Un carcere utile per cosa?

Al Gruppo della Trasgressione si crede nel reinserimento in società di persone che nella vita hanno commesso dei reati, gravi e no. Il detenuto non viene pensato come un criminale per il quale non è possibile alcuna salvezza, ma piuttosto come una persona con esperienze diverse dalle nostre, per la quale esiste una via d’uscita, che necessita e merita aiuto.

Parliamo soprattutto di ragazzi cresciuti troppo velocemente, ai quali è mancata una figura credibile, rispettabile, capace di offrire loro gli strumenti per affrontare la vita nel modo corretto: ragazzi arrabbiati, fragili, insicuri, privi di obiettivi, e che, al contempo, chiedono aiuto.

Il reparto  “La Chiamata” prevede un ambiente dove si respiri crescita, motivazione, trasformazione, creatività e autenticità: un contesto nel quale i ragazzi, mediante il confronto continuo con figure di influenza positiva e lo svolgimento quotidiano di diverse attività, abbiano la possibilità di sperimentare ed esprimere se stessi attraverso la meraviglia dell’arte e della parola: dalla musica alla poesia, dal dipinto alla recitazione. I giovani detenuti potranno qui occupare le loro giornate in modo costruttivo, così da imparare e interiorizzare obiettivi e metodi del progetto.

Penso al reparto come ad un “luogo sicuro in mezzo al caos”, a un contesto al quale detenuti e operatori sentiranno di appartenere e il cui fine sarà quello di far sentire il soggetto in questione ben voluto, coccolato e amato. È fondamentale per i giovani detenuti avere un fine da raggiungere, un ruolo che faccia sentire loro di esistere, di essere utili e di valere qualcosa.

Durante un incontro con giovani detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, è stata posta una domanda, ossia: “Se il carcere potesse essere utile, quale utilità dovrebbe avere per te?”.

Le risposte sono state: un clima costruttivo, un accompagnamento e un aiuto quotidiano;  essere visti per ciò che sono realmente e non solo per ciò che hanno commesso; riduzione della dose di psicofarmaci;  essere aiutati a interpretare il ruolo di genitori (essendo divenuti tali troppo precocemente); essere aiutati a diventare più responsabili, a trovare le cause delle loro azioni devianti, così da poter cambiare la loro visione della realtà in positivo.

Molte figure istituzionali sostengono che ciò che manca ai giovani detenuti è una reale motivazione a migliorarsi. Io credo che la volontà non sia qualcosa che c’è o non c’è. Penso che se è presente in modo evidente, occorre semplicemente nutrirla, ma se è presente in porzione minima o quasi nulla, andranno create le condizioni che la stimolino e che rendano le persone consapevoli della sua esistenza.

Ilaria Pinto

Reparto LA CHIAMATA

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

Non dovevo confrontarmi con nessuno

Sono nato a Vimercate il 23 ottobre del 2000, ultimo di tre fratelli: una sorella e un fratello più grandi. Da come mi ha raccontato mia mamma, ci siamo trasferiti subito da Vimercate in Toscana, dove io ricordo che stavo tanto tempo con mia sorella e mio fratello. Con loro ero tranquillo, i miei genitori non c’erano mai, erano sempre al lavoro e, quando erano a casa, uscivano per andare a fare la spesa o per pagare le bollette, quando ce la facevano. Queste cose le so perché li sentivo parlare, discutere, ma non si preoccupavano di darmi delle attenzioni, però pretendevano che andassi bene a scuola.

Io non li ho mai ascoltati, ascoltavo mia sorella quando mi diceva di fare i compiti e quando portavo bei voti a casa lei era la sola a essere contenta.

Poi, all’età di nove anni, ho cominciato ad uscire per il paese con mio fratello, anche da solo delle volte, ma mai troppo distante da casa, finché un bel giorno i miei genitori mi chiesero di andare a comprare le sigarette, ed io ero invidioso che i miei si comprassero le sigarette mentre a me dicevano sempre di no quando chiedevo qualcosa.

