Eletti e pidocchi

Manie di protagonismo. Questo termine, declinato in una dimensione non strettamente patologica, va a descrivere e strutturare l’idea del crimine come strettamente connessa con la psiche dell’autore del delitto.

Se in “Delitto e Castigo” viene descritta una realtà come squarciata tra “eletti” e “pidocchi”, ecco che il pidocchio si fa eletto nel compiere un atto, come quello dell’omicidio, che va a sovvertire non solo il diritto positivo, bensì quello naturale. Pur spogliando il diritto alla vita dalla sua lettura religiosa e legata all’ambito canonico (nonostante l’importanza del divino nella lettura del romanzo) – la vita è permeata del senso di intangibilità percepito come tale dalla natura umana, dalla coscienza.

Una coscienza che stando alle parole di Giorgio e Pasquale, appare come soppressa e poi ricostruita. L’idea di una coscienza soppressa e dell’atto delittuoso come impulsivo, per quanto intrinsecamente legato a volontà di elevarsi da un contesto sociale tragico, più che trasformare l’uomo al lato divino, lo avvicina al lato bestiale.

Raskolnikov, dopo la commissione dell’atto, vede il delirio di onnipotenza evolversi, tramutarsi in “altro” vivendo la necessità impellente di raccontare il delitto. Un delitto all’apparenza perfetto.

La scuola di criminologia di Chicago ha indagato da anni e anni sulle relazioni che intercorrono tra il crimine e il contesto sociale del soggetto che va a plasmare, dunque, la coscienza dell’individuo.

Ma se la coscienza è plasmabile, allora, il concetto stesso di diritto naturale dell’uomo, intrinsecamente legato alla sua esistenza, può venir stravolto in maniera decisiva dai primi anni di sviluppo di una persona che sentendosi “pidocchio” trova nel crimine una via d’uscita.

Tuttavia, se si va a guardare una prospettiva di ampio raggio, pur considerando il crimine come legato allo status, una determinata tipologia di delitti appartiene ai ceti più alti.

I crimini dei white collar, per esempio, sono dunque crimini compiuti da eletti? E’ un eletto, il white collar che delinque, che nella commissione di un delitto va per smania di potere a consolidare ancora di più la propria intangibilità? Diventa eletto, colui che la società ha trattato come pidocchio, dopo la commissione del delitto?

Sono convinta che questa divisione sociale, tra pidocchi ed eletti, vada ad essere intrinsecamente criminosa. La decostruzione della concezione dell’essere umano solo come prodotto del proprio ambiente, accompagnata da risorse che fanno percepire come meno iniqua l’esistenza, potrebbe essere punto di partenza per fornire un deterrente all’aprirsi in una strada di delitto.

La soppressione della coscienza e la volontà di elezione, così come il possesso di tale coscienza, sono dunque legate all’essere umano e poi, il contesto sociale e quello psicologico, legato di rimando fanno da quadro in una cornice da mutare.

Tutti desiderano essere visti. Tutti desiderano essere ascoltati. Tutti desiderano qualcosa di più. Qualcosa di meglio. Il delitto è il varcare il confine tra il proprio benessere e il malessere dell’altro.

La volontà superiore di Raskolnikov, che va a giustificare l’omicidio, si può leggere in criminologia come una TECNICA DI NEUTRALIZZAZIONE.
“L’ho fatto per un bene superiore.”
“Lei era un pidocchio, io un eletto.”

Le medesime tecniche di neutralizzazione che vengono associate a Napoleone. Tecniche di neutralizzazione che incidono sulla coscienza e la sopprimono per annientare il senso di colpa (umano e tipico, salvo motivazioni legate a disturbi di natura psichiatrica, per esempio, di natura antisociale).

Ma oltre ad una tecnica di neutralizzazione, è curioso notare come per il protagonista, sia anche il movente. Uno dei moventi.

Nel parlare di persone conosciute, in ogni caso, non ho riscontrato l’uso di tecniche di neutralizzazione bensì consapevolezza e rammarico nella commissione delle proprie azioni. Che sia dunque la consapevolezza ciò che porta alla formazione e all’evoluzione della coscienza?

