Gioco e Realtà

Corso Croce Rossa, 2° Edizione, 3° giornata
Angelo Aparo

Sembra che Vittorio Fioravanti, Gemma Ristori e Noemi Ottaviani stiano giocando e forse stanno proprio giocando. Il problema serio è che non abbiamo ancora capito se, ed eventualmente come, sia possibile passare dallo status di protagonista di reati e di degrado personale a quello di comprimario di progetti compatibili con la collettività. Forse occorrono delle cellule staminali che possano ricostruire l’intelaiatura morale ed emotiva del soggetto. In ogni caso, a me sembra proprio che bisogna tornare all’età in cui si giocava ad dottore e all’infermiera.

Per questa ragione le proviamo tutte. Donald Winnicott, un autore al quale devo buona parte degli occhiali con cui mi guardo attorno,  non ha mica scritto per niente il suo “Gioco e realtà“!

Un sentitissimo grazie alla Croce Rossa, al dott. Vittorio Fioravanti e a tutto il Rotary Duomo per essersi fatti alleati di questo progetto, in collaborazione col P.R.A.P. della Lombardia e col Gruppo della Trasgressione.

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Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

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La scelta della scopa e quella del pacco

La scelta della scopa e quella del pacco
Giampaolo Monaco

Sono il terzo di sei figli, cresciuto con la nonna materna sino all’età di otto anni; questo perché mio padre è stato un delinquente. Poi, quando aveva compiuto i quarantacinque anni, diede un taglio netto a quella vita che da sempre conosceva. Iniziò a lavorare come operatore ecologico e allora, non solo gli amici si meravigliarono per la fine che secondo loro aveva fatto, ma sua madre stessa si vergognava di vedere suo figlio che puliva le strade. Un giorno arrivò a dirgli di lasciare quel lavoro e di non portare più il disonore a casa e che alla sua morte gli avrebbe assicurato l’eredità. Mio padre non solo non diede retta a quello che sua madre gli disse, ma dichiarò che l’onore lo aveva raggiunto prendendo una semplice scopa in mano per ripulire la città.

Questo radicale cambiamento di vita, portò mio Padre a pensare che, dopo otto anni da mia nonna, fosse anche ora che io iniziassi a vivere in casa sua con il resto della famiglia. Vi dico con molta onestà che, quando mi portò via da mia nonna e mi mise a vivere in un posto che non aveva affatto il calore di una famiglia, iniziai a odiare mio padre sia perché non mi aveva lasciato dalla nonna sia perché non capivo quell’arbitrio di riappropriarsi di me come se fossi stato un pacco.

Il risultato fu che io facevo tutto il contrario di quello che lui imponeva. Iniziai a scappare da casa e a stare anche giorni senza dare mie notizie, sino a quando la polizia o i carabinieri riuscivano a trovarmi. Per procedura, essendo io minorenne, chiamavano i miei genitori per darmi in affido. Già da quando avevo circa undici anni, i reati erano all’ordine del giorno, spinelli, alcool erano la ciliegina sulla torta.

Mi ritrovai, senza avere la cognizione di cosa significasse, eroinomane a tredici anni. Ancora non lo sapevo ma decisi di ammalarmi! Evidentemente (ipotizzo ancora oggi), non riuscendo ad affrontare mio Padre e a dirgli quello che pensavo di lui, sfogavo la mia rabbia in questo modo assurdo, convinto di fargliela pagare per quello che mi aveva fatto. Quando iniziai a capire, pur essendo ancora minorenne, mi resi conto di quanto fosse sbagliata la mia scelta e quanto ormai quella malattia si imponesse sempre di più su di me. Mi rendevo conto che negli anni erano cambiate tante cose, mi sentivo privo di forza sia fisica che psicologica, mi guardavo allo specchio e mi sentivo invecchiato, non avendo nemmeno vent’anni.

Abbiamo parlato del conflitto. Voglio raccontare quello che ho vissuto io. Ricordo che, i miei genitori mi portarono, facendo tanti sacrifici (mio padre si fece anticipare parte della pensione) al San Raffaele di Milano, per una nuova terapia di disintossicazione. Quello fu il mio primo conflitto: ero obbligato ad andare e a dire che volevo, ma dentro di me non volevo disintossicarmi, tant’è vero che, come già sapevo, fu un fallimento.

Dopo anni di terapie con metadone, farmaci, e diversi ricoveri, decisi finalmente di risalire dalle sabbie mobili. Con tutta la convinzione e la fermezza di questo mondo, mi chiusi a casa per ben quattro mesi, scalando giorno dopo giorno il metadone, arrivai a scalare anche tutti i farmaci che assumevo per stare calmo, (Roipnol, Darchene, Catapresan ecc.). Tutto questo avveniva paradossalmente a casa mia, avevo capito che mio padre non si era mai posto il problema se suo figlio potesse soffrire così tanto la separazione dalla nonna. Questa sua mentalità, sono sicuro che fosse dovuta all’ignoranza e alla vita che aveva condotto. Mio padre anche oggi a settantasei anni è un uomo tutto di un pezzo e non incline a fare come dicono gli altri, ma con assoluta certezza posso dire che ha sempre amato la sua famiglia e per la famiglia darebbe la vita.

