Un terreno fertile

Eleonora Mauri

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Il mio rapporto con il limite

Antonio Torretta

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Una seconda possibilità

Linda Rossi

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

La voce dell’adolescente

Roberto Cannavò

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Incontri e nuovi orizzonti

Arianna Picco

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Gli obiettivi della pena

Olivia Ferrari

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Una linfa vitale

Elisabetta Vanzini

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

L’arma migliore contro il degrado

L’istituzione era mia grande nemica in passato. Quando mi arrestarono presi questa punizione con tanta arroganza che non mi importava nulla delle conseguenze che potevo creare a me stesso e agli altri. Non ho reati di sangue, ma questo non significa che il mio spaccio di droga sia meno grave, anzi con la mia incoscienza alimentavo come uno stormo di uccelli il degrado della collettività oltre a danneggiare me stesso.

Quando ero molto giovane ero ammaliato da personaggi che nel mio quartiere sembravano i padroni di tutto e tutti. Io li imitavo e li seguivo fino al punto che, se avevo dei problemi, loro c’erano, mi aiutavano. Più il tempo passava più forte diventava la mia corazza, con la nebbia negli occhi la rabbia cresceva e anche la mia incoscienza, a tal punto che non ero più io a chiedere aiuto ma erano loro a rivolgersi a me quando avevano un problema da risolvere. Ero diventato un pilastro importante di quella organizzazione.

Oggi riesco a capire che sì, ero un pilastro solido e importante, ma del degrado, tanto è vero che sono qua rinchiuso. Accetto questa punizione con molta più serenità perché so che con le mie azioni ho contribuito ad aumentare il degrado nella società e non ho più bisogno di un giudice che mi punisca per capire quello che è giusto o sbagliato.

Sono contento di avere ritrovato me stesso e di essere finalmente pulito con la mia famiglia e questo mi fa sentire libero, anche se è strano sentirsi liberi quando la coscienza ti dice che hai sbagliato. Credo che questo è il risultato del percorso fatto col gruppo della trasgressione, anche se so che dovrò lavorare ancora e che devo imparare a confrontarmi. Punizione e regole ci devono essere, ma noi dobbiamo capire le nostre responsabilità e l’istituzione non deve dimenticarsi di noi.

Credo che le istituzioni devono e possono fare molto di più con strutture e personale qualificato per facilitare il recupero dei detenuti. Oggi l’istituzione si deve rendere conto che, se vuoi contrastare il degrado, le persone con caratteri difficili non vanno abbandonate ma aiutate.

Nella vita ho indossato molte maschere cambiandole come un camaleonte in base alle situazioni, ma la migliore che mi dà più soddisfazione è quella che indosso ora con un terzo occhio che mi fa vedere oltre il muro che avevo alzato molto tempo fa.

Fino a poco tempo fa non avevo detto la verità ai miei figli; dicevo, come la maggior parte di tutti i genitori detenuti, che lavoravo e con questo cercavo di proteggerli o, per lo meno, così pensavo. Il dott. Aparo ci ha spiegato e fatto capire che è sbagliato mentire, ed ecco che grazie a quella maschera con il terzo occhio che io chiamo l’occhio della coscienza, ho avuto il coraggio e la serenità di comunicare ai miei figli la verità… che sono in galera e che le istituzioni non sono i nostri nemici ma l’arroganza e l’incoscienza che il loro papà aveva quando era giovane.

Ora capisco che se avessi continuato a tradire i miei figli, un giorno loro si sarebbero sentiti altrettanto in diritto di tradire e questo sarebbe grave per il loro equilibrio. Spero che nel tempo questo nuovo modo di parlare con i figli arrivi anche ai miei compagni detenuti che non hanno la possibilità di frequentare questo gruppo, ai cittadini che sono fuori liberi e alle persone che ancora si fanno travolgere dall’idea di diventare importanti in fretta. La coscienza è l’arma migliore per difendersi.

Paolo De Luca

Genitori e FigliArroganza e Coscienza

 

Le zanzare vincono quasi sempre

Le zanzare per nostra sfortuna vincono sempre, o quasi.

È una notte d’estate, mentre tutti dormono, sento le zanzare che cercano ostinatamente di attaccarmi: è un combattimento impari, vincono quasi sempre loro. In questa battaglia notturna mi viene in mente mio padre. È molto tempo che non lo ricordavo più, chissà perché. Fa un caldo terribile in queste celle, il caldo toglie il respiro, mi vien voglia di urlare, intanto penso a mio padre. Cerco anche di ricordare i visi delle persone che conoscevo, ma inutilmente; sarà il caldo, penso. Mi sforzo ma è inutile ricordare i loro visi, non ho neppure le foto di tutti coloro che vorrei ricordare e associare alla mia vita passata. Ho trascorso parecchio tempo in carcere e ho incontrato molte persone. Con alcune di loro abbiamo fatto un percorso di confronto culturale e personale, tuttavia ricordo a stento i loro nomi. Ho sempre pensato che è meglio non affezionarsi a nessuno, specie in luoghi come questo.

Mio padre era un semplice contadino, ha cercato per quanto gli fosse possibile di darmi degli insegnamenti; ha fatto di tutto, sono io che non ho fatto nulla per aiutarlo. Ricordo in particolare quando durante l’estate ci svegliava prestissimo per aiutarlo ad irrigare i campi dove lui lavorava, dal momento che il suo turno di erogazione dell’acqua gli veniva concesso durante la notte; ricordo le sue corse con la zappa in mano per tappare i buchi nel terreno, quelli lasciati dalle piccole talpe che fuoriuscivano alla ricerca di refrigerio, onde evitare che andasse persa qualche goccia d’acqua.

A pensarci bene, non ho una foto da adulto insieme a lui. Lo ricordo sempre alla ricerca di una giornata di lavoro, ce la metteva tutta per portare, come si dice, il pane a casa. Abitavamo in una casa colonica, di caldo ne faceva tanto durante l’estate in quel profondo sud. Invece oggi debbo sopportare lo stesso caldo, con la differenza che a casa potevo uscire e dormire fuori all’aria aperta, magari sopra l’erba rinfrescata dalla brina notturna; mentre qua non è possibile, ci sono i cancelli di ferro. Ecco che di nuovo il pensiero corre a mio papà, alla mia infanzia, ai miei quattro fratelli e a mia madre. L’ultima volta che ho incontrato mio padre è stato in carcere, era venuto a trovarmi, forse ad abbracciarmi per l’ultima volta; stava per morire, ho visto gli occhi di mia madre che me lo enunciavano, mentre lui si sforzava di chiacchierare forse per darmi coraggio. Pensava forse che avessi bisogno di quello.

Oggi penso a tutto quello che avrei voluto dirgli, raccontare di me, della mia vita, manifestargli il mio affetto, la mia stima, la mia ammirazione per la sua grandiosità di essere uomo, per la sua umiltà, per non averci mai fatto mancare nulla, né a noi né a mia madre, che venerava. Non ho voluto farlo, forse per non apparire debole ai suoi occhi e me ne rammarico.

Mi bastava guardarlo per capire quello che gli passava per la testa, era una persona semplice, non conosceva cattiveria, malizia, invidia. Non sapeva cosa fossero. Non erano sentimenti che gli appartenevano, per questo molti si approfittavano della sua nobiltà d’animo e della sua incapacità di sottrarsi alle richieste di aiuto; era facile per gli altri circuirlo, approfittando della sua semplicità, per non pagarlo della fatica che svolgeva nei campi. In poche parole era semplicemente una brava persona, perbene, con delle qualità rare, tanto da sembrare anacronistico nei suoi modi di fare. La sua vita sacrificata mi faceva arrabbiare parecchio.

Ho iniziato già da ragazzino ad applicarmi con l’intento di riuscire a dare ed avere qualche soddisfazione in più, ma diventando tutto l’opposto di lui. Ho avuto molte soddisfazioni per il mio carattere, ma questo mi ha anche trascinato fuori dal contesto sociale. Non desidero attenuanti. Invece vorrei parlare a mio padre in questa notte di caldo, chiuso in una cella insieme ad altre due disgraziati come me, che adesso dormono beatamente con il lenzuolo bagnato appositamente d’acqua sopra il corpo. Vorrei chiedergli scusa per la mia assenza al suo funerale, non è dipeso dalla mia volontà; chiedergli scusa per tutte le volte che avrei voluto abbracciarmelo forte per dirgli quanto mi è mancato, quanto mi hanno fatto sentire sicuro i suoi di abbracci, per dirgli “grazie Papà per tutto quello che hai fatto per noi”.

Ieri ho chiamato mia madre e dopo i primi convenevoli, mi ha detto che a breve ricorre l’anniversario della morte di papà. Ho risposto che quella data non la dimentico e che ho pensato di fare recitare una messa dal cappellano. È una bugia, non sono credente e mia madre non lo sa; se lo sapesse ne farebbe un dramma.

Non riesco a dormire ed accendo a volume zero la tv, guardo le immagini di migranti sui barconi; molti non arriveranno a destinazione, altri forse ce la faranno e sono contento per loro. Penso questo perché credo che ognuno abbia bisogno di opportunità, di una chance, per raggiungere la felicità, o perlomeno per tentare di migliorare il proprio stato. Mi rattrista pensare che molti rimarranno delusi nelle loro aspettative non trovando l’isola felice che speravano di raggiungere. Alcuni di loro dopo la lunga attraversata, si ritroveranno in carcere, inghiottiti in questa buia voragine, aggiungendo alla sofferenza passata quella che il carcere riserverà loro, comprese le torride notti di caldo trascorse a lottare contro l’infinito esercito delle zanzare, che cercano continuamente di attaccare e che, per nostra sfortuna, vincono sempre, o quasi.

Vincenzo Martino

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Quelle persone grandi

Durante la mia adolescenza credevo fermamente che il potere appartenesse solo alle persone grandi, quelle stesse persone che molto presto mi avrebbero incoraggiato a praticare le scelte di vita che ho seguito. Mi sono accorto tardivamente che quelle persone usavano noi adolescenti come meglio credevano senza alcun rimorso o senso di colpa.

Negli anni successivi non è stato difficile per me assumere gli stessi atteggiamenti e superare ogni limite possibile. Oggi sono qua a ripercorrere quell’assurdo passato dove, senza nemmeno rendermene conto, anch’io ho portato sofferenza a tante persone.

Ma per capirlo c’è voluto un lungo periodo di presa di coscienza e questo è stato possibile attraverso il confronto che quando non c’era il virus abbiamo portato avanti insieme con gli studenti e con le persone che si sedevano con noi detenuti allo stesso tavolo del gruppo.

Giorgio Ciavarella

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