Io vedevo in giro i miei amici con tutte le figurine, le carte da gioco, e tutte queste cose e l’invidia che provavo verso di loro mi ha fatto iniziare a rubare le figurine dal tabaccaio che si fidava di me.

Da lì a poco iniziarono i trasferimenti ma non per le figurine, ma per gli sfratti esecutivi a casa. Finii le elementari in Toscana e mi trasferii in Piemonte, dove iniziai le medie e dove cominciarono i primi problemi.

Iniziai a non aver più voglia di andare a scuola, a rispondere male ai professori, a evitare legami con altri ragazzi, perché sapevo che me ne sarei andato da lì a poco. Poi i primi provvedimenti disciplinari, tanta rabbia verso i miei genitori, due bocciature in prima media. Iniziai a fumare le prime sigarette nell’estate del 2013. Dopo un altro sfratto arrivai a Gerenzago, paese in provincia di Pavia.

Quando ci siamo trasferiti a Gerenzago io non avevo più mia sorella, che ha deciso di andare a vivere con il suo compagno. Io, da lì, ho deciso di prendere le distanze da lei e da tutto, vivere la mia vita come veniva. L’unica persona che mi seguiva mi aveva abbandonato, così ho deciso di abbandonare il rapporto con lei. Ho sofferto molto per il suo abbandono.

Non avevo più punti di riferimento, così sono diventato il punto di riferimento di me stesso. Da quel momento l’unica cosa che volevo era andarmene di casa a 18 anni. Iniziai a peggiorare ogni giorno di più; vivevo in una casa abusiva dove mi vergognavo di portare a casa amici, fidanzate. Era più forte di me e ogni giorno che passava odiavo sempre di più i miei genitori per tutte le situazioni che mi hanno fatto vivere.

Iniziai a drogarmi, usavo soprattutto eroina, iniziai a rubare in casa a vendermi computer, telefoni, prendere i soldi a mia mamma, a tornare a casa il più tardi possibile. Non volevo più provare la sensazione di non essere a casa mia, ho imparato ad essere indifferente, non provavo più niente.

Ogni giorno progettavo modi per trovare soldi, modi per potermi comprare la droga, quando tornavo a casa non la sentivo mia. Quella casa mi ha creato solo malessere, odio, rabbia, la mia casa era la piazza dove uscivo, mi sentivo bene lì, dove stavo sereno tranquillo, mi drogavo ed ero a casa.

Mi sbatterono fuori dalla scuola del paese, dove ormai andavo totalmente pieno di droghe nel corpo, ero insensibile, ogni cosa che mi facevano notare non mi toccava. Finché la preside fece in modo di farmi mettere gli assistenti sociali, mi fecero i primi test sulla droga, così iniziai con il SerD e centri diurni.

Nei primi periodi me ne fregavo totalmente, anzi cercavo tutti i modi possibili per poterli fregare e fingere che fossi pulito: iniziai a mentire nei gruppi, nei colloqui individuali. Finché arrivò il giorno dove mi beccarono facendomi test a sorpresa. Dovevo prendere la terapia che, però, non sempre prendevo. Anche lì fuggivo dal problema, non volevo uscire da quel mondo, avrei dovuto affrontare troppi sentimenti che facevano male, dovevo confrontarmi con la rabbia verso mia sorella e l’abbandono subìto, con i miei genitori delusi per la situazione in cui mi ero messo, ma che non avevano compreso che forse era un po’ anche colpa loro, ma non mi interessava più di tanto.

Ho capito una cosa: che in quel periodo ero bravo a tradire le persone che volevano darmi una mano. Mia sorella, l’unica persona di cui avevo bisogno, non c’era. Per me tradire le persone veniva naturale ormai, ero entrato, non volevo una mano, io stavo bene in quelle situazioni, non sentivo il giudizio di nessuno, non dovevo confrontarmi con nessuno.

