Tra palco e realtà

Ho avuto il piacere di partecipare all’incontro al liceo artistico Brera con il Gruppo della Trasgressione. Inevitabilmente ogni volta sono portata a guardarmi dentro, ma non è facile per me perché mi rendo conto di quanta strada ho ancora da fare per raggiungere quella consapevolezza e presa di coscienza che Adriano e gli altri detenuti ed ex detenuti hanno acquisito.

Nel percorso di andata su Marte per questi uomini è chiaro che, in qualsiasi modo si venga contattati, è importante il ruolo della guida, per noi sbagliata, ma che in quel momento in un ambiente giovanile, adolescenziale fatto di degrado, di abbandono scolastico, di nessuna prospettiva futura, l’offerta da parte della guida di soldi facili, moto, auto e donne, si presenta particolarmente allettante. La strada si spiana e il carattere del singolo prende il sopravvento fino a illuderlo facendolo diventare un leader negativo col suo sentimento di onnipotenza e delirio.

Poi l’atterraggio,  la resa dei conti con la giustizia,  la permanenza in carcere, la presa di coscienza che ciò che si è fatto è stato un errore, un sentimento come il rimorso che inizia a serpeggiare e nessuna via di fuga dalle proprie responsabilità. Quando ad un tratto la speranza si incarna in una nuova guida che propone una via d’uscita da quell’inferno di dolore e sofferenza e porta l’uomo a credere che ci siano alternative di vita migliore, allora si incomincia a prendere coscienza.

Adriano ci crede e questo percorso non facile lo fa suo e la pena diventa un purgatorio di espiazione delle proprie colpe, studia, si prepara fino ad essere pronto ad affrontare gli altri affinando capacità comunicative, diventando di fatto un leader positivo e fa della comunicazione il suo scopo di vita.

Adriano con la sua simpatia napoletana mi ha conquistata e mi ha portata ad ascoltarlo. Abbiamo parlato tanto e le nostre storie si sono incrociate fino a prendere forma in un progetto di famiglia. Così piano piano è arrivato il momento di farlo conoscere ai miei figli che avevo preparato dicendo loro la sua storia di uomo cambiato.

È  stata magica l’empatia che si è creata tra di loro e a chi mi chiede come ho potuto accettare l’idea che un ex assassino possa tenere tra le braccia la mia bambina, giocare e parlare con i miei due grandi, posso dire che probabilmente i miei figli hanno per prima avvertito l’accettazione da parte mia e quindi è venuto naturale anche a loro, ma questo grazie all’ umiltà, alla disponibilità e alla collaborazione di Adriano.

Certamente non è sempre facile, soprattutto per mio figlio grande, nel pieno dell’adolescenza, ma piano piano il progetto di famiglia sta prendendo forma.

Francesca Zani

Perché scrivo poesie          Marte, andata e ritorno

Perché scrivo poesie

Picchì scrivu puisii?
Fossi picchì no nti sappi
teneri nde razza?

O fossi,
picchì no gnucai
mai cu tia?

O picchì
no ndi sappi rari
u megghiu ri mia?

Macari ka c’era,
Era iù ka no vireva.
Passai troppu anni o scuru,

Era accussì scuru
ka no mireva
Mangu chiddi chiù vicinu.

Picchì vogghiu
addivindari pueta?
Fossi picchì sulu l’animu

di mpueta è degnu
di riqunguistari
u to cori.

Perché scrivo poesie?
forse perché non ti ho saputo
tenere in braccio

O forse
perché non ho giocato
mai con te

O perché
non ti ho saputo dare
il meglio di me

Anche se c’era,
ero io che non ti vedevo
ho passato troppi anni al buio

Era così buio
che non vedevo
neanche quelli più vicini

Perché voglio
diventare poeta?
forse perché solo l’animo

di un poeta è degno
di riconquistare
il tuo cuore

Nuccio Di Mauro

Marte, andata e ritorno         Officina creativa

Strumenti di libertà

Una delle cose più difficili che mi è toccato fare in queste prime volte che sono uscito dal carcere in permesso, è stato spiegare ad alcune mie vecchie amicizie e anche a mio fratello, ancora adolescente, che cosa mi è successo nella vita che mi ha portato a commettere i reati di cui sto espiando la pena. Ho dovuto riaprire alcune porte che una volta mi facevano paura, che mi facevano fuggire, ho dovuto toccare alcune corde che un tempo mi causavano molto dolore.

Ma quando mi è stato chiesto come è stata fino ad oggi la mia carcerazione, ho risposto che mi considero fortunato perché nel lungo percorso che ho effettuato all’interno degli istituti di reclusione in cui sono stato, ho avuto la fortuna di incontrare figure istituzionali e volontari, molto credibili e affidabili, che con la loro capacità di ascoltare e di saper giungere al fulcro del problema, mi hanno aiutato a lavorare sulle mie fragilità e su ciò che mi ha fatto male, a liberarmi della corazza che mi ero costruito, ma soprattutto a capire quali meccanismi mi avevano portato a farmi sedurre dal male.

Una volta queste figure erano molto lontane da me e oggi capisco che io utilizzavo la loro lontananza come alibi, per giustificare le mie azioni o alcune delle decisioni che prendevo ai tempi. Erano bersaglio del mio odio, disprezzo e arroganza. Preferivo affidare la mia vita ai diversi venditori di maschere che incontravo nel mio cammino. Giorno dopo giorno, questi venditori di maschere hanno contribuito a farmi innalzare un muro di incomunicabilità e a farmi vivere in una bolla in cui la mia immagine andava sbiadendo fino a non essere più riconoscibile.

Quando arrivò il momento di pagare il peso delle mie azioni, la condanna per me fu come uno schiaffo e dissi a me stesso che, se dovevo pagare per il peso delle mie azioni, io volevo vedere dove risiedeva la mia responsabilità. Pertanto, quando iniziai la mia carcerazione, cominciai a cercare delle figure che potessero darmi una risposta. Non pensavo che per trovare le risposte ,per prima cosa, avrei dovuto lavorare sulle mie fragilità e bonificare le figure del mio passato che mi avevano fatto sviluppare una conflittualità verso le autorità e il riconoscimento del loro ruolo.

Incomincio pertanto a stringere delle alleanze, giungo al tavolo del Gruppo della Trasgressione, dove un giorno ci domandiamo “che cosa permette a un detenuto di ignorare le responsabilità verso se stesso“.

Le risposte erano state molte, in certi casi in contrasto l’una con l’altra, ma l’essere umano è un mix perfetto di contraddizioni. lo penso che uno dei maggiori input che può alimentare il senso di responsabilità sia la cultura, l’istruzione, che oltre a risvegliare la nostra coscienza, aiuta un detenuto a intraprendere progettualità, a stringere alleanze per il futuro e ad assumere una posizione consapevole nei confronti delle proprie scelte.

Molto importanti per la crescita sono anche i riconoscimenti di chi ti segue nel cammino. La valorizzazione dei risultati che un detenuto ottiene è fondamentale per far sì che non ci si allontani dalle istituzioni e dai buoni alleati. Io credo che tutti i detenuti dovrebbero venire incoraggiati attivamente a intraprendere percorsi di formazione e di acculturazione.

Nella pianificazione del mio futuro, io interpello le diverse figure istituzionali, le rendo partecipi delle mie decisioni e concordiamo insieme il da farsi, lo stesso faccio anche con le figure non istituzionali che nel lungo cammino hanno creduto in me. Oggi piano piano sto riprendendo il controllo della mia vita. Ho sconfitto il mio Minotauro e sono riuscito a costruirmi il mio GPS per potermi muovere in armonia tra regole e paure in questo labirinto della vita, insomma ho trovato un filo d’Arianna 2.0, ma soprattutto sono riuscito a trovare il mio equilibrio grazie a questo filo sottile che seguo per orientarmi fra il mio DELIRIO e la mia RIUSCITA.

Oggi sono felice delle mete che ho raggiunto e sto raggiungendo, ma sono anche consapevole che gran parte del merito dei miei traguardi sono dovuti alla cultura e allo sport, entrambi utili come strumento di emancipazione.

Mi sono purificato nel Lete, e ora potrò volare senza bruciarmi le ali come Icaro, conquistare emozioni e vivere esperienze uniche.

Concludo ringraziando tutti quegli alleati che in questo lungo cammino di cambiamento mi hanno aiutato con i loro strumenti a sorreggere il peso della mia realtà. Alcuni di loro sono diventati oggi colonne portanti nella mia vita e fari per poter ritrovare il porto sicuro nei momenti di tempesta, ma soprattutto grazie per avermi dato gli strumenti per poter diventare faro per altre persone che stanno intraprendendo questo lungo cammino.

Emmanuel Huaranga

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La peggiore sconfitta

La libertà è sacrosanta, è il valore più prezioso che l’uomo ha mai avuto dalla vita. Tutta la terra e i mari con i loro tesori non sono paragonabili al bene della libertà. La peggiore sconfitta per un uomo è perdere la propria libertà per averla disamata.

Spesso, da quando sono qui in carcere, mi sento un idiota perché penso che le persone che conoscerò non vorranno relazionarsi con me perché potranno pensare che, se io non ho saputo amare la mia libertà, non sarò nemmeno capace di amare e rispettare i loro valori.

Adesso che sono qui, bloccato dal mio passato, ho cominciato a chiedermi cosa posso fare per allargare i miei spazi e forzare le mie sbarre mentali, per illuminare altri pezzi della mia vita e scoprire risorse dentro di me. Come posso liberarmi dalle cose negative che mi hanno portato a perdere la mia libertà?

Massimo Strazzullo

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La nave di Teseo

Rimescolando quotidianamente le riflessioni fatte con il Gruppo della Trasgressione e leggendo, qualche volta, passaggi di libri “casuali”,  sono stato affascinato dalla narrazione della nave di Teseo: una imbarcazione rimasta intatta nel suo splendore, pur avendo affrontato viaggi impegnativie le inevitabili logorazioni del tempo.

Allora mi sono chiesto: ma com’è possibile mantenersi integri malgrado tutto questo tempo? La risposta è stata semplice nella sua complessità.

La nave godeva di accudimento e manutenzione. Ogni pezzo consumato veniva sistematicamente sostituito. Ecco la ragione della sua perfetta integrità e della sua immutata bellezza nel tempo.

Ma si tratta ancora della stessa nave costruita all’epoca o, pian piano e in conseguenza delle manutenzioni e delle sostituzioni delle componenti usurate, si tratta di un’altra nave, un’altra identità?

La cosa certa è che la nave è rimasta quella di Teseo, pur se le vicende le difficoltà affrontate l’hanno indubbiamente modificata. Il tempo trasforma, sostituisce e a volte riesce a cambiare l’identità di un uomo, pur rimanendo l’uomo, la sua identità e i suoi primi obittivi riconoscibbili.

Se le istituzioni riuscissero a concepire ciò, forse avrebbero meno difficoltà ad aiutare le persone che passano dal carcere a rinnovare ciascuna la propria nave.  In questo modo potrebbero restituire alla collettività nuove identità con nuove e consapevoli responsabilità.

Roberto Cannavò

  • Quanti sogni, di Vito Cattaneo
  • Invincibili, di Cristiano De André

Abbiate Guazzone, Marzo 2010- La Trsg.band e il Gruppo della Trasgressione

Un pomeriggio di libertà

Alcuni giorni fa, con il Gruppo della Trasgressione, ho avuto la possibilità di trascorrere un pomeriggio nel carcere di Opera, una realtà che mi ha sempre incuriosito sin da ragazzina. Premetto che già in altre occasioni ho potuto assistere alle attività del gruppo e più volte avrei voluto scrivere un mio pensiero riguardo le emozioni che ho provato in questi incontri, ma essendo riservata e insicura mi sono sempre bloccata.

Sembra un paradosso, ma ascoltando le parole di alcuni detenuti ho provato una sensazione di pura libertà. Quella libertà mentale che da tempo stavo cercando. Grazie agli interventi dei detenuti, delle vittime delle mafie e degli studenti, ho rivisto in me quella bambina che ho tenuto nascosta fino ad oggi e soprattutto la rabbia che tenevo sotterrata.

Riflettendo sul mio passato mi sento di dire che a differenza dei detenuti sono stata fortunata a non perdermi quando mi sono sentita tradita dagli affetti più cari. L’avere vissuto in un collegio per i tre anni delle scuole medie, per scelta dei miei genitori, mi ha segnato particolarmente a tal punto da farmi sentire sbagliata sia all’interno della mia famiglia che nella società. Intanto la rabbia in me aumentava sempre di più e mi spingeva a sentimenti di vendetta nei confronti delle persone che mi stavano accanto. Oggi a distanza di molti anni e mamma di tre figli posso affermare, pur non avendo commesso reati, che quell’evento ha segnato la mia vita e avrebbe potuto spingermi a svendere i miei valori.

Ascoltando le varie persone del gruppo mi sono resa conto che questo rancore e questa sete di vendetta esistono ancora dentro di me e si ripresentano in ogni occasione, ad esempio esco da una separazione dolorosa, un fallimento che mi ha portato ad avere anche qui una rabbia ingestibile dentro di me da non riuscire a perdonare e a perdonarmi. In carcere, accanto ai detenuti, mi sono sentita libera respirando la loro forte voglia di libertà. Immedesimarmi in loro mi ha permesso di percepire le motivazioni che li spingono al cambiamento, proprio ciò di cui ho bisogno anch’io pur essendo una cittadina libera. Anche le parole delle vittime delle mafie e di una studentessa mi hanno colpito e ricordo che mi è sorta spontanea una domanda: ma chi sono io per poter giudicare e non riuscire a capire la forza del perdono? Q

uesta per me è stata un’esperienza forte ed emozionante al tempo stesso per cui ringrazio soprattutto il mio compagno e poi il Gruppo della Trasgressione che mi hanno permesso di viverla e di guardarmi dentro.

Francesca Zani

Il fallimento

Ci sono parole che evocano disagio solo a pensarle. Parole che vengono evitate, sussurrate. Parole che vengono lasciate sospese, parole non dette.

La parola “fallimento” è una di queste. Si cerca di evitare poiché evoca una sensazione sgradevole, sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. A volte viene usata in modo impersonale: “è stato un fallimento”. Un fallimento di chi? Mio? Tuo? Nostro?

Fallire è un verbo che non ci piace, ci ricorda che siamo umani e che possiamo sbagliare. È difficile anche solo pensare di aver fallito, figurarsi dirlo. E quando si trova il coraggio di ammetterlo, spesso gli altri tendono a trovare parole di conforto: “non preoccuparti, ti rifarai, avrai un’altra occasione, non pensarci”. Spesso è vero, in molti casi il fallimento ci permette di riprovarci, con sforzi ancora maggiori, e, nella maggior parte delle volte, così dicono, dopo il fallimento arriva il successo. È raro che si parli della sensazione di fallimento. Spesso si preferisce cercare le cause, oppure trovare soluzioni.

Il fallimento si affronta da soli, non se ne parla a cena con gli amici o al bar con i colleghi. Eppure la maggioranza di noi, prima o poi, fallisce almeno una volta nel corso della sua vita. Fallisce in amore, in famiglia, nella carriera, nello studio. Si può fallire in qualsiasi cosa, eppure non si riesce a confrontarsi con gli altri. Non si riesce a rendersi responsabili del fallimento.

Da quando frequento il Gruppo della Trasgressione, spesso parlo volentieri con amici e conoscenti di quello che faccio e delle sensazioni che il gruppo mi crea. Tuttavia a volte vengo liquidata con un “mah si, tanto i detenuti sono il fallimento della società”. Ma noi facciamo parte della società giusto? Ognuno di noi è la società. E allora perché riusciamo a parlare a cuor leggero di un fallimento generale, ma fatichiamo a pensare ad un nostro fallimento personale? Forse, se parlassimo di più dei nostri fallimenti riusciremmo ad accettarli più facilmente. E una volta accettati, potrebbe essere più facile cercare soluzioni e comportarsi in modo che non capitino di nuovo.

Di una cosa sono abbastanza certa: parlarne con qualcuno, senza vergogna o sensi di colpa, può aiutare a comprendere che qualcuno ha già vissuto e, nella maggior parte dei casi, anche superato quello che noi crediamo sia un fallimento insuperabile.

Il fallimento fa parte della natura dell’essere umano e, a volte, è giusto ricordarci che possiamo anche fallire.

Anita Saccani

Notte

Ha un sapore di eterno, come il silenzio che la avvolge.
Culla i cuori, scompiglia i pensieri, li rimuove,
li agita, li trasforma in brezza di mare,
li alleggerisce in una sinuosa danza.
Si dilatano i respiri nel tempo e nello spazio.
Dona un tempo per sognare, ma anche uno non sognato, negato che lei ci renderà, perché prima o poi bisognerà sognarlo.

Poesie

Simona Ferraresi