 

Angelica Falciglia

Delitto e Castigo

Noi, la sorte e la scelta

Credo non ci sia nulla di più lontano della criminalità dal mio mondo, dal mio vissuto e dalla mia infanzia.

Eppure, forse, proprio perché è un mondo così lontano e sconosciuto (ignoto), ho sempre voluto conoscere i meccanismi e il perché di certe scelte di vita.

Ascoltando i detenuti e gli interventi dei compagni, ho potuto riflettere sul fatto che forse la mia sia stata solo fortuna, che quella criminalità per molti è stata la quotidianità, la ‘normalità.’

Allora mi sono domandata se davvero fosse solo fortuna, se chissà chi, un Dio per chi crede, avesse dunque deciso già dalla nascita cosa ci spettasse, in quale ambiente nascere e che da li’ non ci si potesse scostare più di tanto, che i ‘pidocchi’ sarebbero dovuti rimanere tali e la brava gente anche (una sorta di criminalità da generazioni).

Io però non voglio credere che una persona non sia fautrice del proprio destino, voglio pensare che tutti possano scegliere cosa e chi diventare, indipendentemente dal passato e dal vissuto.

Noi siamo le nostre esperienze e soprattutto i nostri traumi, ma questi non possono determinare le nostre sorti. Possiamo sempre scegliere da che parte stare, pur avendo avuto e ricevuto una certa educazione.

Alice Garovo

Delitto e Castigo

Polisemia

Un dipinto per molte interpretazioni

Ognuno di noi osserva e coglie della realtà aspetti differenti. Anche nell’arte un’unica opera riesce a trasmettere emozioni diverse, in quanto viene letta da ognuno secondo le proprie lenti di interpretazione.

Così è accaduto al Gruppo per la Vocazione di San Matteo di Caravaggio. In questo quadro molto realistico l’autore ci regala una scena incredibilmente nitida: partendo da destra, Gesù, seminascosto da San Pietro, indica San Matteo al tavolo; quest’ultimo è accerchiato da altri personaggi: due sulla sinistra, intenti a contare dei soldi, e due a destra, che sembrano osservare interdetti l’arrivo di Gesù e del Santo.

Secondo un’altra interpretazione del quadro, San Matteo potrebbe essere la figura a capotavola intenta a contare i soldi, se così fosse l’uomo con la barba lo starebbe indicando come per chiedere conferma che si tratti di lui.

Nel caso in cui il Santo fosse quel personaggio, Matteo non si sarebbe reso conto dell’entrata di Gesù e di San Pietro. in questo caso sarebbe interessante chiedersi come la scena potrebbe proseguire. Io immagino Matteo che, assorto nei suoi pensieri, magari anche grazie al mormorio dei presenti, si sbalordisce di essere illuminato da una calda luce e, alzando lo sguardo, si trova davanti a delle figure senza tempo che lo indicano. Ecco, mi sembra quasi di percepire lo stupore e la meraviglia nello sguardo di Matteo.

Osservando, invece, la scena nella sua lettura comune, ovvero quella in cui San Matteo è rappresentato dall’uomo seduto al tavolo con la barba lunga, personalmente vedo Matteo stupito riguardo alla visione dei due personaggi, ma non rispetto al fatto che sia lui ad essere chiamato.

Mi appare, infatti, un Matteo sereno, come se stesse aspettando quella Chiamata, come se vedere Gesù e San Pietro che lo indicano fosse già una conferma di questa vocazione, tanto che il dito che lui punta verso sé stesso potrebbe essere visto come un gesto eseguito per riflesso come a dire “sì, sono io colui che stai chiamando.”

Elisa Parravicini

Caravaggio in città

Tra picciotti e discepoli

La riflessione di Beatrice mi ha colpito perché è molto in sintonia con le considerazioni che ho fatto in occasione dell’incontro ad Opera con il Prof. Zuffi.