Finché non feci la prima rapina, ero in astinenza, avevo rabbia verso me stesso, verso ogni persona che mi capitava davanti. Finii al Beccaria, dove feci tutto il possibile per andarmene, quindi cercai la comunità e andò bene. Arrivai in una comunità di soli adulti, ero il più piccolo. All’inizio stavo bene perché ero riuscito a scappare dal Beccaria, avevo raggiunto il mio obbiettivo.

Passò un anno in cui mi resi conto che avevo bisogno della mia famiglia. Durante quel periodo mi sentivo impotente, non più padrone della mia vita, e ho iniziato a rivalutare diverse cose. Dopo circa un anno e otto mesi, in tribunale, sono stato messo alla prova con le mie emozioni, mi sono trovato davanti alla persona a cui avevo fatto del male. Mi sono sentito una merda davanti al dolore che le si leggeva negli occhi, ma a quanto pare non è bastato visto che, dal momento in cui sono uscito dalla comunità, dopo un mese sono tornato a drogarmi e successivamente a delinquere. Tornai a drogarmi perché in comunità avevo capito che usando la droga avrei soppresso i miei sentimenti, così tornai nel pieno della droga: un modo che potesse portarmi in un’altra dimensione.

Tornai a casa, dove ritrovai lo stesso clima che avevo lasciato. Incontrai vecchie conoscenze con le quali passavo le nottate in piazza, così decisi di tornare a delinquere, rapinando diverse persone in diversi episodi per soddisfare la mia dipendenza, senza preoccuparmi delle conseguenze.

Finché un giorno incontrai la persona che ha cambiato la mia prospettiva di vita. All’inizio non ero convinto di questa relazione tanto che continuai per un anno a delinquere, a drogarmi, ma con il tempo mi sono reso conto di quanto fosse importante per me questa ragazza, lei sapeva che mi drogavo ma non sapeva come facevo a procurarmela.

Quando un giorno decisi di dire basta, lei aveva tanti progetti in testa per la sua vita e io ad un certo punto ho deciso di farla finita con questa vita, mi sono reso conto che stavo facendo soffrire lei e soprattutto le persone che derubavo, solo per star bene io. Decisi di trovare lavoro finché non mi trasferii a Torino di nuovo, dove trovai lavoro presso un’azienda di vendita porta a porta, andai avanti fino a prima dell’arresto, non riuscii a finire il mese per colpa dei miei errori e delle mie scelte pessime.

Prima di trovare lavoro ci misi del tempo ma non mi importava perché ero felice, ero contento di aver trovato qualcuno con cui condividere la mia vita.

Intanto che cercavo lavoro iniziai a non sentire più quel bisogno di droghe, di non essere lucido anzi, cercavo emozioni forti: gioia, amore, insicurezza, tristezza, perché sentivo il bisogno di iniziare a vivere alla luce del sole e non più al buio.

Arrivò il momento dell’arresto e mi trovai in isolamento, dove mi convinsi che era giusto quello che avevo progettato e che non vale la pena di vivere così. Passai poco tempo al carcere di Ivrea, dove qualche persona che era detenuta da tempo mi fece star male. Mi fece pesare i reati che ho fatto, tanto che da lì imparai a guardarmi allo specchio e a sentirmi in colpa per tutto quello che avevo fatto a quei ragazzi. Oggi non riuscirei neanche a guardarli in faccia, dal momento che non meritavano tutto questo.

Al momento non gli davo peso, pensavo solo a me e al mio guadagno, con il tempo che ho passato chiuso per la mia detenzione, ho iniziato a mettermi nei panni di quelle persone. Adesso che sono chiuso qui, ho capito davvero quanto sia stato difficile per loro in quella situazione e, se dovessi incontrarli un giorno, mi scuserei ma soprattutto li ringrazierei perché è anche grazie a loro se oggi ho più consapevolezza dei miei errori e del mio passato.

Lorenzo Rubino

Percorsi della Devianza

La mia Aurora

E chi l’avrebbe mai detto, io che commento un dipinto di un artista!

Partecipando e guardando le diapositive con il dott. Zuffi, il quadro dove ci siamo più soffermati è “La vocazione di San Matteo” che si trova a Roma, presso la chiesa San Luigi dei Francesi.