Per esperienza e senza presunzione, posso dire che nella fase della tossicodipendenza non hai nessun potere, o semmai puoi solo illuderti di averlo. Il vero potere, e questo lo posso dire solo oggi, è quello che ha avuto mio padre, ossia abbandonare il senso di onnipotenza, e crescere sei figli con il più umile dei lavori, ma con onore.

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In ritiro nel disordine

In ritiro nel disordine
Claudio Marotto

Sono figlio di emigranti, i miei genitori lavoravano in Svizzera per poter dare a me e ai miei fratelli un avvenire. Purtroppo mio padre era dedito all’alcol, questione per la quale il compito di educare e di accompagnare i figli era totalmente delegato a mia madre; a scuola e alle manifestazioni sportive era sempre mia madre ad essere presente.

Il rapporto con mio padre, già conflittuale, si complicò ulteriormente a seguito della mia decisione di ritirarmi dagli studi. Iniziai a lavorare come commesso e quasi nel contempo a usare la sostanza. Da lì, una vita sregolata tra feste ed eccessi, con l’inevitabile conclusione dell’arresto per spaccio.

Dopo una lunga trafila di reati arresti e scarcerazioni e sempre vivendo all’insegna del disordine totale, in questo marasma che era la mia vita ho fatto due figli, che adoro e che non vedo da due anni per problemi di compatibilità con la mia ex compagna, che peraltro ha trascorsi con la sostanza come me.

Io penso che la tossicodipendenza sia una malattia di cui ognuno sceglie di ammalarsi, inconsapevole del degrado e del disastro cui si andrà incontro, una malattia che può risolversi solo attraverso un’analisi del proprio vissuto e con l’aiuto di tutti coloro che vogliono aiutare. Non so esattamente cosa bisogna fare, ma so per certo che è necessario provare, provare e ancora provare ed è quello che io sto provando a fare.

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Angeli Ribelli

Angeli ribelli
Andrea Mammana

Angeli ribelli
Calvalcano fulmini
Dalla vita breve

L’oblio non li spaventa
Si nutrono di eccitazione

Con luci colorate
addobbano i ricordi
sul viale della morte

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Bello scherzo

Bello scherzo che m’hai fatto
Gabriele Rossi

Bello scherzo che mi hai fatto…
Vent’anni rubati… o da me regalati
Sprecati a rincorrerti,
 senza mai
avere la pace di saperti mia.

Sono vent’anni ormai…
vent’anni che imbroglio, mento, rubo
che compro e rivendo…

E dove sono i tuoi occhi?
Chi li ha mai visti?

Vorrei sentirti dire che mi liberi,
ma tu non parli,  non dici…
però
sei lì in ogni cosa che dico …
e cambi il senso di ogni cosa che ascolto.

Ora spero che il vento ti spazzi via
ora bado che non ti porti troppo lontano…
e io non ho la forza
nemmeno di quel soffio che mi libererebbe…

Bello scherzo che mi hai fatto.
Mi sento svuotato della forza
che la vita mi aveva dato,
della volontà e della capacità
di dire sì o dire no.

Non mi hai cercato tu, ma sapevi
che la mia presunzione ti avrebbe sfidato…

Ti fa onore alleviare il dolore dei malati
ma non di rapire la vita dei giovani sfrontati.

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Conversando su autorità e limiti

Roberto Cannavò: La realtà della finitezza è la nostra realtà. C’è chi lo riconosce, e chi invece non lo riconosce e si ritrova con l’ergastolo. Se non mi avessero arrestato, io non avrei mai capito i miei limiti. Fuori dal carcere, non ho mai riconosciuto le mie finitezze.

Gemma Ristori: (riferendosi ai grandi personaggi citati che hanno fatto la storia dell’arte, della letteratura e della scienza) Lavoro e fatica hanno fatto sì che le loro scoperte rimanessero nel tempo e che noi oggi ce ne possiamo servire per il nostro benessere quotidiano, come la lampadina. Altre mire invece, aumentano solo il senso d’eccitazione, che se fine a se stessa, non è utile alle generazioni future, ma solo a se stessi.

Voler superare i limiti non è necessariamente qualcosa di negativo, ma solo se viene accompagnato dal lavoro e dalla dedizione. Il detenuto e lo studente vogliono arrivare lontano, ma lo studente lo fa lavorando duramente, il delinquente fa come Icaro: punta al sole direttamente. Vi è nel delinquente il desiderio di arrivare in fretta, dimenticandosi che l’unico modo per arrivare da qualche parte è studiare.

Roberto Cannavò:  Se avessi avuto un papà non avrei sconfinato i miei limiti, perché lui mi avrebbe indirizzato verso la scelta giusta. L’ignoranza mi ha portato a essere l’opposto della normalità per la gente comune. Ero spregiudicato in questo, superavo tutti i miei limiti. Da ragazzino non avevo nessun recinto e nessun limite. Oggi a pensare a ciò che sono stato, beh ho paura di quel ragazzino.

Massimiliano De Andreis: Da giovane non vedevo una continuità in quello che facevo; quindi arrivavo alla cresta e pensavo: che senso ha tornare indietro? Io ero arbitro della mia vita, le regole le mettevo io e proprio per questo le istituzioni erano escluse dalla mia vita.

Ivano Moccia: Il ruolo dei genitori è molto importante. La mia barca era carica di odio e alla fine ho ridotto a pezzi tutta la barca e sono affondato. I genitori ti consegnano la conoscenza che dovrai dare poi ai tuoi figli.

Mario Buda: Io non avevo nessuno che mi desse una carezza. La prima rapina che ho fatto è stata a 16 anni, avevamo paura. Ma dopo la prima rapina in banca ci abbiamo preso gusto e ho provato il delirio di onnipotenza. Mi sono bruciato la vita, mi sono costruito la mia gabbia. Voi ragazzi mi state aiutando tantissimo a crescere. La mia disperazione è che mio figlio faccia i miei stessi errori, e faccia delle scelte sbagliate.

Massimiliano Rambaldini: per me qualsiasi regola mi fosse imposta era un limite. Anche i segnali stradali. Tutto. E quindi bisognava combatterla.

Massimiliano De Andreis: Io superavo i limiti per raggiungere i miei obbiettivi, ma non ne ho raggiunto nemmeno uno. Mio padre si faceva di cocaina, picchiava mia madre, spacciava.. potevo scegliere se seguire la strada di mio padre o non farlo. Ho scelto di seguire la sua stessa strada perché il mio obiettivo era essere riconosciuto in famiglia; ma non ci sono riuscito. Oggi i limiti mi fanno crescere. L’autorità però deve essere credibile, per me oggi l’autorità credibile è importante.

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L’autorità: le nostre domande

Buccinasco: le domande dei ragazzi sul tema dell’autorità

  • Quali richieste legittime può farmi un’autorità?
  • Quando il limite imposto è un argine necessario?
  • Quando è uno sbarramento alle mie possibilità di crescita?
  • Quando è necessaria una punizione?
  • Cosa distingue una punizione da una vendetta?
  • Quanto è importante essere imitabile per una guida che vuole essere credibile?
  • Quanto una guida deve essere vicina a colui che vuole guidare?
  • Quale importanza positiva e negativa può avere il complesso di inferiorità rispetto alla guida?
  • Che ruolo ha l’affettività nel rapporto con una guida?
  • Chi limita l’autorità?
  • Qual è il rapporto tra l’autorità e il limite?
  • La trasgressione è un atto di accusa contro l’autorità?
  • Come faccio a diventare adulto e guida credibile se non ho avuto una guida che mi mostrasse il percorso da seguire?
  • La mancanza o incapacità dell’autorità può giustificare la trasgressione?
  • Qual è il confine tra la responsabilità del singolo e di ciò che gli sta intorno?

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Il rapporto con l’autorità, elaborati

Buccinasco: 2017 – Gli elaborati degli allievi dell’Istituto “Via Aldo Moro”
relativi agli incontri sul tema della Trasgressione

Gli allievi della 3° C

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3°

 

Gli allievi della 3° G

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Il convegno sulla tossicodipendenza

Cari compagni di ricerca sulla tossicodipendenza,
le difficoltà che incontriamo nell’individuare i confini del campo, i collegamenti che andiamo scoprendo con esperienze e patologie diverse dalla tossicodipendenza mi motivano ogni giorno di più verso l’avventura che abbiamo iniziato. Le aree del convegno sulla tossicodipendenza, come abbiamo detto, verranno definite strada facendo; gli obiettivi dell’iniziativa già partita e che, se tutto va bene, dovrebbe concludersi col convegno di giugno, mi sono chiari da tempo:

  • promuovere una camera di gestazione capace di attivare riflessioni e ipotesi sulle cause, sugli sviluppi e sulle cure della dipendenza che reggano alle osservazioni di chi questa realtà ha vissuto, ha sofferto, ha costruito con le proprie mani;
  • attivare e consolidare, intanto che i detenuti parlano con gli operatori come stiamo facendo in questo periodo, un rapporto fra paziente e terapeuta tale da favorire una effettiva, duratura e sentita alleanza contro la schiavitù della droga (cosa ben diversa da quanto avviene nella relazione tradizionale fra detenuto e operatore penitenziario);
  • alimentare, fra i componenti del gruppo, intanto che il tossicodipendente diventa protagonista attivo dell’indagine, il piacere e l’orgoglio di far parte di una squadra dove detenuti, studenti e operatori si dedicano insieme allo studio del problema;
  • coltivare un fermento che sia utile alla formazione degli studenti tirocinanti, alla implementazione delle competenze degli operatori e, soprattutto, a stuzzicare, nutrire e fare circolare fra i detenuti ricordi, emozioni, relazioni che li motivino a ribellarsi alla perversa relazione fra “burattino e burattinaio”.

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