Ho avuto modo di vedere quest’opera dal vivo a maggio, a Roma, dove mi trovavo insieme al Gruppo in occasione del nostro convegno in Senato: “Una mappa per la pena”.

La cappella di San Luigi dei Francesi si trova proprio di fianco al palazzo del Senato. La Chiesa è poco illuminata poiché l’unica fonte di luce naturale è costituita da una piccola finestra e confesso che, un po’ a causa di questo ed un po’ a causa dei miei problemi alla vista, non sono riuscita a cogliere come avrei voluto le sfumature di questa opera.

Ammiravo il quadro, seguivo i commenti di Paolo e di Francesco e mentre lo guardavo pensavo alle parole del Dottor Aparo. Pensavo al contrasto tra la “chiamata della Mafia a diventare dei picciotti” e la “chiamata di Gesù che invitava San Matteo a diventare uno dei suoi discepoli”. Mi sentivo privilegiata ad essere a Roma in quel momento, appena prima del convegno al quale avrebbero partecipato da lì a poco anche l’ex Ministra della Giustizia, Marta Cartabia e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi.

Nonostante fossi consapevole da un lato che quella opportunità in Senato non ci avrebbe “cambiato la vita” dall’oggi al domani, dall’altro, non potevo non cogliere l’importanza che rivestiva l’essere lì dopo 17 anni di cammino all’interno di questa realtà che è il Gruppo della Trasgressione.

Lo sguardo di San Matteo, il cui dettaglio ho ammirato con più attenzione a Opera, mi colpisce molto perché lo vedo anch’io come felicemente stupito e contento di essere stato notato e di essere stato chiamato proprio da lui, da Gesù, che rappresentava per San Matteo una persona carismatica dalla quale era fortemente attratto.

 

Mi sono immedesimata anch’io in lui, come dice Beatrice. Mi sono ricordata del momento esatto in cui sono arrivata a lezione del corso di diritto di penitenziario, tenuto dalla Professoressa Mariella Tirelli. Mi ero iscritta a quel corso, che era facoltativo, scegliendolo di proposito.

Confesso che all’inizio ero lì seduta a lezione anche con aria di sfida perché mi domandavo se la Professoressa ci avrebbe rappresentato la realtà in modo veritiero o meno; da parte mia, ero a conoscenza di cosa significava essere la persona che si siede dall’altra parte del divisorio dei colloqui familiari in carcere. Erano passati pochi anni da quell’esperienza che mi aveva segnato a vita e che mi aveva lasciato dentro un sacco di domande senza risposta e un grande caos emotivo.

Fu in quell’occasione che conobbi il Dottor Aparo e i primi membri esterni del Gruppo della Trasgressione, che all’epoca erano studenti di Psicologia.

Dopo aver visto il modo in cui la Prof.ssa Tirelli affrontava le sue lezioni, sentivo molta ammirazione per lei e avrei desiderato avere ogni giorno lezione con lei per conoscere sempre di più quella realtà. Iniziai a confrontarmi dapprima in classe e poi ci venne data in seguito anche la possibilità di entrare in carcere e di conoscere gli altri membri del Gruppo, i detenuti.

Finché non detti l’esame, non raccontai né scrissi nulla riguardo la mia personale esperienza. Dopo l’esame, che fu il primo trenta della mia carriera universitaria e dopo il convegno sull’Autorità, chiesi di poter entrare a far parte del Gruppo della Trasgressione e iniziai a partecipare regolarmente anche agli incontri che si tenevano all’epoca nel solo carcere di San Vittore.

Non ci misi molto a tirare fuori. Il mio primo scritto dove mi “svelavo”. Ricordo ancora la strizza tremenda che mi accompagnava il giorno che il Prof mise sul tavolo lo scritto col quale parlavo della detenzione di mio padre. Temevo più che altro il giudizio dei miei compagni di corso e un po’ anche la reazione della Prof.ssa Tirelli, pur se, in cuor mio, sapevo che sarei stata “accolta” e che finalmente, almeno con loro, avrei potuto essere me stessa fino in fondo.