Quello che risalta è l’illuminazione, con le luci, le ombre, le facce dei vari personaggi, da Gesù a San Matteo, ai fanciulli.

Accosto il dipinto alla mia vita attuale e anche io in questo periodo rivedo mia madre che mi chiama, oltre a mia moglie e mia figlia. E penso anch’io di essere stato illuminato. Mi spronano e cercano di farmi capire, come hanno sempre fatto, che ero su una strada sbagliata, mi rimarcavano sempre le mie malefatte. Bene o male, mi posso paragonare al personaggio di San Matteo: anche lui non è che era  tanto un buon esempio, fare l’esattore e arricchirsi a spese del popolo!

Nelle mie riflessioni interiori, spesso mi capita di parlare tra me e me del passato; e mia mamma, anche adesso che non c’è più, mi ricorda ancora che facevo male agli altri, a chi mi sta vicino, ma anche a me stesso. Ho buttato via più della metà della vita per ora vissuta.

Pensando all’artista, ho fatto delle ricerche ed ho appreso che anche lui non è che sia stato un modello di persona, penso anche perché in tenera età ha perso il padre. Un punto di riferimento è fondamentale, specialmente in fase di crescita.

Poi, detto tra noi, ha anche avuto le sue avventure carcerarie a causa del suo carattere collerico. Fortuna sua che la natura l’ha dotato della capacità di dipingere, anche se molti quadri sono stati rimandati al mittente perché, da quanto ho capito, offendevano il ceto superiore.

Ha però avuto un’altra fortuna: il Cardinale del Monte ha sfruttato le sue qualità per suo tornaconto, ma lo ha anche protetto. Accostando questa sua vita a quello che capita al Gruppo, possiamo anche noi immaginarci nella stanza delle riunioni del Gruppo, dove c’è quella luce che arriva dalla finestra e noi che guardiamo il dottor Aparo che marca e ci rimarca sugli errori commessi in passato, stimolandoci con i suoi metodi apareschi, per farci apprendere i veri valori della vita.

In più il dipinto, più lo guardi, e più puoi avere altre interpretazioni, come lo sguardo su ogni faccia dei vari personaggi. Io mi posso immedesimare in ognuno di loro, tranne nel ruolo di Gesù Cristo. Ora interiormente mi sento più riflessivo, accetto volentieri consigli, in più mi piace molto ascoltare e scoprire cose nuove, come ora.

Scusatemi se torno indietro di qualche settimana, attorno a me sento fiducia, perché sto notando anche che sono più padrone di me stesso e in più certi miei pensieri corrispondono e camminano paralleli ai miei progetti.

Ringrazio tutti i componenti del Gruppo, quando parlo con voi sento segnali di affetto, non come quelli di mia moglie Cinzia e di Aurora, ma quasi.

Concludo, ringraziando il dottor Aparo per aver accolto la parte migliore di me e Aurora, che è mia figlia e che è la luce della chiamata, questa volta non di Caravaggio ma di Nunzio Galeotta.

Nunzio Galeotta

Caravaggio in città

Il mio infinito

Forte sei stato pensiero
Quando volevo essere protetto
Da sguardi e parole
Come siepe mi hai parato
Da venti e tempeste

Così
Nei silenzi infiniti oggi ascolto
Gli anni passati
Comparando la presente stagione.

Vivo adesso in questa immensità
Col mio pensiero che s’annega
In questo mare immenso.

Giuseppe Di Matteo

Poesie

Potere e libertà

Durante un incontro del Gruppo della Trasgressione il Dottor Aparo ha fatto la seguente domanda: “Sei più libero quando ti senti autorizzato a fare, senza alcun limite, quello che vuoi, o quando temi che forse non hai il diritto di fare qualsiasi cosa ti passi per la testa?

Sfogliando nel mio passato, vedo che c’è stato un tempo in cui mi divertivo con poco, senza preoccupazione. Poi, la prima volta che mi sono azzuffato con un mio compagno di scuola, sottomettendolo, mi sono sentito appagato, ho sentito il mio potere crescere, ma non mi sono reso conto che stavo iniziando costruire la mia catena.

