La primavera della coscienza

La primavera è la mia stagione preferita.

Dopo un inverno freddo e difficile, i boccioli fanno capolino e inondano di colori e profumi i prati, le strade e i davanzali.

La primavera è gioia e rinascita. E forse è per questo che mi piace così tanto il Gruppo della Trasgressione.

Gli ex detenuti sono i boccioli che hanno prima subito e poi provocato il gelo della coscienza. Ma oggi, che è primavera, sono sbocciati  e aiutano gli studenti e gli adolescenti, i nuovi semi, a crescere in una società che sia in grado di prevenire la devianza e di servirsi del contributo di chi, purtroppo, l’ha praticata in un inverno lontano.

 

Elisabetta Vanzini e la sua tesi di laurea

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Lungo il viaggio, diventare Noi

Qualcuno al Gruppo ha detto che nel corso della vita i gruppi cambiano col cambiare dei bisogni delle persone. Nel mio caso penso che il bisogno non sia stato tanto quello di cambiare gruppo ma proprio quello di far parte di un gruppo.

Sono solo due mesi che partecipo al Gruppo della Trasgressione, ma già mi rendo conto di come l’immagine che ho di questo gruppo sia mutata di pari passo con un mio primo movimento interiore. Il primo impatto lo potrei riassumere così: molte persone, molte professioni, molta eterogeneità, molte attività, molti progetti, molti messaggi. Questo “molto” non è stato un freno, ma ha suscitato degli interrogativi e un desiderio di chiarezza. I miei dubbi e le mie curiosità sono stati accolti tempestivamente da diversi membri del Gruppo, coinvolgendomi a poco a poco in una dinamica per me assolutamente nuova. Loro stavano iniziando ad accogliermi e io stavo accogliendo loro: stavamo diventando un Noi.

Contrariamente alle mie aspettative, nonostante i membri del Gruppo siano appunto molti e se ne aggiungano continuamente, si percepisce sempre un equilibro interno. Vi è una stabilità in cui la novità, costituita dall’ingresso di nuovi partecipanti o dall’introduzione di nuove tematiche, non è mai destabilizzante o fonte di grosse criticità ma è sempre un arricchimento sia per i proponenti sia per il Gruppo che la riceve. Non è un caso che Lewin dicesse che il gruppo – in continuo scambio con l’ambiente esterno – sia una realtà dinamica, in continuo movimento, la cui staticità ne decreterebbe la fine. Sono concetti familiari, di cui avevo letto e studiato, ma che forse non avevo mai del tutto assorbito: ora finalmente ne faccio esperienza in prima persona.

Trovo che questa realtà sia qualcosa di simile a una macchina che si trova in un punto indeterminato di una salita di cui però non si intravede la fine. È una macchina dalla carrozzeria colorata e vivace, un po’ bizzarra, ma se la si osserva dentro, più da vicino e nel dettaglio, si può cogliere come i vari elementi combacino bene e siano necessari l’uno per l’altro per proseguire sul sentiero. La salita è ardua e faticosa, serve un rifornimento continuo, perciò è fondamentale che ogni elemento concorra con le proprie energie e le proprie iniziative.

Ma la macchina, per quanto solida, non è esente dal rischio di sbandare o di scivolare nella buca dietro l’angolo. Inoltre, un motore grosso e potente e un serbatoio pieno servono a ben poco se non si sa dove si vuole andare. Una figura che orienti le energie dei vari elementi in una direzione, che ammortizzi le cadute, che protegga l’integrità della macchina da potenziali rischi, è indispensabile; in questo modo ciascuno viene motivato a migliorarsi e il gruppo a procedere lungo la strada.

Il traguardo non è ben visibile, ma come ci si potrebbe arrestare? La macchina scivolerebbe all’indietro vanificando i sacrifici di tutti i componenti. In questo percorso si deve tener conto di tutte le parti, anche di quelle che per lungo tempo sono state disconosciute, imparando ad ascoltare le vibrazioni, i rumori e i cigolii degli elementi che fanno più fatica. In questo modo si matura la visione che per raggiungere un obiettivo è necessario riconoscere che l’Altro, pur nella sua diversità di materiale e composizione, è parte integrante della macchina.

E intanto si progredisce, a volte lungo terreni più dolci a volte più accidentati; ma il desiderio di crescere e salire si rinnova, mentre le potenzialità di ciascuno cercano sbocchi e attualizzazioni, perché è il sentire le proprie potenzialità che motiva a fare qualcosa per diventare, per essere.

Affinché vi sia una tensione in questa direzione è importante imparare ad abbandonare i sentieri brevi, facili, le scorciatoie che han portato molti a lasciarsi sedurre dalla mediocrità. Questa è una via particolarmente insidiosa perché portatrice dell’ingannevole promessa di poter crescere a costi inferiori… intanto che si scivola nel mondo della devianza.

Per non lasciarsi affascinare da questa via, tanto luccicante quanto illusoria, un modo può essere quello di ritrovare un senso di appartenenza, collaborando per un progetto con chi non ha timore di nell’imbattersi nei dossi e negli ostacoli che si incontrano via via, perché ha e cerca col gruppo gli strumenti per farvi fronte e superarli.

Ottavia Alliata

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Il dolce e l’amaro

IL GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE 8 MARZO 2021
Cineforum su ‘’Il dolce e l’amaro’’ (Andrea Porporati, 2007)

LA TRAMA
Saro Scordia è il figlio di Vito Scordia, mafioso siciliano morto in carcere durante alcune rivolte. Dopo la morte del padre, Saro viene introdotto gradualmente nella vita mafiosa tramite un amico di famiglia, Don Gaetano, il quale gli assegna diversi “lavori” da portare a termine. Saro diviene presto “uomo d’onore”, giurando fedeltà a Cosa Nostra e assicurandosi così il “rispetto” di tutto il paese. Arriva a compiere anche degli omicidi su commissione. Inoltre, per obbedire alle indicazioni di don Gaetano, si sposa con una donna che non ama e mette su famiglia. La sua vita da deviante lo porta ad allontanarsi dal suo unico amore, Ada, la quale si rifiuta di sposarlo per la vita che conduce. Più avanti Saro inizia a guardare con una certa perplessità le dinamiche all’interno della mafia e decide di fuggire in una città del Nord Italia per rifarsi una vita sotto protezione; qui si ricongiunge con Ada, dalla quale nasce una figlia. Si rende così conto della bellezza delle cose semplici come tornare a casa dalla propria famiglia, cucinare per sua figlia e per sua moglie, lontano dalla sua vecchia vita nella mafia. 

 

L’INGRESSO
Il protagonista descrive l’ingresso nella mafia come l’ingresso nella famiglia perfetta, dove “tutto viene fatto alla luce del sole e ci si dice sempre la verità”,  principi che contrastano molto con ciò che nei fatti è la mafia. Nella prima parte del film viene ben descritto come chi entra a far parte di queste associazioni mafiose viva in una realtà parallela dove tutto viene distorto e si pensa che il rispetto e l’invidia altrui siano quello che più conta nella vita. E così, passo dopo passo, si giunge a fare giuramento a un’associazione che si vede come perfetta. 

 

LA SEDUZIONE DEL MALE
In certi ambienti e in certi contesti sociali è facile essere sedotti dal male e dalla criminalità in giovane età; è una seduzione che avviene in maniera così rapida che il soggetto quasi non se ne accorge. Il male, in questi tipi di realtà, ha un potere seduttivo molto forte. Questo film rimanda a quello che al gruppo della trasgressione viene definito ‘’il virus delle gioie corte’’: è più facile godere di qualcosa la cui fruizione è immediata piuttosto che di quello che deve essere costruito con un impegno costante. Questo vale anche per la costruzione di affetti e di relazioni durature. 

 

LE MANCANZE DI SARO
Quello che manca a Saro nella sua vita è la libertà; Saro non è libero di scegliere, deve semplicemente eseguire degli ordini, deve “riconoscere la Luna al posto del Sole” e annullare la sua individualità e i suoi affetti. Ada gli dice in maniera chiara che non può condividere la vita con un soggetto che ha uno stile di vita criminale. Saro in questi incontri con Ada esprime tutta la sua violenza, dentro di lui c’è solo l’idea di afferrare quel che considera una sua proprietà privata. Saro sposa Antonia, la prima moglie, perché il padrino ha pensato fosse il momento per lui di mettere su famiglia; la sua vita è scandita minuto per minuto dalla volontà e dalle aspettative di qualcuno che lo domina, che è estraneo ai suoi sentimenti, ma al quale ha deciso di consegnare la sua libertà. Questo film rende bene l’idea delle associazioni criminali in cui si è inglobati senza fermarsi mai a pensare, in cui viene anestetizzato tutto, dove c’è solo azione e non riflessione. 