Ciò che avvenne fu proprio questo e tutte le mie paure svanirono all’istante perché mi sentii finalmente a casa, accudita, seppure si trattasse in fondo di un gruppo di sconosciuti.

La sensazione che ho provato quel giorno credo sia la stessa che provò San Matteo quando finalmente Cristo va da lui per chiamarlo a dare il meglio di sé. Anch’io, come San Matteo non aspettavo altro: qualcuno che mi chiamasse a dare il meglio di me, che non mi facesse sentire sbagliata e che mi accompagnasse nel cammino per diventare adulta. E di questo sarò per sempre grata a tanti membri del Gruppo della Trasgressione.

Oggi mi sento anche di condividere uno scritto che ho elaborato dopo il convegno di Roma. Il Ministro della Giustizia italiano è oggi cambiato, ma desidero rivolgere al Prof. Carlo Nordio le parole che ho scritto a maggio perché è bello sentire di poter comunicare con chi ha la facoltà di orientare il prossimo futuro dell’istituzione nella quale lavoriamo.

Alessandra Cesario

Caravaggio in città

Caravaggio e il contenitore

Non sono sicura di avere pienamente a fuoco ciò che il dipinto di Caravaggio (Vocazione di San Matteo- la Chiamata), mi s-muove dentro. Avevo già visto sui libri questa opera, ma non l’ho mai veramente guardata.

Il carcere di Opera, contesto nel quale questo dipinto è stato discusso, i detenuti e il gruppo della trasgressione come interlocutori, il Professor Zuffi in qualità di esperto e il Professor Aparo hanno fatto si che questa esperienza fosse perfetta!

Perfetta per imparare, perfetta per conoscersi gli uni e gli altri, ma soprattutto perfetta per guardarsi dentro e chiedersi se durante il cammino di vita di ciascuno di noi una “chiamata” abbia potuto dare valore o disvalore alla nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda, a seguito dei sommovimenti interni indotti dal dipinto, la sensazione che ho provato è stata di una complessiva umiltà:

Umiltà nel Cristo, che indica Matteo con il timore nel dito ma con il braccio teso dalla determinazione: “Ti scelgo, ma non ti voglio per forza. Sta a te decidere”.

Umiltà negli occhi e nel modo di indicare se stesso di Matteo: “Io? Perché io?, Chi sono io?”

Una conversazione fatta di sguardi e gestualità, come spesso accade quando non si trovano le parole, o forse non servono.

In qualche modo la nostra vita è costellata di chiamate. Le più importanti e significative parlano una lingua difficile, o che in qualche modo ci sforziamo di non voler capire perché quando lo facciamo ci causano affanno, fatica, a volte sofferenza. Ad esempio nel mettersi in gioco in un rapporto umano, dove lo scambio tra donare e ricevere è a volte fonte di frustrazione.

Non siamo in grado di comprenderci gli uni e gli altri forse perché pecchiamo di mancanza di umiltà, che a mio parere, invece,  è così ben rappresentata da Caravaggio. Questa mancanza fa si che arriviamo a rispondere ad altri tipi di “chiamate”, che si presentano dentro di noi urlando a squarciagola, che ci fanno sobbalzare e ci mandano in confusione, non ci permettono di avere la lucidità di ponderare la scelta, mentre appagano il bisogno di avere un posto nel mondo e di colmare i nostri vuoti.

Mi riferisco, ad esempio, ai richiami del denaro e del potere e, perché no, anche a quello dell’amore.

Caravaggio è stato un rivoluzionario per la sua epoca, ha cercato di sovvertire i canoni del tempo che imponevano agli artisti regole e un solco nel quale muoversi.

Il “contenitore” famigliare nel quale è nato lo ha protetto e lasciato libero di esprimersi e di dare spazio alla sua creatività. Gli ha dato fiducia e gli ha permesso di intraprendere la sua strada di artista. Questa libertà ha fatto a botte con i vincoli che la società del tempo gli imponevano, rendendolo un ribelle e un trasgressore. Così la sua arte nasce pregna di anticonformismo e ribellione, ma libera, nonostante il rispetto (quasi sempre) delle regole imposte.