Più crescevo, più mi sentivo libero di fare quello che volevo. Il mio campo d’azione si espandeva e la catena si allungava sempre di più, dandomi la sensazione di libertà, ma diventando sempre più pesante.

Guardo nel mio passato per capire chi era quello stronzo che mi ha dato la licenza di fare quello che volevo, fino al punto di abusare senza timore del potere che mi ero costruito. Chi mi ha dato la licenza di fare questo? Mi guardo allo specchio, intravedo riflessa una persona che non conosco. Guardo meglio e capisco che quello stronzo sono io!

Adesso che ho preso più consapevolezza del mio passato, mi sento più libero. Gli abusi non mi hanno reso libero come credevo; al contrario, mi hanno reso uno schiavo legato da una lunga catena.

Salvatore Luci

Percorsi della Devianza

Una sfacciata, irritante fragilità

Ho 59 anni, di cui 28 passati dietro le sbarre e altri 4 tra affidamento sociale e sorveglianza speciale.

Vengo arrestato per numerose rapine (17). Passata la prima settimana di euforia nel rivedere gli amici e a raccontare che il mio arresto non dipendeva dalla mia scarsa bravura di rapinatore ma dalle informazioni di un pentito, incominciai a sentire la mancanza di mio figlio, che all’epoca aveva 16 mesi, e della mia ex compagna.

Dovevo trovare il modo di uscire il prima possibile. Quello era il mio solo obbiettivo. Forte del fatto che era la quarta volta che venivo arrestato, mi sentivo padrone della situazione, sapevo come muovermi. Così, dopo aver esaminato le solite proposte del carcere, individuai una novità: il gruppo della trasgressione.

Ero convinto che quella novità mi avrebbe fatto uscire prima, perciò dovevo assolutamente sfruttarla. Avevo già girato 18 carceri e non avevo mai visto né sentito di un gruppo di studenti, neo laureati e liberi cittadini, che si sedevano insieme ai detenuti attorno a un tavolo e senza la presenza degli agenti. Di solito, a quei tempi in carcere, si stava noi da una parte e loro d’altra e c’era sempre la presenza degli agenti. Era impensabile che ci potesse essere un dialogo, figuriamoci un confronto.

Per 4 mesi ascoltai i temi che si discutevano, intervenendo pochissimo, ma cominciai a notare una anomalia. Sentivo gli studenti mostrare la loro fragilità con una naturalezza che trovavo sfacciata e persino irritante. Come è possibile parlare di fragilità in carcere, dove non puoi assolutamente essere fragile? Devi essere forte, un duro, se sei debole vieni calpestato!

Il mio disagio aumentava a ogni incontro… anche perché cominciavo a condividere i loro pensieri e i loro stati d’animo. Ricordo ancora, come se non fossero passati 15 anni, che iniziai a domandarmi perché, se loro provavano le mie stesse sensazioni, io ero dentro e loro no. Ad accrescere sempre più la mia confusione erano le domande che mi esplodevano nella testa come fuochi d’artificio.

Così, quasi senza rendermene conto, incominciai a comunicare le mie sensazioni e, più esprimevo quello che sentivo, più la distanza fra loro e me si accorciava, addirittura cominciavo a sentire non così distante anche l’autorità su cui all’epoca il gruppo aveva fatto un convegno.

Fra noi e gli esterni del gruppo le distanze si accorciavano sempre di più e questo mi portava a domande che non mi ero mai fatto prima, ma anche a una certa confusione. Di solito, quando provavo malessere, lo scacciavo via procurandomi una eccitazione dietro l’altra… anche se il rimedio che adottavo non durava molto. Adesso la situazione era senza soluzione, allora cominciai a scrivere e a portare quello che scrivevo al gruppo, un po’ come sto facendo adesso.