 

CRIMINALITÀ E GIUSTIZIA
Durante il nostro incontro ci siamo soffermati sull’idea che “il delinquente pratica una sua giustizia”: egli viene da una storia che lo ha abituato a percepire solo cose appariscenti e poi a procedere in conseguenza ai suoi abbagli. Egli capisce bene che quando sequestra qualcuno o uccide non sta praticando la giustizia, ma ritiene, con il conforto dei suoi complici, che quella è la cosa da fare; tutte le sollecitazioni interne che suggeriscono altro vengono messe a tacere e, in conseguenza di ciò, egli commette abusi e azioni criminali che nel suo delirio hanno lo scopo di ristabilire un equilibrio violato. Il  “cavaliere della giustizia”, motivato a “mettere le cose a posto”  vive in un suo mondo fatto di poche cose importanti. Dal suo punto di vista,  all’interno del mondo che considera significativo si deve procedere con giustizia; ad esempio, nel film, i ragazzini accusati di aver derubato la madre di Sciacca dovevano essere puniti e non uccisi; ma dopo aver legiferato insieme, il sig. Sciacca decide che occorre procedere secondo una giustizia più appropriata e, se gli altri non capiscono, pazienza. Il mafioso, insomma, pratica la giustizia nell’Hic Et Nunc,  senza troppo preoccuparsi delle regole fissate da lui stesso o dal suo clan il giorno prima. Il suo senso della giustizia è quello del miope che inquadra ciò che conta solo all’interno perimetro che la sua miopia gli permette di raggiungere. Ciò che succede al di là non lo riguarda. Mosso dalle frustrazioni, dalla rabbia e dai modelli con cui è cresciuto, trova nel clan l’ambiente per diventare forte e ristabilire la giustizia nel mondo (nel suo cortile), senza accorgersi o senza dare rilievo al fatto che tante volte i suoi figli giocano con i bambini del cortile accanto.

 

LA LEGGE MORALE
Bisogna esplorare il percorso che porta l’adolescente a operare le sue prime scelte.  Quello che sentiamo non è solo il risultato di ciò che noi scegliamo, ma anche dello spazio che ci viene presentato dalle figure significative che ci aiutano a crescere. Saro si comporterà da burattino nelle mani del padrino Butera fin quando non capirà  di aver perso il controllo sulla sua stessa vita. A questa nuova visione delle cose contribuisce Ada, che, nonostante il contesto siciliano, rifiuta lo stile di vita di Saro; non è un rifiuto all’amore, ma della scelta di vita sbagliata fatta da Saro. 

 

AMORE E DELINQUENZA
Prendiamo ora in considerazione il rapporto con Ada, la donna di cui Saro si mostra innamorato e che continua a ricercare nel corso del film per convincerla ad avere una relazione con lui. Il forte sentimento di Saro è ricambiato, ma Ada gli dice con fermezza di non poter condividere i suoi abusi e il suo stile di vita.

Durante la discussione del film ci si è chiesti se il sentimento che Saro prova nei confronti di Ada si possa chiamare davvero “amore”, un amore assoggettato al potere e ad abusi continui. Saro non è in grado di far coesistere i suoi reali interessi: da un lato fare strada nella mafia, dall’altro l’amore per Ada.

E Ada come può  amare un violento, un assassino? Ma forse Ada riesce a vedere la violenza nei suoi confronti come una debolezza dell’uomo e questo le permette di non rifiutarlo in modo definitivo. Il sentimento della donna va oltre il delinquente, vede lontano e vede anche per Saro: alla fine l’uomo va dove la donna indica. Forse ci va perché a lui conviene, o forse perché a loro due conviene.

È bene sottolineare comunque che non tutti sono in grado di andare dove gli altri indicano: Saro invece ci è riuscito e dalla scelta di Saro di inseguire Ada nasce una famiglia.

 

L’ASSOCIAZIONE MAFIOSA: UNA FAMIGLIA CON GERARCHIE E REGOLE
Quando un giovane entra in un’organizzazione criminale qualcuno gli dice che deve vedere “la Luna in cielo e non il Sole”, per fargli capire chi decide l’ordine del mondo. 

Nel momento in cui a Saro viene chiesto di uccidere il giudice, egli vive un turbamento, che vorrebbe condividere con l’amico, con il quale però non riesce a confidarsi. A questo punto inizia a toccare la solitudine. Il delinquente e il mafioso a poco a poco si ritrovano soli. Di fatto, il padre aveva avvertito Saro che, entrando a far parte di quella realtà, non ci sarebbe stato solo il dolce che stava assaporando, ma anche l’amaro.

Ci sono persone che sono arrivate a uccidere le proprie sorelle, il padre, le proprie figlie perché non rispettavano le regole della loro vera famiglia, Cosa Nostra. Infatti, ai componenti dell’associazione mafiosa viene imposto il disconoscimento della propria famiglia d’origine perché la prima vera famiglia deve essere la mafia.

All’interno della “famiglia” si deve fare strada perché chi rimane indietro muore. Tuttavia, si deve accrescere il proprio potere cercando di non superare mai chi è più potente,  altrimenti si muore. 

Una regola di Cosa Nostra è quella di saper fare il padre e il marito e infatti anche Saro viene spinto a sposarsi e formare una famiglia. Tuttavia, il mafioso pensa di rispettare la moglie e i figli, ma non è capace né di essere un marito né di essere un padre. 

Nel momento in cui si entra a far parte di Cosa Nostra e si fa un giuramento, si diventa un uomo d’onore. Un “uomo d’onore” non può mai mentire ad un altro “uomo d’onore”. Per questo motivo agli occhi di Saro quel mondo appare come perfetto, come una bella famiglia di cui fidarsi.

 

IL CAMBIAMENTO
È difficile accettare l’idea che persone che hanno fatto parte di associazioni mafiose possano cambiare. Nel corso della discussione ci si chiede se Saro sia riuscito a fare un serio percorso di autocritica. Guardando il film si ha la sensazione che l’evoluzione di Saro non sia sorretta da una reale presa di coscienza del male che ha fatto. Non c’è stata una rielaborazione effettiva del suo passato e del suo vissuto emotivo. È un po’ come se si fosse trovato con le spalle al muro e si fosse rifugiato in Ada, scappando dal suo passato.

 

LA FIGURA DI ADA
Ada è una donna con una capacità straordinaria di leggere la realtà e saper guardare oltre. All’inizio dei film vediamo Ada e Saro passare insieme una giornata ed emerge chiaramente tra loro un trionfo di affettività, desiderio e amore. Lei ha affrontato molte difficoltà e fatto una scelta complessa composta da molteplici passaggi, che permetteranno a Saro di costruire un nuovo futuro, diventando una persona diversa. Non è chiaro nel film se Saro sia stato capace di aggiornare la sua visione della donna e del loro rapporto. Si intuisce però che la coppia che si è formata vive nell’universo morale della donna. Ada non scende a compromessi con Saro, lascia la Sicilia e si trasferisce in un paese del Nord Italia, paese dove Saro cercherà di aprirsi a una nuova vita,  allontanandosi dall’ambiente mafioso e consegnando ad Ada le proprie fragilità.

 

LA COLLABORAZIONE CON GLI ORGANI DI GIUSTIZIA
La collaborazione con la giustizia di Saro ha chiaramente dei connotati di interesse personale e privato e gli serve per salvarsi la vita, per portare avanti il rapporto con Ada che è stata la sua “molla”, essendo l’elemento che l’ha salvato e pungolato fino al momento della scelta di collaborare.

Al gruppo ci si chiede quale evoluzione abbia avuto la coscienza di Saro quando decide di raggiungere Ada. Prima di questa scelta, Saro si dimostra perplesso rispetto all’ordine di uccidere il giudice di cui è amico, ma non dimostra un rifiuto dei principi della mafia.

Il pentito non passa attraverso un processo di ricostruzione della coscienza, dell’identità, di un “percorso di cittadinanza”. Questo espone la categoria dei pentiti a quanto viene presentato nel film: recidive, commistione, ambiguità, ritrattazione e ricatti. Diverso è il discorso su persone che, attraverso un percorso personale di molti anni, tornano ad essere cittadini. Esistono inoltre anche i cosiddetti “dissociati”, ovvero coloro che non hanno più nulla da raccontare o comunicare, ma solo brandelli di verità da vendere per motivi differenti, che si dissociano dall’ambiente criminale per avere dei ritorni in termini di benefici modesti. Il pentito, il dissociato e il trasgressore sono tre figure che hanno caratteristiche, percorsi e lavori individuali profondamente diversi. 

 

LA PERPLESSITÀ DI SARO
In diversi momenti del film, Saro consegna allo spettatore la sua perplessità e il suo turbamento nonostante continui a procedere per la sua strada. Saro non è il fanatico che crede a quel che viene dichiarato col giuramento mafioso. I passaggi in virtù dei quali diventa progressivamente uomo d’onore non sono accompagnati da un’intensificazione del suo delirio. Potrebbe essere interessante allora chiedersi come si sente e cosa vive una persona durante il giuramento come uomo d’onore.

 

TESTIMONIANZA DI EX-DETENUTO
“Nel momento in cui si entra in Cosa Nostra non viene estromessa la famiglia che uno si è creato, ma necessariamente viene messa in secondo piano, perché la prima famiglia è Cosa Nostra. Ci sono persone di Cosa Nostra che hanno ucciso alcuni familiari in quanto non rientravano nei canoni prestabiliti. Spesso all’interno di Cosa Nostra la donna subisce, oppure capita che per poter sposare una donna sia necessario ucciderne il padre (in quanto carabiniere ad esempio), senza che questa sia a conoscenza di chi abbia commissionato la morte del padre. Quando una persona diventa parte di un’organizzazione criminale, si è già avvicinato a quella famiglia, commettendo alcuni reati. Un tempo mi sentivo grande, oggi mi chiedo perché ho fatto tutto questo” 

 

RICOSTRUIRE LA CONSAPEVOLEZZA DEL PROPRIO SÉ
Il recupero delle persone non è cosa facile. Il regista propone la collaborazione con la giustizia come alternativa per far giungere Saro alla presa di coscienza della parte amara della vita, innescando una crescita, un percorso di purificazione, redenzione e consapevolezza del proprio sé. 

Diversamente dai detenuti del Gruppo della Trasgressione, che rivendicano il valore di un percorso fatto a proprie spese, a Saro viene proposto di ricostruirsi una vita e gli viene offerto un lavoro in edicola, veicolando l’idea che egli sia diventato in grado di sudarsi la vita, accettando l’amarezza e il rischio che vivono tutti i cittadini.

 

TESTIMONIANZA DI UN EX-DETENUTO
“Noi che veniamo da tantissimi anni di carcere, non siamo collaboratori di giustizia, ma collaboriamo con le autorità e in questo caso specifico attraverso il Gruppo della Trasgressione. Non arretriamo nelle nostre responsabilità. Se una persona entra in carcere e collabora fin da subito, in questo modo non si evolve. Penso che il lavoro fatto in dieci anni con il Gruppo della Trasgressione sia una vera collaborazione: bisogna impegnarsi e mettere al proprio interno semi che possano germogliare. 

Alcuni, avendo collaborato, non hanno mai fatto un giorno di carcere. Io invece penso che sia necessario sudarsi le cose, facendosi aiutare da altre persone capaci di fornirti gli strumenti per far nascere dentro di te qualcosa, per vedere cosa c’è in questa parte di mondo che tu da solo non sei capace di vedere. Se non si trovano persone che ti portano a vedere l’altra parte del mondo, questo in carcere non succederà mai, perché prevalgono gli interessi del capo branco e non il desiderio di aiutare l’altro”.

 

Alessia, Asia, Federica e Arianna

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Le attività di Trasgressione.net

Arianna Picco, Matricola 482607
CORSO DI STUDIO: Psicologia
TIROCINIO CURRICULARE PRESSO: Associazione Trasgressione.net
PERIODO DEL TIROCINIO: dal 17/11/2020 al 30/12/2020

CARATTERISTICHE GENERALI DELL’ATTIVITÁ SVOLTA
Il “Gruppo della Trasgressione” è stato fondato dal Dott. Aparo, psicologo e psicoterapeuta che opera da più di 40 anni in carcere e che circa 20 anni fa ha avuto l’idea innovativa di favorire il confronto tra detenuti, ex detenuti, studenti, famigliari di vittime di reato e comuni cittadini perché ognuno potesse trarne beneficio. Nel 2006 dal gruppo è nata l’Associazione “Trasgressione.net” e nel 2012 una Cooperativa Sociale, che permette, attraverso la consegna di frutta e verdura a domicilio alle persone bisognose e con la vendita nei mercati, un’entrata economica e un lavoro a ex detenuti, favorendo un loro reinserimento “assistito” nella società.

Obiettivi principali del Gruppo della Trasgressione sono il percorso per giungere alla consapevolezza dei propri strappi, dei propri errori; il riconoscimento delle proprie fragilità senza provarne vergogna ma accogliendole e valorizzandole; il recupero del rapporto con i propri cari; la responsabilizzazione e la ricostruzione di una credibilità agli occhi della propria famiglia; il riconoscimento delle proprie emozioni e la condivisione delle stesse. Tutto questo avviene agli incontri del Gruppo della Trasgressione, presieduti dal Dott. Aparo, che si pone come figura guida nella ricostruzione di sé dopo un passato di devianza.

Di norma, gli incontri tra i diversi componenti del gruppo si svolgono ogni settimana presso la sede di via Sant’Abbondio a Milano e nelle carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore; al momento, a causa della situazione di emergenza sanitaria, sono invece online sulla piattaforma Zoom.

Sono previsti periodicamente incontri con le scuole in cui tirocinanti ed ex detenuti parlano agli studenti degli istituti inferiori e superiori raccontando la loro esperienza e facendo loro comprendere il danno che si crea a se stessi e agli altri attraverso la devianza.

Il lunedì le attività online sono improntate sul Progetto di Cineforum “La Banalità e la Complessità del Male” durante il quale si discute di film inerenti la tematica della devianza, cercando di analizzare i fattori di rischio e di protezione nello sviluppo di delinquenza, tossicodipendenza e bullismo. A questi incontri hanno partecipato anche gli studenti del Liceo Artistico Brera di Milano, collaborando attivamente nell’esprimere le loro riflessioni e dare i loro contributi. Durante questi incontri si tratta anche il tema della Criminalità Organizzata, su cui vengono visti alcuni film di cui si discute; durante un incontro abbiamo avuto modo di confrontarci con la dott.ssa Monica Forte, Presidente della Commissione Antimafia della Lombardia.

Il martedì si svolge il progetto “Genitorialità responsabile”, grazie al quale ci si confronta sulla tematica della spesso difficile relazione tra genitori detenuti e figli: i figli infatti fanno fatica a vedere un genitore detenuto come punto di riferimento, provano sentimenti contrastanti nei suoi confronti, oppure maturano rabbia verso gli agenti penitenziari e verso l’autorità che considerano ingiuste nei confronti del proprio genitore. La situazione di disagio che spesso questi giovani vivono può condurre alla devianza di seconda generazione. Occorre per questi motivi agire per favorire maggiori momenti di incontro tra genitori detenuti e figli, aiutando i genitori a ricostruire una credibilità agli occhi del figlio, attraverso attività svolte insieme ai propri cari.

A tal proposito si è ideato un progetto di cucina in carcere, nel quale i genitori detenuti possano preparare e consumare un pranzo con i loro figli e con gli agenti penitenziari, per facilitare attraverso un’attività creativa come la cucina un rapporto funzionale tra le tre parti.

Il giovedì si tratta invece il progetto “Palestra della creatività”, discutendo di possibili iniziative di prevenzione della devianza, del bullismo e della tossicodipendenza attraverso la creazione e la valorizzazione di elaborati artistici (musica, poesie, disegni, sculture). L’idea di fondo è che un ambiente dove le risorse individuali vengono accolte e coordinate per coltivare obiettivi comuni possa essere utile a prevenire il disagio e i vissuti di marginalità, che sono non di rado anticamera della devianza.

Un altro obiettivo del Gruppo della Trasgressione è favorire l’integrazione delle persone straniere in Italia: a tal proposito si è pensato di facilitare dei momenti in carcere in cui i detenuti a turno cucinino un piatto tipico del loro Paese di provenienza per offrirlo a tutte le altre persone. Questo si pensa possa facilitare i rapporti difficili che spesso si vengono a creare in carcere tra detenuti, rendendo ancora più complicato e quindi disfunzionale il periodo di detenzione.

A seguito di ogni incontro era mio compito redigere dei verbali insieme ad altri studenti tirocinanti, riportando tutto ciò che veniva trattato durante la giornata. Era richiesto inoltre ai tirocinanti di partecipare attivamente agli incontri, dando contributi e idee inerenti ai progetti in programma.

Ho avuto modo di partecipare alla preparazione e realizzazione dello spettacolo teatrale “Il mito di Sisifo” con la collaborazione di Municipio 5 di Milano. Questa rappresentazione, attraverso il mito greco, permette di trattare tematiche legate alla devianza, al delirio di onnipotenza di chi delinque, al rapporto contrastato tra genitori e figli, fino alla presa di consapevolezza da parte del detenuto del proprio percorso e dei propri errori e alla formazione del cittadino, cioè della persona interessata alla “Cosa pubblica”. Questo spettacolo permette a studenti tirocinanti, cittadini, famigliari di vittime di reato, detenuti ed ex detenuti di dialogare, confrontarsi ed interagire in maniera creativa e produttiva.

Durante il mio tirocinio ho avuto la possibilità inoltre di partecipare come membro attivo del Gruppo della Trasgressione a incontri con la comunità Oklahoma di Milano, un centro di accoglienza di giovani in messa alla prova o con problematiche famigliari, con i quali si è pensato di svolgere attività creative e azioni socialmente utili in collaborazione con Municipio 5 di Milano per prevenire la devianza ed il disagio.

 

OBIETTIVI RAGGIUNTI
Grazie a questo tirocinio ho acquisito più sicurezza in me stessa, più consapevolezza delle mie risorse e potenzialità. Ho avuto modo di aprirmi a riflessioni e punti di vista differenti, collaborando insieme agli altri membri dell’Associazione per obiettivi comuni, dando il mio contributo per idee di progetti in ambito sociale e potenziando le mie capacità di ascolto attivo, fondamentali per la professione di psicologo.

Ho imparato a riconoscere i fattori di rischio e di protezione del disagio e della devianza, ed a progettare piani di intervento e di prevenzione degli stessi. Ho conosciuto una realtà, quella carceraria, le cui problematicità riguardano tanti settori e sono ancora poco prese in considerazione dalla società: l’applicazione effettiva della funzione rieducativa della pena; il reinserimento sociale del detenuto durante e dopo la conclusione della pena; un supporto nella coltivazione di rapporti famigliari e, soprattutto, nel rapporto con i figli.

Ho conosciuto persone con vissuti differenti dal mio, che attraverso le loro parole mi hanno portato estremo arricchimento interiore, utile a livello personale e formativo per il mio futuro lavoro di psicologa. Attraverso questa esperienza ho imparato a dialogare e non solo a litigare con la mia timidezza e ho ampliato le mie conoscenze, confrontandomi costantemente su tematiche come l’importanza della figura genitoriale per un figlio, il rapporto con l’Autorità, la presa di coscienza dei possibili “strappi” subiti durante l’adolescenza e l’infanzia e la rielaborazione degli stessi, i sensi di colpa, l’importanza del riconoscimento dell’Altro, il percorso di cambiamento, di maturazione e di responsabilizzazione.

Il Gruppo della Trasgressione è uno strumento fondamentale per la società, in quanto permette un confronto sano e funzionale tra le persone favorendo l’emergere delle risorse insite in ognuno. Reputo di estrema importanza gli interventi svolti da questa Associazione all’interno ed all’esterno delle carceri in quanto permettono la prevenzione della devianza ed il recupero e la ricostruzione di un Cittadino.

Come citato dalla nostra Costituzione infatti, la funzione della pena deve essere rieducativa: questo appare in profonda contraddizione con la situazione reale delle carceri italiane e le modalità di detenzione; la chiave per il recupero di una persona, affinché una volta uscita dal carcere possa contribuire attivamente al benessere della società, non è l’emarginazione sociale ma il confronto attivo con la società civile che permetta un suo graduale reinserimento lavorativo nella società stessa attraverso il riconoscimento delle sue risorse. La ricostruzione di un cittadino è un processo lungo ma realizzabile e i cui effetti benefici si ripercuotono sul singolo, sulla sua famiglia (anche prevenendo la devianza di seconda generazione) e sulla società intera.

Poiché reputo i progetti del Gruppo della Trasgressione utili e innovativi, ho deciso di restare come membro attivo dell’Associazione.

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Male e bene da condividere

Tempo fa era stato chiesto alla dottoressa Giovanna Musco, presidente di “Associazione in Opera”, un incontro fra studenti e detenuti. I ragazzi dell’oratorio avevano già avuto esperienza di incontri all’interno del carcere, che però in epoca recente era stato difficile ripetere a causa del Covid 19. Circa un mese addietro, la richiesta è stata riformulata alla Musco la quale, essendo a conoscenza della mia autonomia di movimento, mi ha fatto la proposta.

Come avviene in tutti gli incontri di questo tipo, le emozioni sono sempre palpabili, alimentate dal senso di responsabilità di chi parla, dalla cura con cui ci si rivolge a chi ascolta, dall’impegno ad evitare il sensazionalismo, per  privilegiare, invece, il divenire dell’uomo, i passaggi attraverso i quali  siamo arrivati ai sentimenti e alle azioni del nostro passato, i passaggi grazie ai quali oggi viviamo, interpretiamo e costruiamo il nostro presente.

Sono stato sollecitato a dire chi ero e chi sono dai responsabili dell’oratorio (gli studenti non mi conoscevano e non sapevano nulla di me). Mentre raccontavo di me ho percepito attenzione e smarrimenti. Su circa 20 ragazzi, pochi hanno preso la parola per  domande e osservazioni,  la rimanenza sono rimasti silenti.

L’incontro è comunque durato circa due ore con un’atmosfera crescente di complicità, di prossimità. Personalmente, mi sono sentito a mio agio, pur rimanendo vigile nel modellare il mio vissuto.

I silenzi della maggior parte degli studenti, però, mi avevano lasciato qualche senso di vuoto, non perché pensavo d’essermi relazionato male, ma perché sentivo che i ragazzi si erano persi un’occasione per dare voce alle loro curiosità e alla intensità dei sentimenti che avevo percepito nella stanza. Sensazione, la mia, che a distanza di tempo ha trovato conferma attraverso i loro pensieri scritti. Ancora una volta, una comunicazione aperta, capace di dare spazio anche alle nostre fragilità, ci ha permesso di entrare in relazione e forse anche fare prevenzione. Di seguito gli interventi che i ragazzi hanno scritto nei giorni successivi all’incontro

Roberto Cannavò

 

Lorenzo Vivarelli
La parte che mi è rimasta impressa della testimonianza di Roberto è quando si è commosso mentre ci stava raccontato del suo ritrovamento con il prete di quando era giovane. Questo mi ha fatto capire che, come noi, i carcerati e in generale le persone che hanno commesso un reato provano le nostre stesse emozioni e quindi anche loro si commuovono per le piccole gioie che incontrano nelle loro giornate come tutti noi.

 

Edoardo
La vita è complicata e difficile, ed è legittimo sbagliare. Ma la differenza tra una persona e una Persona (con la maiuscola) è il saper ammettere il proprio errore e fare tutto quello che è possibile per riparare quest’ultimo. Nonostante questo penso che però il passato non può essere cancellato. Roberto Cannavò per me rimarrà sempre e comunque un killer di mafia, ma allo stesso tempo un uomo che è riuscito a rinascere dal suo passato. E sono convinto del fatto che, se delle persone si vede solo il male, si vive la vita allo stesso modo; allo stesso tempo se ci si sforza di vedere il bene si vivrà in modo più felice, sereno.

Accettare i propri errori è difficile. Dire “Ho sbagliato” è difficile. Riparare un errore è anche questo arduo ma, se si vuole davvero rimediare al danno, si è disposti a tutto. E dopo tutto sono contento esistano persone come Cannavò, che hanno avuto il coraggio di ammettere le proprie colpe e hanno il coraggio di cambiare, perché sono loro che riescono a farmi capire quanto sia importante fare sempre del bene e quanto rischio di rovinare la vita a me e a chi mi circonda se scelgo la via sbagliata.

Bisogna fare del bene sempre, a prescindere da tutto. Non importa quanto tu sia sfortunato, senza ricchezze, senza qualsiasi cosa: ritieniti fortunato che puoi ancora fare del bene. E se tutti pensassero a fare questo, il mondo sicuramente sarebbe un posto in cui l’amore, l’amicizia, la felicità sono cose accessibili a tutti. Il bene genera bene, e se inizio io a farlo, qualcun’ altro lo farà a me e ad altri e così via.

 

Pietro
Il suo racconto mi ha fatto capire quanto siano importanti le persone che ci circondano. Esse sono in grado di cambiarci la vita, sta a noi essere in grado di accogliere nel nostro cuore ciò che dicono o ci dimostrano. Le persone compiono miracoli, il pentimento e la consapevolezza di Roberto non sono forse un miracolo? La mia preghiera è quella di riuscire ad essere utile per le altre persone per non vivere una vita mediocre, spero anche io di riuscire a cambiare qualcosa nelle vite delle persone che mi stanno vicino.

 

Riccardo
Vedere e sentire la testimonianza di Roberto Cannavò, non è stato semplice per me, non tanto perché sapessi ciò che aveva fatto per essere recluso, ma perché le sue parole erano dense di emozione, un’emozione molto difficile da descrivere.

Provo ammirazione per quelle persone che, nonostante ciò che hanno alle spalle, bello o brutto che sia, decidono di sconvolgere la loro vita, cercandosi dentro.

Quando si è consapevoli che una cosa è sbagliata si prova fastidio solitamente. La vera forza di Roberto è stata quella di comprendere lo sbaglio, e ripartire da zero, trovando una nuova vita, percorrendo una nuova strada, e per questo lo ammiro: perché riuscire a mettere la propria persona così tanto in dubbio può essere una cosa irreversibile, ma chi ha il coraggio di farlo poi, ne giova per sempre poiché comincia per lui una vita nuova.

 

Emma
Ciao Roberto, mi hanno colpito molte cose che ci hai raccontato della tua vita. In particolare quando hai parlato del male che si accumula e si stratifica, a partire dalle cose che possono sembrare banali o insignificanti, e allo stesso modo accade con il Bene: ogni azione anche piccola conta, come hai detto tu, può essere un semino che germoglia. Come ci hai raccontato, questo male che si compie e si riceve, che non si può cancellare e dimenticare, può diventare per questo un punto di scoperta profonda, di ripartenza e cammino nel Bene, di rinascita. Grazie per aver condiviso con noi la tua vita.

 

Alessio
L’incontro con Roberto mi ha lasciato un segno, poter ascoltare il racconto della sua vita e sentire le sue risposte alle nostre domande mi ha fatto aprire gli occhi sulla vita di queste persone che vengono viste male dalla società di oggi.

Roberto è una persona che ha svolto un percorso di rivalsa significante, è diventata totalmente una persona diversa da quella che era prima, una persona con più voglia di viversi la vita vera, non quella fatta da omicidi e malavita.

Lo ammiro molto anche per la pazienza che ha avuto e la disponibilità mostrata nei nostri confronti. Il suo percorso di cambiamento appunto, mi ha dato uno stimolo per rendermi conto ogni giorno di quanto sia fortunato, di avere una bella famiglia e bei rapporti, che non rovinino la mia incolumità.

 

Claudia
1 – Proprio in questo periodo ho letto il libro di Mario Calabresi “Quello che non ti dicono”. Calabresi è figlio del commissario Luigi Calabresi assassinato nel 1972. Il libro è la narrazione di un percorso che lui stesso ha portato avanti per aiutare Marta Saronio a scoprire chi era il padre di lei. Suo padre Carlo scompare nel 1975 quando lei non era ancora nata e del quale non sapeva niente. Non racconto tutto quanto perché rischio di fare un riassunto inutile, ma nelle varie vicende viene raccontato l’incontro fra il cugino di Marta (sacerdote del Pime, molto vicino a Marta) e il responsabile del rapimento e morte di Carlo Saronia, Carlo Fioroni. (Carlo Saronia e Carlo Fioroni sono stati amici ed entrambi militanti nel movimento Potere Operaio – Fronte Armato Rivoluzionario Operaio). Per chi vuole può approfondire la vicenda su internet. Carlo Fioroni è stato condannato a 27 anni, ridotti a 10 in appello e ulteriormente ridotto a 6/7 anni, è stato il primo brigatista pentito. Questo sacerdote desiderava guardare negli occhi chi aveva tradito suo zio e sapere qualcosa di più della vita di Carlo Saronia, riesce a contattarlo e stabiliscono un incontro a Lille in Francia dove ora vive Fioroni. Il sacerdote scrive: “Sono stato con lui tutto il giorno, l’ho ascoltato ed è stato pesante… Carlo Fioroni mi ha riempito di parole e di dettagli, cercavo un senso ma ho sentito troppe cose che non stavano in piedi… ho ascoltato la recita di un uomo che dopo quarantacinque anni continua a ripetere le stesse cose. Ha tenuto la maschera tutto il giorno, non ho trovato un dolore sincero e ho visto una persona piccola, qualcuno che non rinnega quello che ha fatto. E’ consapevole del danno, ma ancora oggi cerca giustificazioni. Non provo perdono e nemmeno pietà”.

Questa vicenda mi destabilizza, “primo brigatista pentito” … una pena di nemmeno 10 anni … nessun percorso serio … cerca giustificazioni di fronte alla sua vittima … ci vuole “coraggio” o forse anche un pizzico di “schizofrenia”?

Mi domando quali sono i passi che la nostra Giustizia mette in atto per aiutare e verificare il “pentimento”, il cambiamento sincero? Il legale storico di Fioroni lo lascia nel 84 perché non più convinto del pentimento del suo assistito … questo non doveva essere motivo per bloccare il progetto di scarcerazione?

2 – Ho avuto la possibilità di incontrare un altro “pentito” di mafia e mi sono accorta che c’è almeno un anello mancante fondamentale nella procedura: dal momento che esci dalla “protezione” il detenuto si trova senza lavoro e se hai pochi strumenti è un attimo ricadere nell’illegalità. Cosa ne pensi? E’ cambiato qualcosa nel frattempo?

3 – Sono convinta che tutti quelli che come te hanno “servito” la mafia sono stati a loro volta vittime della “storia stessa”… questo uomo di cui parlavo mi diceva “Era normale così”. Capisci? Normale così!!! Tu ci hai raccontato che tuo padre è stato ammazzato per errore. Tu vittima e poi colpevole! Che cos’è la Giustizia? Pensiamo all’art. 3 della Costituzione:

ART. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

4 – Cosa significa per te essere pentito?

Fino a quando le lacrime non sgorgano sincere dagli occhi e dal cuore, il pentimento non accade. Fino a quando non si pronuncia “Ho sbagliato” non può accadere nulla.

Tu ci hai detto che guardando te bisogna tenere insieme il prima (i 13 omicidi) e quello che sei adesso: un uomo che ha scontato la sua pena, un uomo che ha saputo piangere il proprio passato, un uomo che ha riconosciuto e detto “ho sbagliato”. E’ vero bisogna tenere insieme il tutto, perché noi uomini siamo quello che facciamo, ma possiamo essere e fare molto meglio. Possiamo guardare avanti con speranza perché c’è una Parola Buona, una promessa di bene sulla nostra vita pronunciata da un certo Gesù e che quel sacerdote della tua infanzia e giovinezza ti ha saputo trasmettere con la sua presenza. Quelle lettere conservate con amore ti sono state restituite, leggendole puoi ripercorre la strada fatta …. E ti accorgerai che Dio non ti ha mai lasciato solo …

Il problema è che a volte i nostri occhi non riescono a riconoscerlo.

 

Serena
Quando Claudia ha detto che non riconosce in te chi si era macchiato dei crimini di cui ci avevi parlato, io ho subito sentito di condividere con lei; e invece ti ho sentito dire che, benché neanche tu ormai ti riconosca, non puoi permetterti di non riconoscerti. La forza che hai avuto – di ricominciare non dimenticando quanto è stato e chi sei stato-; la tua forza venuta dall’umiltà e dalla buona e tenace voglia di restituirti, come uomo nuovo, allo Stato e agli uomini, mi dice della vera vittoria delle nostre istituzioni, che sono riuscite a rieducare l’uomo anziché limitarsi a punire il criminale, e insieme della vittoria e del miracolo dell’uomo, che testimonia che il figliol prodigo non è una favola, ma narra una storia umana, che talvolta accade per come Gesù l’ha raccontata. Da cittadina sono onorata di servire uno Stato in cui storie come la tua non sono solamente storie ma vere testimonianze, e da cristiana gioisco di accogliere tra i miei amici ‘il figlio’ ‘che era morto ed è tornato in vita’. Per le vite tolte al mondo, tu ne hai restituita una, la tua, a tutti noi: e non potevi fare niente di più grande.

Le competenze che vorrei

Coompetenze per un futuro da psicologa penitenziaria

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio di idee, riflessioni e creatività in cui ogni incontro porta arricchimento per chiunque ne prenda parte. Al gruppo vengono affrontati temi complessi e a volte anche dolorosi, ma questo avviene in un luogo non giudicante, in cui ci si sente accolti.

Si affronta la tematica della Banalità e della Complessità del Male, cercando di rintracciare e analizzare le origini del disagio personale, alla base della devianza, della tossicodipendenza e del bullismo; si fa prevenzione attraverso incontri con studenti di scuole medie primarie e secondarie e laboratori di creatività con Comunità di giovani che provengono da storie di vita difficili. Vengono realizzate rappresentazioni teatrali come il Mito di Sisifo, che racchiude in sé una metafora della devianza, includendo i concetti di delirio di onnipotenza, rapporto genitori figli e recupero della coscienza. Nell’inscenare il Mito studenti e detenuti interagiscono e si confrontano sul palcoscenico.

Si compiono inoltre azioni sul territorio, con consegna di frutta e verdura alle persone più bisognose grazie all’impegno costante di detenuti ed ex detenuti che si sono ricostruiti una vita nuova, offrendo contributi e benessere alla società ed in primis a se stessi, attraverso il riconoscimento delle proprie fragilità che ora non sono più tenute nascoste nella “nicchia” , coperte dalla “crosta”, ma che attraverso la riscoperta delle cose semplici, genuine ed autentiche, ovvero il “profumo del rosmarino”, sono diventate punti di forza.

Con le attività di tirocinio ho imparato ad avere più fiducia nelle mie risorse e a far emergere le mie potenzialità senza troppa paura di fallire o di sbagliare. Ho imparato a confrontarmi con un gruppo, collaborando in vista di obiettivi comuni, esprimendo il mio punto di vista, ascoltando attivamente l’altro, capacità fondamentale nella professione di psicologo.

Ho conosciuto un gruppo composto da persone con vissuti differenti, alcuni molto difficili e traumatici. Oggi reputo sia una ricchezza enorme aver conosciuto il Gruppo della Trasgressione perché ogni singolo membro ha dato e ogni giorno continua a dare un contributo a tutti, raccontandosi, aprendosi, fidandosi. È questa per me la vera ricchezza: entrare in contatto con persone con vissuti differenti che attraverso le loro parole mi hanno aperto a prospettive nuove che non conoscevo. Reputo che la chiave per abbattere ogni paura e giudizio sia per chiunque la conoscenza ravvicinata e il contatto con il vissuto dell’altro e ho visto che scoprire e avere cure delle proprie e altrui fragilità  permette di sentirsi simili e di collaborare

Non si può chiamare conoscenza dell’altro quella studiata sui libri senza un contatto diretto. Cio che porta arricchimento per studenti e detenuti è la conoscenza diretta, attraverso il confronto, la condivisione di emozioni, con esperienze e obiettivi comuni e la collaborazione per raggiungerli. Credo oltretutto che sia proprio questa la chiave per il recupero della coscienza del detenuto.

Per il mio futuro lavoro di psicologa, dato che vorrei proseguire la carriera in ambito penitenziario, vorrei acquisire più nozioni riguardanti le leggi in ambito penale; venendo da una formazione psicologica non ho mai avuto modo di studiare la materia, ma credo sia fondamentale se si desidera operare nel settore penitenziario.

Reputo utile, inoltre, che vengano approfondite ed estese nella società:

  • li criteri e le griglie per il riconoscimento dei fattori che concorrono allo sviluppo della devianza della tossicodipendenza e del bullismo,
  • gli strumenti per prevenirli,
  • le modalità di intervento per favorire il recupero della persona detenuta,
  • le iniziative  per sensibilizzare la società sull’importanza del reinserimento sociale e lavorativo della persona durante la detenzione,  con le misure alternative, e dopo la scarcerazione, con progetti mirati al reinserimento del nuovo cittadino.

Arianna Picco

Le interviste del Gruppo della Trasgressione
 Relazioni di Tirocinio

Il tirocinio col gruppo

Competenze che mi aspetto di acquisire durante il tirocinio e attraverso il lavoro con il Gruppo della Trasgressione, in quanto studentessa di psicologia e futura psicologa.

Puntualizzo che il tirocinio con il gruppo mi ha permesso di cominciare a fare esperienza di quello che elenco di seguito:

  1. vedere in concreto l’applicazione di teorie psicologiche studiate durante le lezioni universitarie in ambito clinico e, in particolare, nel lavoro terapeutico con detenuti in carcere ed ex detenuti nella sede esterna;
  2. sperimentare il mondo dell’istituzione carceraria dall’interno;
  3. avere un dialogo con le istituzioni utile alla progettazione di iniziative legate al lavoro con condannati.

Vorrei segnalare inoltre che, cercando articoli per la mia tesi riguardanti i fattori bio-psico-sociali e le esperienze avversive infantili che conducono alla delinquenza giovanile, ho avuto l’impressione che in Italia non esistano molte ricerche su questo tema. Sarebbe invece interessante potere effettuare in carcere delle ricerche concrete di cui rimanga traccia nel tempo. Questo permetterebbe la pubblicazione di articoli scientifici su banche dati di psicologia e il confronto con studi condotti in altri paesi.

Durante la mia ricerca nelle banche dati non ho trovato studi su percorsi terapeutici o meno con detenuti. Sarebbe invece interessante somministrare scale psicologiche, questionari, interviste ai detenuti in carcere che hanno intrapreso da pochi anni il lavoro con il gruppo e ad ex detenuti che ormai sono nel gruppo da una decina di anni, per poi confrontare questi risultati.

Vorrei infine che operatori e volontari del carcere, chi avvocato, chi agente di polizia, chi insegnante, possano acquisire conoscenze e competenze utili per formare altri insegnanti, educatori o comunque persone che interagiscono con gli adolescenti e questo allo scopo di prevenire e trattare i primi comportamenti devianti.

Elisabetta Vanzini

Le interviste del Gruppo della Trasgressione
 Relazioni di Tirocinio

Strumenti e competenze

Quali strumenti o competenze desidera acquisire un tirocinante in vista della sua futura professione ?

Sono una tirocinante post-laurea del Gruppo della Trasgressione. Mi sono laureata al corso di laurea magistrale di Psicologia Clinica e Neuropsicologia, ma nonostante cinque anni di studio universitario mi rendo conto che la strada per diventare una psicologa è ancora lunga. L’università fornisce nozioni puramente teoriche, nulla di pratico. Per questo motivo ritengo che il tirocinio debba essere un’esperienza che consenta agli studenti di psicologia di acquisire tutte quelle competenze pratiche e trasversali che mancano nella formazione universitaria.

Un primo aspetto puramente pratico riguarda la capacità di scrivere una relazione e formulare un progetto. Mi è sempre stato detto che queste attività sono importanti nel lavoro di uno psicologo, ma in università non vengono mai menzionate. Una volta fatto l’esame di stato vorrei essere in grado di scrivere una corretta relazione o creare un progetto, se mi viene richiesto, e ritengo che l’esperienza di tirocinio debba essere un primo luogo in cui mettersi in gioco per svolgere queste attività.

Tuttavia, oltre questi strumenti pratici penso che il tirocinio debba in primis essere utile per acquisire una serie di competenze trasversali, che nessuno può insegnare a parole.

Innanzitutto, la capacità di adattarsi ad un contesto non conosciuto, con persone estranee e adulte, diverse dai professori. Lo studente dovrebbe potersi sperimentare in un contesto diverso da quello scolastico: il rapporto gerarchico professore-studente dovrebbe venire meno e ci si dovrebbe poter interfacciare con adulti disposti ad insegnare, ma anche a considerarti competente in una certa misura. Ritengo che questo sia fondamentale per permettere al tirocinante di responsabilizzarsi sul luogo di lavoro.

Un’altra competenza per me indispensabile è la capacità di lavorare in gruppo. Il tirocinio dovrebbe fare in modo che l’individuo inizi a collaborare con persone diverse da sé, con un’età diversa o con percorsi di studio differenti dal proprio. L’avere a che fare con una varietà di persone permette al tirocinante di acquisire flessibilità, una delle competenze che ritengo utile per la professione di psicologo.

Infine, un’altra competenza per me fondamentale nel lavoro dello psicologo è la capacità di ascolto. Per quanto si possa essere predisposti a saper ascoltare, il tirocinio dovrebbe permettere di rafforzare questa capacità.

Da ultimo ciò che si dovrebbe apprendere durante il tirocinio è la capacità di stare in relazione con l’altro, vale a dire l’essere assertivi e far valere le proprie idee senza timore del giudizio, oltre che la capacità di comprendere e tenere in considerazione il punto di vista altrui e le esigenze delle persone con cui si collabora.

Asia Olivo

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Bene e male, cibo per pensare

Il testo che segue mi è caro per la modalità in cui è nato. Ero rimasta colpita dall’interesse che Angelica Alessio, mia studentessa di 5FHA, aveva dimostrato, restando molte volte oltre l’orario stabilito e partecipando anche a un’iniziativa extra al cineforum su Banalità e complessità del male con una parte curricolare legata a neorealismo “e dintorni”.

Purtroppo, ci sono momenti in cui Angelica non riconosce le sue eccellenti potenzialità e si blocca nelle consegne mettendo a rischio il successo scolastico. La fase covid non aiuta. In uno di questi momenti in cui aspettavo il suo articolo per Voci dal Ponte che non arrivava, ho avuto l’idea di telefonarle, dicendole semplicemente che avrei trascritto in diretta le sue parole.

Quello che segue è il testo che ne è nato. Angelica non ci crede, non ha fiducia nella sua espressione e cestina tutto, ma le sue parole brillano e sono un contributo di grande utilità civile. Mi ha emozionato anche il messaggio di Juri Aparo, il nostro irriverente psicologo : <<Dedicarsi così a un’allieva è cosa rara. L’hai incoraggiata a far suonare le sue corde, che hanno un suono dolcissimo. Al prossimo concerto spero di poterla invitare a dire qualcosa di questo scritto, così prezioso e nutriente da non potere essere tenuto sotto chiave>>.

Anch’io lo spero e non vedo l’ora. Colgo l’occasione per ringraziare il sostituto procuratore Francesco Cajani per aver definito innovativa la mia antichità, non si tratta che di una ricetta semplice: ascoltare.

Ricordo che sono stati di notevole pregio sia gli interventi dei compagni di classe di Angelica che i contributi creativi di 5BHA già pubblicati, insieme a quelli di studenti delle altre due classi del Liceo di Brera partecipanti al cineforum.

Giovanna Stanganello

 

Complessità e banalità del male

In un anno difficile, l’esperienza con il gruppo della trasgressione è stata emozionante. In ciascuno dei 5 incontri a cui ho partecipato mi sono sentita accolta; di certe cose non puoi parlare facilmente con le persone, non avevo mai preso parte a un cineforum con partecipanti così differenti. Il tema “banalità e complessità del male” e il modo di trattarlo aiutano a capire le persone e le società in un modo diverso da come sei abituato. Ci vorrebbero più momenti di dialogo, di confronto, nella scuola e fuori.

E’ il mio punto di vista, mi piace quando si parla di cose profonde, anche studiare, andare a scuola deve essere sostanziato da altro, altrimenti sembra tutto banale. In particolare sul film “Una giornata particolare” ho colto cos’è educazione civica, ho capito ad esempio cosa è stato il fascismo attraverso il vissuto delle persone, ho sentito anche una nuova idea di fare storia. Non è solo studiare delle pagine, con un film ben fatto riesci a capire meglio, entri nei modi di vedere delle persone.

Lo studio astratto e mnemonico che ho fatto nella scuola media era solo un ricordare, ma alcune cose non riuscivo a capirle, non riuscivo ad entrare nella mentalità, molti temi durante il percorso scolastico mi lasciavano perplessa, Volevo capire alcune ragioni, entrare nello sguardo di chi aveva vissuto la storia. Durante gli incontri di un cineforum di questo genere si possono sentire, capire opinioni diverse. Non è solo argomento di studio, per avere un voto, ma è discussione, è il nocciolo, il sodo, per comprendere meccanismi che hanno portato a fare alcune cose nel tempo.

Davo gli eventi storici per scontati: ci sono persone cattive e buone. Banalizzavo. Adesso il bene e il male mi appaiono in altra luce. Le cose mi incuriosiscono, hanno spessore, ci sono altri meccanismi, cose più profonde da poter capire. Le persone non si possono dividere semplicemente in buone e cattive. Faccio un esempio: la tv crea gruppi, etichette, cose che fanno comodo, io stessa, sentendo parlare, alimentavo in me fazioni contrapposte.

Capire la psicologia umana è invece molto difficile, richiede sforzo da parte di ognuno. Se si creano etichette, si mettono persone in gruppo a parlare a casaccio, ti crei solo un luogo comune. Attribuire cattiveria fa comodo, ti fa sfogare la rabbia, io stessa mi sono accorta di appoggiarmi sulla cosa semplice, per sfogarmi. Credo che a scuola ci dovrebbero essere più momenti in cui si parla della psicologia delle persone, mettere in dubbio cose, mettere persone diverse di qualsiasi età ed esperienze a confrontarsi.

C’è molta disinformazione, si tende non per cattiveria ma per facilitare le cose a vedere le altre persone in modo stereotipato, a creare gruppi contrastanti e basta… e non riflettere ti porta alla “banalità del male”. Questo è un problema che non si vuole affrontare. E’ successo sempre, fin dall’inizio della storia. Nella superficialità non si troverà mai una riflessione per sistemare le idee, si va di fretta dalla mattina alla sera, si corre, diventa quasi un bisogno fisiologico semplificare, creare luoghi comuni. Se si andasse con calma le persone potrebbero elaborare in modo individuale un proprio modo di vedere, potrebbero coltivarlo.

Riallacciandomi a “Una giornata particolare”, il film di Ettore Scola, il personaggio di Antonietta era fascista, raccoglieva le immagini del duce, ma non era una donna cattiva, aveva una sua personalità. Le viene imposto un ruolo ma lei non vuole questo realmente, lei ha il suo carattere. Quando Gabriele comincia a parlarle si vede che Antonietta ha i suoi personali desideri, che vanno oltre la catalogazione della casalinga fascista. In un altro film su cui abbiamo lavorato, “I cento passi”, ci siamo accorti di come il male riproposto nei singoli atti diventa banale e se si banalizza tutto, allora non si avrà mai la propria capacità di poter pensare e di accorgersi di fare del male alle persone. Non è che ci si sveglia una mattina e si fa del male, ma è un sentimento diventato più forte, iniziato da qualcosa di piccolo, che non è mai stato risolto e ha portato ad azioni efferate.

Spesso nella società non c’è aiuto per trovare un modo profondo di vedere le cose, per costruire una propria personalità. Nel gruppo ci si adatta, anche se ci sono cose che non ci piacciono. Se qualcuno dice a noi “a noi tutti piace il colore rosso”, anche se a te non piace, hai paura di dirlo perché temi che ti caccino. E lo dici anche se non pensi sia così. Ognuno, stando in un gruppo, doverebbe avere amore per le persone in generale. Ognuno dovrebbe avere le proprie libertà e un gruppo che ti costringe o ti pressa a fare qualcosa non ti rende libero di esprimere la tua personalità. Se ognuno avesse la sua libertà e cercasse di aiutare le persone, penso che la gente non avrebbe così voglia di trattarsi male.

Mi sono resa conto di alcune cose proprio partecipando al gruppo della trasgressione, sono sempre stata interessata agli argomenti di educazione civica, ma mi sentivo banale ad esprimermi, per la prima volta sono riuscita a farlo davanti a tante persone. Ne avevo bisogno. Nel gruppo c’erano anche detenuti che erano stati ex mafiosi e tu potevi metterti nei panni di una persona con un’esperienza così negativa, cosa impensabile. A volte avevo sentito i criminali come se fossero degli animali, mi dicevo: se incontrassi questa brutta persona non so cosa le farei, ma bisogna individuare la sofferenza dell’altro e comprendere la sua psicologia.

Ho sentito che la coscienza è l’obiettivo del lavoro con il gruppo della trasgressione. Il male non bisogna mai giustificarlo ma creare sentimenti di odio non è né accettabile né utile. La punizione in sé non aiuterà, non saranno le punizioni o addirittura la pena di morte a cambiare la società in meglio, ma dare opportunità di aiuto psicologico e sociale è la strada. Seguendo il cineforum mi sono resa conto che accanto alla prigione è urgente uno sforzo, un percorso psicologico. Bisogna tornare a ragionarci, non come si fa nei social, creando un odio inutile. Aumentare l’odio è terribile. Ci vuole un grandissimo sforzo per ricostruire una persona, per ricostruirsi. La pena di morte è un paradosso, a volte possono essere in carcere anche degli innocenti. Non si ricaverà mai niente con la semplice prigione ma solo con un processo psicologico lento e difficile.

I social creano un sacco di cose immotivate, ci si fa una brutta idea delle persone. La sensibilità che senti per il genere umano è ciò che salva. Ci servono più persone che facciano da intermediarie. Ci si può arrabbiare ma si deve ascoltare ciò che l’altro pensa. Non si può catalogare e basta, le persone non sono delle cose, sono esseri viventi. E’ necessario almeno non veicolare messaggi di odio. Gli stessi giornalisti a volte non si rendono conto di non fare un buon servizio.

Il bene e il male devono essere regolati, ci vuole una mediazione, non si può alimentare il senso di frustrazione perché questo porterà la persona inesorabilmente a fare cose brutte. I tg mandano in onda cose terribili, sono sempre pronti a filmare determinate azioni e in questo modo stai già creando azioni negative. Partecipando al cineforum mi sono chiarita su tutto questo, mi sono resa conto di molte cose che davo per scontate. E’ stato utile, tantissimo.

Oltre al laboratorio della trasgressione mi è piaciuto partecipare agli incontri dell’Istituto di storia contemporanea sui movimenti dagli anni ’50 al ’70. Finalmente i ragazzi hanno cominciato a parlare, sono attività molto sentite. Ho capito che le persone vogliono che qualcuno le aiuti, che capisca i loro problemi. Alla fine siamo umani, è questo che dovrebbe essere più importante: maschi e femmine siamo umani. Se si lasciasse alle persone lo spazio per confrontarsi, per mettere insieme le proprie idee, per elaborare qualcosa, credo che molte cose brutte non accadrebbero e non ci sarebbero episodi di odio, di male. Oggi non siamo più in un’epoca violenta come nel ventennio fascista ma alcuni risentimenti, rabbie ci sono ancora e questo scatena malessere.

Angelica Alessio

Il male complesso e banale

The Place

CINEFORUM

The Place, di Paolo Genovese – 08/06/2020

Spunti dall’incontro

“Sei un mostro”
“Diciamo che do da mangiare ai mostri”

Mefistofele mostra ai vari personaggi come uno specchio le parti che tutti abbiamo dentro: una spinta più costruttiva e una spinta più distruttiva, non è altro che l’alter ego dei personaggi che di volta in volta si siedono di fronte a lui; tutti, in un modo o nell’altro, fanno i conti con la propria coscienza.

Mefistofele è di fatto la personificazione dei demoni malvagi che fanno parte della coscienza di ciascuno di noi, non riconosciuti come propri, anzi respinti all’esterno e a lui, al mostro, demandiamo poi la responsabilità di dare da mangiare mostri ulteriori.

“Perché chiedi cose così orrende?”
“Perché c’è chi è disposto a farle”

Tutti i personaggi del film hanno la possibilità di scegliere, non c’è nessuna coercizione fisica, tutta la coercizione è di tipo psicologico o di tipo motivazionale: lo sviluppo e la realizzazione progressiva della scelta dei singoli personaggi passano esclusivamente da una serie di piccole scelte consecutive che si sommano, ma non c’è nessuno dall’esterno che impone un certo tipo di comportamento.

Per uno una determinata cosa può essere una sorta di bene, per un altro il male (perché ad esempio viene danneggiata una persona).

È questione di moralità individuale, quindi fino a che punto tu sei disposto ad arrivare, quale è il tuo limite, e il limite può nascere nel momento in cui i soggetti singoli si rendono conto o abbracciano nella loro visione la potenziale vittima, e solo lì trovano dei freni alla perdita di morale.

Attraverso la relazione la possibilità di crescita ed evoluzione esiste: se riesco ad identificarmi con l’altro difficilmente arrivo a uccidere una persona.

In Sisifo ad esempio il disagio di Thanatos cosi come l’abbiamo interpretato a  un certo punto arriva a dire “non ne posso più di essere visto soltanto come portatore di morte”,  non ne può più di stare ad ascoltare tutto il male del mondo.

Nel film tutte le storie in qualche modo si intrecciano, per cui l’idea che ogni nostra azione/gesto in qualche modo può avere delle ricadute sulle storie e le vite degli altri, è qualcosa che ci dimentichiamo a volte di ricordare.

 

SCELTA DELL’OBIETTIVO

l’obiettivo costringe a riflettere e mette alle strette, facendo prendere una determinata decisione. Come un induttore di riflessione, Mefistofele di fatto attraverso l’obiettivo pone queste persone a confrontarsi con se stesse.

A volte la forza del soggetto permette al soggetto stesso di sottrarsi alla seduzione, la seduzione non riesce perché per coincidenza si producono situazioni positive e, se si riesce ad arrivare all’età adulta senza essere stato catturato dalla seduzione che ti fa credere che in un modo onnipotente puoi raggiungere chissà che cosa, hai discreta probabilità di farcela, diversamente sei molto a rischio di arroganza e devianza.

 

CONCETTO DI “GIRO CORTO E DI GIRO LUNGO”   

Il giro corto porta ad ottenere la soddisfazione immediata di un impulso, di un bisogno, di una necessità, di una voglia. Il giro corto rimanda alla scorciatoia, al tema della magia: bruciare le tappe in qualche modo porta a una deresponsabilizzazione perché non metto in campo le mie capacità, è quindi un evitare di mettersi in gioco realmente. Anche se non funziona la magia non è colpa mia, perché io non ho messo in campo nulla di mio per il raggiungimento dell’obiettivo, non viene per cui in qualche modo declassata la mia persona, è un po’ come l’idea che, se non funziona la magia, io non fallisco mai, fallisce la magia, il sistema magico, per cui tutto ciò che riguarda me non viene assolutamente toccato.

Dal momento in cui cerco un giro corto e la magia, mimo quell’onnipotenza che in realtà sto già attribuendo però a qualcun altro o a qualcos’altro a un organo, a qualcosa che mi sta permettendo in qualche modo di poter utilizzare la magia.

Il giro lungo è più connesso al lavoro, ad un senso di fatica o di ottenimento dell’obiettivo con passi, step, scalini saliti uno alla volta.

Possiamo pensare che l’uomo si dibatte tra seduzione del ricorso alla magia/pensiero onnipotente e impegno sul lavoro.

 

L’ONNIPOTENZA

Invece di divaricare le due polarità di bene e male, è utile soffermarsi sul cosa è nell’uomo il senso di onnipotenza.

Siamo permeabili alla seduzione per la spinta all’onnipotenza e alle volte c’è anche un contributo da circostanze esterne. Il concetto di devianza è complesso, nel film non si fa del male perché si è cattivi, ma perché c’è una condizione di bisogno, e ci possono essere dei “diavoli seduttori” con il pensiero vigliacco che allettano le spinte a risolvere le cose onnipotenti, ed è un modo magico. Non è bene e male, ma bisogno di risolvere le cose e il bisogno di risolvere non arriva necessariamente dal fatto che uno è cattivo ma perché la realtà mette a dura prova.

Uno dei mali per cui ci si lascia sedurre dalle fantasie onnipotenti è la mancanza di fiducia. Nel film tutte le persone che transitano da Mefistofele hanno in questa persona una fiducia incondizionata, è come se avessero bisogno di una presenza salvifica, come se avessero bisogno di qualcuno a cui rivolgersi per risolvere il proprio problema.

 

LA MAGIA

Da bambini la magia ha un bel sapore, tra le braccia di mamma e papà permette ai bambini buoni di vedere desideri realizzarsi, quando si diventa grandi e soprattutto quando si combina col male, la magia diventa estremamente inquinante, inquina la festa. All’uomo la magia fa male, la magia della droga, la magia dello stordire il pensiero, il male, il dolore, ecc.

Nel film, ma non solo, ricorrere alla magia per appagare l’istanza onnipotente porta a uno scivolamento progressivo verso il male, perché se si prende consuetudine e confidenza con la magia ciò induce la persona a perdere il senso del limite e le redini di se stessi.

Il problema diventa più grave via via che  il ricorso alla magia diventa abitudine.

 

STRAVOLGIMENTO D’IDENTITÀ

Si può provare a sostituire l’idea del MALE assoluto con un modello più terreno di pratica del male, cioè con il ricorso all’onnipotenza e alla magia, non nel senso che la magia è cattiva, ma nel senso che prevede un modo di procedere che invece che fare i conti con la realtà, fa capo a un seduttore che ti fa credere che puoi raggiungere la meta non rimanendo la persona che sei, che lavora, ma ricorrendo a qualcosa di magico che interviene nella realtà permettendoti di fare un salto radicale dalla condizione in cui tu sei tu, alla condizione che in realtà sei diventato un altro di  categoria superiore, categoria sovrumana.

Ad esempio la signora anziana del film con il marito malato di Alzheimer prima di decidere di non compiere l’azione terribile della bomba è dibattuta in un labirinto di pensieri che stravolgono la sua identità (“chi sono io per ergermi ad onnipotente sia nei confronti del male, ma soprattutto nei confronti del bene”)

Il ricorso alla magia a maggior ragione quando ti fa cambiare lo status e ti porta dalla condizione di chi non può a quella di chi può, ti mette a rischio di sentirti Dio e, se ti senti Dio, ti trovi anche nella condizione di superare i limiti (come anche nel mito di Sisifo).

Tradire se stessi per raggiungere la meta comporta la fregatura che la si raggiunge dopo essersi trasformati in qualcos’altro: ma per poter godere di qualcosa che desideri, occorre essere se stessi.

Olivia Ferrari e Stella Tonelli

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