Mi trovo quindi, mentre scrivo, a stupirmi, perché appena sopra ho detto di averci visto umiltà e mi domando come possano conciliarsi le due cose: umiltà e ribellione.

Rifletto un attimo e cerco in me una risposta: si può riconoscere l’umiltà dentro di noi quando si ha avuto la possibilità, grazie a contenitori avvolgenti e credibili, di esprimere la propria libertà. Tutt’altro rispetto a quanto riconosco essere accaduto a me.

Il mio contenitore famigliare non ha generato quella fiducia in me stessa che solo l’amore permette di sviluppare e, al contrario,  mi ha indotto a investire gran parte delle mie energie nel tentativo di farli ricredere, per farmi accettare… che pessimo modo di usare il mio tempo e le mie risorse emotive! Questo ha fatto sì che anche io ho avuto bisogno di ribellarmi e trasgredire, ma a differenza di Caravaggio (poco umile il paragone), che lo ha fatto a viso aperto, con tenacia e consapevolezza, io ho sempre dovuto indossare una maschera per avere il coraggio di andare alla ricerca di quella fiducia e dell’amore mancato.

Questo abito mi ha esposto a molteplici “chiamate urlate”, poco coerenti con ciò che veramente io ero… ma che ho ascoltato nella speranza di colmare quel vuoto che causava sofferenza. Per questo forse, oggi, pur riconoscendo l’umiltà quando la vedo, spesso la confondo con senso di inadeguatezza.

Ma non fa niente, ce l’ho fatta, adesso riesco a scegliere, a volte con un po’ di cinismo, lo ammetto, “contenitori” che mi regolano l’esistenza senza opprimerne la creatività, ma facendomi crescere tutti i giorni.

Il più importante è quello saldo, pacato e silenzioso di mio marito, che da quasi trent’anni mi accetta, incredibilmente, per quella che sono. Un altro, più terremotante e rumoroso, in questo caso con accezione positiva, è quello del Prof Aparo e del Gruppo della Trasgressione, che, senza troppi complimenti, ti scombussolano e alimentano l’anima.

Ludovica Pizzetti

Caravaggio in città

Il barattolo

Quando ero piccolo ero un arrampicatore, un ometto che riusciva a scalare gli scomparti della vecchia credenza a casa di mia nonna al mare.

Proprio nell’ultimo scomparto si trovavano dei barattoli di diversi colori, che contenevano una infinità di cose: caramelle, biscotti, cioccolatini, spezie…

Di frequente, con la mia famiglia e alcuni cugini, ci recavamo in quella casa. Eravamo tanti in quelle occasioni, più di una ventina. Lì prevalevano le regole ferree di mio nonno, un omone in pensione che aveva l’hobby della pesca. Per lui più che una passione era un lavoro. Ogni mattino infatti andava in mare, calava le reti per poi la sera ritirarle, svuotarle e quindi ributtarle in acqua. In una sorta di moto perpetuo.

A turno, reclutava uno dei nipoti per farsi aiutare a remare.

Lì entrava in gioco un barattolo di colore bianco, sempre pieno di caramelle, che venivano elargite a noi ragazzi come ricompensa. Inoltre, ricordo che al mattino presto arrivava “Cicino”, un garzone di un forno della zona, con la sua bicicletta con un grande cesto pieno di brioche zuccherate ancora calde.

In quell’atmosfera vivace, rumorosa e piena di vita, ero sempre attento nell’osservare gli adulti e ascoltare le chiacchiere, i sussurri e le discussioni intorno a me. lo aspettavo circospetto il momento giusto per scalare la credenza e raggiungere con fatica il famoso contenitore con il tappo bianco.

La vita, in un susseguirsi di incontri e di bei momenti, trascorreva con le sue stagioni e si consumava velocemente. Ad un tratto mi sono scoperto uomo: volevo solo vivere, correre e liquidare in fretta le tante domande che mi nascevano.

