portò via da mia nonna e mi mise a vivere in un posto che non aveva affatto il calore di una famiglia, iniziai a odiare mio padre sia perché non mi aveva lasciato dalla nonna sia perché non capivo quell’arbitrio di riappropriarsi di me come se fossi stato un pacco.

Il risultato fu che io facevo tutto il contrario di quello che lui imponeva. Iniziai a scappare da casa e a stare anche giorni senza dare mie notizie, sino a quando la polizia o i carabinieri riuscivano a trovarmi. Per procedura, essendo io minorenne, chiamavano i miei genitori per darmi in affido. Già da quando avevo circa undici anni, i reati erano all’ordine del giorno, spinelli, alcool erano la ciliegina sulla torta.

Mi ritrovai, senza avere la cognizione di cosa significasse, eroinomane a tredici anni. Ancora non lo sapevo ma decisi di ammalarmi! Evidentemente (ipotizzo ancora oggi), non riuscendo ad affrontare mio Padre e a dirgli quello che pensavo di lui, sfogavo la mia rabbia in questo modo assurdo, convinto di fargliela pagare per quello che mi aveva fatto. Quando iniziai a capire, pur essendo ancora minorenne, mi resi conto di quanto fosse sbagliata la mia scelta e quanto ormai quella malattia si imponesse sempre di più su di me. Mi rendevo conto che negli anni erano cambiate tante cose, mi sentivo privo di forza sia fisica che psicologica, mi guardavo allo specchio e mi sentivo invecchiato, non avendo nemmeno vent’anni.

Abbiamo parlato del conflitto. Voglio raccontare quello che ho vissuto io. Ricordo che, i miei genitori mi portarono, facendo tanti sacrifici (mio padre si fece anticipare parte della pensione) al San Raffaele di Milano, per una nuova terapia di disintossicazione. Quello fu il mio primo conflitto: ero obbligato ad andare e a dire che volevo, ma dentro di me non volevo disintossicarmi, tant’è vero che, come già sapevo, fu un fallimento.

Dopo anni di terapie con metadone, farmaci, e diversi ricoveri, decisi finalmente di risalire dalle sabbie mobili. Con tutta la convinzione e la fermezza di questo mondo, mi chiusi a casa per ben quattro mesi, scalando giorno dopo giorno il metadone, arrivai a scalare anche tutti i farmaci che assumevo per stare calmo, (Roipnol, Darchene, Catapresan ecc.). Tutto questo avveniva paradossalmente a casa mia, avevo capito che mio padre non si era mai posto il problema se suo figlio potesse soffrire così tanto la separazione dalla nonna. Questa sua mentalità, sono sicuro che fosse dovuta all’ignoranza e alla vita che aveva condotto. Mio padre anche oggi a settantasei anni è un uomo tutto di un pezzo e non incline a fare come dicono gli altri, ma con assoluta certezza posso dire che ha sempre amato la sua famiglia e per la famiglia darebbe la vita.

Per esperienza e senza presunzione, posso dire che nella fase della tossicodipendenza non hai nessun potere, o semmai puoi solo illuderti di averlo. Il vero potere, e questo lo posso dire solo oggi, è quello che ha avuto mio padre, ossia abbandonare il senso di onnipotenza, e crescere sei figli con il più umile dei lavori, ma con onore.

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In ritiro nel disordine

In ritiro nel disordine
Claudio Marotto

Sono figlio di emigranti, i miei genitori lavoravano in Svizzera per poter dare a me e ai miei fratelli un avvenire. Purtroppo mio padre era dedito all’alcol, questione per la quale il compito di educare e di accompagnare i figli era totalmente delegato a mia madre; a scuola e alle manifestazioni sportive era sempre mia madre ad essere presente.

Il rapporto con mio padre, già conflittuale, si complicò ulteriormente a seguito della mia decisione di ritirarmi dagli studi. Iniziai a lavorare come commesso e quasi nel contempo a usare la sostanza. Da lì, una vita sregolata tra feste ed eccessi, con l’inevitabile conclusione dell’arresto per spaccio.

Dopo una lunga trafila di reati arresti e scarcerazioni e sempre vivendo all’insegna del disordine totale, in questo marasma che era la mia vita ho fatto due figli, che adoro e che non vedo da due anni per problemi di compatibilità con la mia ex compagna, che peraltro ha trascorsi con la sostanza come me.

Io penso che la tossicodipendenza sia una malattia di cui ognuno sceglie di ammalarsi, inconsapevole del degrado e del disastro cui si andrà incontro, una malattia che può risolversi solo attraverso un’analisi del proprio vissuto e con l’aiuto di tutti coloro che vogliono aiutare. Non so esattamente cosa bisogna fare, ma so per certo che è necessario provare, provare e ancora provare ed è quello che io sto provando a fare.

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