Passo dopo passo, le colpe che avevo sempre attribuito agli altri adesso mi sembravano mie e questo peggiorava la situazione. Cominciavo a non essere più tanto sicuro di chi era responsabile di avermi rubato la vita. E così è nato un conflitto interiore che non avevo mai provato prima. Incominciai a mettere in discussione ogni mio pensiero, ma anche a condividere con loro quello che mi passava per la testa e che non riuscivo a risolvere.  A poco a poco, non ero più tanto sicuro dei pregiudizi che avevo sempre creduto la gente avesse nei miei confronti (e che avevo io stesso verso di loro).

Le volte in cui il mio malessere svaniva senza dover ricorrere all’eccitazione diventavano più numerose e aspettavo i giorni in cui c’era il gruppo a San Vittore. Compresi che quello che io chiamavo “malessere” era in realtà la mia fragilità, la mia coscienza e la mia voglia di sentirmi utile, di avere uno scopo, una funzione.

Compresi che fino a quel momento non avevo mai fatto una scelta che fosse figlia di un progetto o di un obbiettivo. Le mie scelte dipendevano dal mio stato d’animo rancoroso. La rabbia aveva il potere di decidere cosa io dovevo fare, ero in balia della corrente e la rabbia era il mio sestante. E andando avanti, mi sono reso conto di essere stato il suo burattino per quasi 40 anni.

Incominciai a vedere le cose non più in bianco e nero, ad assaporare la bellezza della diversità dei colori e dei loro contrasti. Incominciai a sentire i componenti esterni del gruppo come alleati, alcuni addirittura amici. Non li vedevo più come un oggetto, come il mio carnefice o come la mia vittima. E ogni settimana nascevano nuove iniziative che preparavamo insieme, cosa che succede anche oggi.

Il mio progetto iniziale di usare il gruppo per uscire in fretta non mi è riuscito, ma sono riuscito a sentirmi libero anche se ero in carcere. Ora so di avere uno scopo, una funzione, ho tanti progetti e obbiettivi, ma soprattutto sento di non essere più un burattino.

Ora è quasi un anno che non sono più detenuto (non ho scritto “libero” di proposito, perché ho incominciato a sentirmi libero già anni fa, quando ero ancora dietro le sbarre). Adesso continuo a sentirmi sempre più libero di fare le mie scelte, perché so che sono figlie dei miei progetti e dei miei obbiettivi. Il mio divenire lo sto costruendo con mio figlio e con i miei alleati e non mi sento più solo contro il mondo.

Grazie Juri e grazie a tutti i componenti del gruppo vecchi e nuovi.

Antonio Tango

Percorsi della devianza

Non lasciarlo mai solo

Io credo che un giovane al suo primo ingresso in carcere, a maggior ragione se ha commesso un reato grave come un omicidio, non debba mai essere lasciato da solo, soprattutto nel primo periodo. Il ragazzo deve sapere che c’è qualcuno disponibile ogni volta che lui ha bisogno di essere ascoltato.

Dico questo per esperienza personale. Io sono entrato in galera la prima volta a 46 anni per omicidio e voi non potete capire come una persona si senta. Volevo farla finita, mi sentivo vuoto, non avevo più emozioni, fissavo sempre il soffitto della cella, su un letto, non avevo sentimenti, sentivo troppo il peso che mi schiacciava per ciò che avevo fatto, mi domandavo come ero potuto arrivare a togliere la vita ad una persona che credevo di amare.

Per questo dico che il detenuto nuovo va seguito, va ascoltato, va preso per mano e va motivato a seguire un percorso individuale per far sì che si senta un po’ meglio con se stesso.

Altra cosa importante è la famiglia, in questa fase il detenuto giovane ha bisogno di sentirsi amato. Questo gli darà forza per affrontare le conseguenze e le difficoltà del suo percorso.

Queste sono le cose primarie per un ragazzo che entra per la prima volta in carcere soprattutto per un grave reato come l’omicidio. Deve trovare per prima cosa un suo equilibrio psicofisico, poi, dopo, viene il lavoro, poi la scuola, poi lo sport, poi i gruppi.