Il tempo si era portato via alcuni pezzi importanti della mia famiglia e mi ero creato nuovi legami e nuove amicizie. Dopo essermi ritirato da scuola avevo iniziato a lavorare. Ero cambiato e quando mi recavo a casa dei nonni in me prevaleva il senso dell’opportunità: andavo per farmi dare qualcosa di concreto.

La credenza era sempre al solito posto ma non era più il barattolo bianco ad attirare la mia attenzione. Era un contenitore grigio dove i miei nonni erano soliti mettere delle banconote da mille o duemila lire. Aspettavo solo che mi facessero un cenno per allungare la mano, afferrarlo e prendere qualche soldo. Ormai ero abbastanza alto e per me era diventato semplice raggiungere il barattolo.

Non avevo più bisogno di scegliere tra i vari colori: per me aveva importanza solo il contenitore grigio.

Un giorno mio nonno morì in un incidente d’auto. Da allora, tornando in quella casa, mi resi conto che era cambiata la disposizione dei barattoli ed anche il loro contenuto. La vita stessa era cambiata. Per me a quel punto scegliere era diventato difficile.

Mi incuriosì un barattolo di colore rosso. Un barattolo cui non avevo mai prestato attenzione. Così allungai la mano per prenderlo, lo aprii e al suo interno vi trovai del sale.

Giovanni Battista Della Chiave

RaccontiMicro e Macro-scelte

Il sollievo di Matteo

Dell’arte amo la capacità di mutare forma, il suo scivolare tra le menti degli spettatori trasformandosi a seconda della loro necessità. Credo sia proprio questa particolarità a tenere in vita le opere e, partecipando all’incontro di “Caravaggio in città”, ne ho avuto la conferma;

Sono convinta che, almeno per quanto mi riguarda, le interpretazioni nascano dalla necessità di immedesimarsi, di sentirsi partecipe dell’opera stessa; penso che ritrovare nei personaggi caratteristiche affini alle proprie stimoli ulteriormente la curiosità di chi osserva e, allo stesso tempo, gli sia di particolare conforto.

Conoscevo già la ‘’Vocazione di san Matteo’’, ma in passato l’ho guardata con occhi completamente diversi. Ricordo, per esempio, di non aver mai tenuto realmente conto degli sguardi dei personaggi; oggi invece è un particolare che mi sembra fondamentale, forse protagonista dell’intera opera.

Io percepisco nell’espressione di Matteo una scintilla di desiderio; personalmente non colgo nel suo viso lo stupore di essere stato chiamato, piuttosto mi sembra di leggere in lui la necessità di sentirsi coinvolto e il sollievo che la chiamata stessa gli provoca. Forse è per questo motivo che gli altri personaggi del dipinto rimangono indifferenti all’entrata di Cristo, semplicemente non lo stavano aspettando.

Secondo me, non si è sempre consapevoli di essere in attesa di qualcosa o qualcuno, eppure, quando si presenta la possibilità di venirne a conoscenza, lo si riconosce quasi istintivamente; Matteo si sente il destinatario dell’invito, sa di esserlo.

Fino ad ora credo di aver sempre fatto parte del gruppo degli indifferenti o, per lo meno, non ho mai realmente colto le chiamate che, nel bene e nel male, realizzo solo oggi di avere ricevuto.

Ultimamente, invece, mi rivedo molto nella figura di Matteo, e più sento la chiamata risuonare, più riconosco in me lo stesso sollievo che leggo nei suoi occhi.

Beatrice Ajani

Caravaggio in città

L’azione della chiamata

I miei genitori sono entrambi grafici e amanti dell’arte e spesso, quando ero piccola, mi portavano in giro per musei e mostre. Come è possibile immaginare, il museo non era proprio il mio posto preferito dove passare il sabato pomeriggio. Mio padre però era furbo e per coinvolgermi si è inventato un gioco: ognuno di noi doveva immaginare i titoli delle varie opere e chi si avvicinava di più al titolo originale vinceva. Strano ma vero, vincevamo sempre io e mia sorella.

Ora che sono grande, nei musei ci vado volentieri di mia spontanea volontà. Spesso però mi capita di fermarmi a cercare di indovinare il titolo dei quadri, lo trovo un modo per capire se sono riuscita a percepire il messaggio che l’autore voleva mandare.

Nel caso de La chiamata di San Matteo invece, ho saputo il titolo prima ancora di vedere il quadro. So che il titolo originale è La vocazione di San Matteo, ma mi piace pensare che la scelta di presentarlo al Gruppo come chiamata sia fatto di proposito. Il titolo che gli ha dato il professor Aparo mi evoca una sensazione di dinamicità e di dialogo, di domanda e risposta. Trovo che rispecchi molto il quadro, perché guardandolo è difficile individuare subito il protagonista. Chi è il soggetto principale del quadro? Matteo, circondato da colleghi e apprendisti? O Cristo, coperto quasi interamente da Pietro? Per me, il soggetto principale di questo quadro è l’azione della chiamata, rappresentata dal dito di Cristo puntato su Matteo e dal dito di Matteo, rivolto a sé stesso.

Inoltre, un aspetto che adoro dell’arte è che consente di provare diverse sensazioni pur rimanendo sempre uguale. Aver ascoltato le percezioni degli altri, mi ha aiutato ad avere un’impressione più generale. Ho potuto quindi soffermarmi sull’espressione incredula di Matteo, sull’indifferenza degli altri avventori, sullo sguardo di Cristo, da alcuni percepito severo, da altri accusatorio.

Mi piace paragonare questo evolversi di sensazioni che si manifesta davanti ad un’opera d’arte all’evolversi della coscienza di un detenuto: l’incontro e l’ascolto delle esperienze, le opinioni e le riflessioni dell’altro sono  strumenti fondamentali per la crescita e lo sviluppo della propria identità.

Cristo chiama e Matteo può rispondere oppure no, entrambi però sanno che l’azione è eseguita da tutti e due.

Anita Saccani

Caravaggio in città

Agosto con Paolo

Buongiorno a tutto il Gruppo della Trasgressione, sono Francesco. Mi fa piacere condividere con voi quello che mi succede ogni volta che termina l’incontro.

Quando vado via da qui, sento la necessità di andare al passeggio, e mentre cammino e ascolto la musica, rifletto sui discorsi che fa il Dottor Aparo e su tutte le domande e riflessioni che vengono poste al gruppo.

Ultimamente mi ha colpito moltissimo il fatto che Paolo Setti Carraro è entrato a far parte del gruppo interno. Provo a capire il dolore che ha dovuto sopportare in tutti questi anni assieme ai suoi famigliari. Inoltre, mi rendo conto che non ci possano essere scuse né giustificazioni per quell’ignobile atto; in quanto la signora Setti Carraro è stata una vittima innocente ed era estranea al lavoro che svolgeva il marito. Da quello che ho letto, il lavoro che svolgeva il Generale Della Chiesa non lo stava eseguendo per un suo scopo o tornaconto, ma perché il governo gli aveva concesso poteri speciali per combattere il terrorismo. Visto che il Generale, con grandi meriti, ha portato a termine il progetto di smantellare le brigate rosse, lo stato lo ha mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Da tempo mi domando cosa c’entrava la moglie del generale! E perché hanno usato tanta ferocia su una donna innocente? Da quando sono in carcere sento dire che i mafiosi usano e rispettano dei codici, ma in tale situazione non si sa come mai non hanno tenuto in considerazione il codice tanto sbandierato.

Io non sono stato uno stinco di santo, non ho mai fatto parte di organizzazioni criminali ma ero vicino a dei miei parenti e a un mio fratello che hanno fatto parte di un’organizzazione mafiosa. Oggi mi sento di chiedergli umilmente scusa per il dolore che gli hanno arrecato tutti i mafiosi ed in particolare il dolore che ho prodotto anche io.

Apprezzo tantissimo che dal mese di agosto Paolo è entrato nel gruppo della trasgressione interno. Paolo è una persona che, nonostante il dolore e la tragedia che ha subito, è riuscito trovare la forza di confrontarsi con persone che gli hanno provocato il dolore che si porta dietro. Io trovo Paolo di un’umanità disarmante, la sua umiltà e i suoi discorsi mi portano a riflettere e a vergognarmi di quello che ero.

Inoltre, condivido pienamente quando sostiene che il dolore che uno subisce non deve essere rimosso, ma bisogna farselo attraversare addosso. Secondo il mio punto di vista, una persona può migliorare e cambiare solo attraverso l’avvicinamento delle istituzioni.

Per quanto riguarda la partecipazione all’omicidio della sorella di Paolo, io credo purtroppo che, sia Pasquale che tutti i detenuti presenti al tavolo, se all’epoca dei fatti avessimo fatto parte di quell’organizzazione mafiosa, sicuramente avremmo dovuto partecipare alla strage, sia perché venivamo istigati, esaltati dai capi e dai compagni, sia perché quando si è giovani non si  è coscienti e tantomeno avevamo gli strumenti per capire e sentire il dolore che avremmo provocato ai famigliari della vittima. Quelle sofferenze, quei sentimenti lasciano dentro ai famigliari della vittima delle cicatrici, in quanto si vive con quel ricordo.

Da quando partecipo al gruppo mi sono resoconto che quello che sostiene il Dottor Aparo è tutto vero. Ognuno di noi ha perso la propria umanità da giovanissimo, poi strada facendo si mette a tacere la coscienza ancora di più, arrivando a compiere gesti terribili. Secondo il mio pensiero l’umanità che c’è in ognuno di noi può essere ritrovata se le istituzioni non abbandonano le persone a sé stesse, ma iniziano a trattarli come esseri umani e non come fascicoli viventi.

L’umanità che c’è in  ognuno di noi può essere stimolata e alimentata se le persone vengono incoraggiate a mettersi in gioco e a crescere culturalmente. Sostengo che il cambiamento avviene attraverso il confronto e i laboratori come il Gruppo della Trasgressione, dove le persone vengono stimolate a prendere consapevolezza del loro passato. Inoltre, il rapporto che si viene a creare con le persone che aderiscono al Gruppo è importante. Queste persone durante il percorso diventano figure di riferimento. Gli incontri e le relazioni portano i detenuti a una rivisitazione profonda del loro passato e attraverso tali riflessioni iniziano a liberarsi dalle gabbie mentali.

Questo sta succedendo a me perché Lei, Paolo e il resto del Gruppo mi mettete in condizioni di liberarmi dei pregiudizi e di quei meccanismi che si vengono a creare tra il detenuto e l’educatore o lo psicologo. Nell’incontro della settimana scorsa si è parlato di psicoterapia. Nel mio caso il Gruppo funge da terapia, in quanto mi sta aiutando sia a relazionarmi che a mettermi in gioco e a superare le mie condizioni psicofisiche che mi trascino da quando è avvenuto il distacco con mio fratello gemello.

Lei, con i suoi discorsi conditi da bestemmie, e tutto il gruppo mi stimolate a venir fuori in modo naturale e sincero, senza aver paura di mostrare le mie fragilità, paure, emozioni.

Concludo facendovi sapere che se ho prodotto questo scritto è stato grazie a tutto il Gruppo.

Milano – Opera, 11/10/2022
Francesco Sergi

Incontri con le vittime

Il paese delle coscienze

Giro per le viuzze del centro
Sento una grande confusione
poca luce
C’è un grande patrimonio intorno

Mi accorgo che lui
mi segue
Scelgo di girare l’angolo
per una via più luminosa
cerco di seminarlo
ma non ci riesco

Forse quella scelta è stata un’illusione
Giro e rigiro la coscienza

Cercandomi piccolo
ritrovo sempre un bambino
che conosceva il suo sguardo
i suoi occhi parlavano con i miei
capivo bene
quando dovevo stare zitto
quando piangere
e quando correre

Ma spesso mi mancava la forza per scappare
non perché fossi affaticato
io
in quei momenti
ero solo stanco

Giovan Battista Della Chiave

Poesie