Un altro aspetto importante di questo reparto, per permettere al detenuto di avere idea di cosa lo aspetta, è la presenza in reparto di detenuti con alle spalle una certa esperienza della detenzione; bisogna scegliere detenuti in grado di aiutarlo ad inserirsi in questo reparto e di affiancarlo nei momenti di difficoltà. Devono essere detenuti responsabili, consapevoli del reato commesso, con un cammino alle spalle, ragazzi e uomini che credono nel cambiamento, che possono dare qualcosa in più ai giovani che entrano in carcere.

Io credo che noi detenuti che stiamo facendo tanti anni di carcere abbiamo il diritto ed il dovere di dare anche noi qualcosa in più ai giovani ragazzi che entrano per la prima volta in carcere.

Reparto La Chiamata

Educare a evadere

Educare. Dal latino “ex+ducere”, condurre fuori. In sostanza, educare significa condurre fuori, guidare il vero io di una persona alla realizzazione di sé.

Evadere. Dal latino “ex+vadere”, andare fuori. In sostanza, evadere significa uscire, andarsene, liberarsi di ciò che ti tiene chiuso dentro.

È un’idea che mi fa sorridere quella di unire questi due concetti pensando al carcere. Educare a evadere, però, è l’unica soluzione che vedo a tanti problemi.

Nei corridoi del carcere di San Vittore ho visto diverse facce, per quel poco che ho visto. Tante tristi, arrabbiate e strafottenti; alcune inquietanti; poche con il sorriso. Queste ultime le ho viste durante gli incontri con il gruppo de La Chiamata. Non so cosa abbia portato questi ragazzi in carcere e non so se lo voglio sapere, perché sento che potrei cambiare lo sguardo con cui li guardo. So solo, che se vengono tutti i giovedì mattina hanno qualcosa che li spinge, qualcosa che li fa stare meglio di come stanno quando non sono con noi. Lo dico non per superbia, ma perché quando arrivano hanno sempre il muso, gli occhi incazzati e tutto sommato poca voglia di sentire me, o altri, fare queste riflessioni filosofiche sulla galera. Però, alla fine di tre ore di sproloqui, questi sorridono. Sorridono tra di loro e sorridono a noi. Sorridono persino al magistrato che fa parte del gruppo. E se ci fosse una guardia, sorriderebbero anche a lei, sicuro.

Io non so cosa gli facciamo di bello, perché io spesso torno a casa incupito e con un sacco di pensieri ingombranti. Ma magari il senso del Reparto La Chiamata è proprio questo: creare relazioni. E come in tutte le relazioni favorire lo scambio di sé stessi. Io do a te, tu dai a me. Quello che hai, quello che sei.

Il detenuto mi dà un po’ di fatica, io gli do un po’ di normalità. Lui mi dà il suo senso di colpa, io gli do il mio senso di inadeguatezza nel non sapere come aiutarlo. E così andiamo avanti, tutti e due cercando di costruire un mondo, fuori e dentro dalla galera, migliore e che valga la pena di essere vissuto.

Costruiamo insieme una relazione che ci educa, che ci conduce fuori da noi stessi, per diventare altro, per diventare meglio. Per evadere, finalmente, dalle nostre gabbie personali e diventare persone libere.

Si, liberi. Noi e loro. Perché per quanto noi siamo fuori, siamo spesso in gabbia, presi come siamo dalla routine perdiamo il contatto con il reale e ci inscatoliamo dentro una così detta “vita normale”. E quando entriamo in carcere, parlo per me almeno, mi rendo conto di cosa voglio che nella mia vita sia diverso, che cosa mi renderebbe felice. Che cosa mi farebbe evadere dalla prigione in cui mi trovo io.

La galera, il Reparto La Chiamata e il gruppo mi stanno educando a evadere. Vorrei che questo diventasse un modus operandi non solo mio, non solo nostro, ma di tutta la società.

Evadere dalle galere deve essere il nostro obiettivo. Sicuramente è il mio.

Reparto La Chiamata

Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata