Un modo d’essere

Io non sapevo di portarmi appresso questo modo di essere e di fare le cose che al gruppo chiamiamo “arroganza”. Quando ero giovane io ero semplicemente me e questo me di allora era forte, aggressivo, non sopportava i forti, si faceva rispettare. Non riconoscevo l’arroganza per quello che è. A me pareva di essere di più e sopra tutti gli altri; e mi andava benissimo così.

A volte, anzi diciamo piuttosto spesso, la maniera con cui mi facevo rispettare era decisamente discutibile. Dico ora così, ma allora mi sembrava normale; non so da dove venisse questa cosa: forse saranno stati gli amici, forse l’ambiente dove sono cresciuto, forse il mio carattere… sta di fatto che quell’arroganza che non sapevo di avere mi ha portato sempre più in là e, partito dalle ragazzate, sono passato a comportamenti al limite e poi a varcare quel limite.

Poi è trascorso un gran tratto di vita, sono successe molte cose… e sono qui. Sono ancora arrogante? Difficile rispondere: a volte sento ancora le pulsioni di allora, ma adesso le riconosco e non mi imbrogliano più. Adesso le controllo, le osservo, le respingo. Ogni tanto scappa e mi ritrovo a dire ciò che non vorrei o quasi a fare ciò che non si fa… ma quai, appunto.

Non è morta la mia arroganza, ma non è più libera, non perché siamo tutte e due in prigione, ma perché la conosco un po’ di più.

E per questo devo proprio ringraziare il gruppo della trasgressione e il Dottor Aparo, perché, senza fare tante storie, senza girarci intorno, mi hanno consentito di capire che cosa è questa arroganza che mi porto ancora dentro anche se attenuata e mi hanno spinto a dare voce alla mia coscienza buona che era stata come soffocata. Non so se ce l’avrei fatta senza; forse no.

Grazie, Vincenzo Solli

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La centralità dell’arroganza

Sono Domenico Mazzitelli, detenuto da circa 28 anni con fine pena mai.

Per l’organizzazione criminale a cui appartenevo, l’arroganza era centrale e veniva utilizzata come atto di superiorità verso il prossimo allo scopo di ottenere sempre più ricchezza economica e aumentare il predominio sul territorio nazionale. Ogni metodo era buono: estorsioni, ricatti, omicidi e qualsiasi altro abuso possibile, praticato con il totale disprezzo. All’interno del sodalizio, regnava l’atmosfera di supremazia e non c’era posto per la coscienza.

Io ho sempre ricoperto un ruolo di semplice gregario ma, grazie ai tanti soggetti come me, le associazioni criminali potevano aumentare il loro potere.

Oggi ho maggiore consapevolezza degli errori commessi in passato e credo di averla raggiunta grazie ai corsi che frequento e agli studi che ho fatto in questi lunghi anni di carcere, fino a ottenere la maturità e ad essere oggi uno studente universitario.

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Il nemico comune

Mi chiamo Francesco Castriotta. Sono nato nella zona di Quarto Oggiaro quando il degrado regnava in ogni angolo del quartiere. All’età di 16 anni entrai a far parte di una grossa organizzazione criminale, dove i capi erano persone, o forse diavoli, che con la loro arroganza e il loro potere comandavano e decidevano su chi doveva vivere e chi doveva morire.

Era una delle più grandi piazze di eroina di tutta Italia e lì ho fatto strada! Da allora sono passati più di 30 anni e ancora oggi in molti quartieri di periferia le istituzioni combattono contro degrado, bullismo, arroganza, potere, mafia e narcotraffico.

A volte mi capita di seguire fiction, serie TV, film basati sulla delinquenza e mi domando se per i ragazzi siano un bene o un male. Io ricordo che da ragazzino, di fronte a film e serie TV come il Padrino, Scarface ecc.., provavo un fascino inspiegabile…  volevo essere come loro, arrogante, prepotente e onnipotente.

Oggi, frequentando gli incontri del Gruppo della Trasgressione, ho l’impressione di riuscire a guardare le cose meglio, mi sembra di sapere ascoltare di più la mia coscienza e di dare meno spazio a quei falsi miti in cui ho creduto per anni.  Oggi, quando mi capita vedere uno di quei film con gli occhi che ho adesso, riesco a vedere il marcio che il film denuncia, ma quando si è giovani questo non si capisce!

Allora io chiedo, se possibile, di intervenire prima che si finisca in galera, anche perché non mi sembra che in tutte le carceri d’Italia ci sia un Gruppo della Trasgressione che ti spinge a metterti sotto sopra.

L’arroganza, che in alcuni quartieri nasce e cresce tanto facilmente, è diventata la principale nemica della mia vita, dopo aver contribuito per mano mia alla distruzione della vita di chissà quante persone. E’ quello il nemico che le istituzioni devono combattere!

Per nostra fortuna, qui a Opera ce ne occupiamo al nostro tavolo e con i nostri convegni, ma perché solo adesso e perché solo in carcere?

Francesco Castriotta

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Flavio e Gianluca

Da qualche giorno penso con grande tristezza a quei 2 ragazzini, Flavio e Gianluca di 15 e 16 anni, morti per aver assunto della droga. Avevano l’età di mio figlio e, se penso che qualcuno gli possa dare della droga, ho paura. Ma penso anche che in passato io, con la mia incoscienza e la mia arroganza, ho provocato il dolore di tanti altri ragazzini.

Oggi ci sono stati i funerali. Vedere questo fatto e sapere che anch’io ho spacciato e contribuito a vendere morte fa piangere il mio cuore. Se oggi ci fosse mio figlio davanti a me, penso proprio che non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi.

Ringrazio le istituzioni, il Gruppo della Trasgressione, che con le sue discussioni e gli interventi del dott. Aparo tira fuori a ognuno di noi la nostra coscienza.

Sono rammaricato che nella mia vecchia carcerazione non ho incontrato il Gruppo della Trasgressione, ma sono contento di averlo incontrato oggi.

Provo un grande dolore e ci tengo a condividerlo con il gruppo. Penso che ognuno di noi debba riflettere molto su quello che abbiamo fatto nel nostro passato e trasmettere alle nostre famiglie e alle persone vicino a noi che l’arroganza e l’incoscienza non pagano mai, anzi uccidono l’anima.

Paolo De Luca

Genitori e figliTossicodipendenza

Il nostro Mito di Sisifo

Dalla complessità del male alla banalità del male;
dal delirio di onnipotenza alla presa di coscienza.

Il nostro Sisifo tratta temi ricorrenti nelle nostre vite da delinquenti, ma che si ritrovano anche in altre vite, non solo nelle nostre. Ma forse dovrei iniziare parlando di Sisifo e raccontarvi il suo mito…

Ci troviamo nella città di Corinto, in Grecia, dove il re Sisifo viene pressato dai suoi cittadini che protestano per la mancanza di acqua. Durante una delle sue passeggiate, egli assiste per caso a una scena i cui protagonisti sono Giove, massima divinità dell’Olimpo, ed Egina, figlia del dio delle acque fluviali Asopo. La giovane è appena uscita da una lite con il padre, assente e autoritario; la ragazza, arrabbiata e sfiduciata, scappa di casa e incontra Giove, il quale non si lascia sfuggire l’occasione di sedurla, promettendole vita facile fra le stanze dorate dell’Olimpo.

Prima i conflitti fra Asopo ed Egina e, subito dopo, la scena della seduzione mettono in evidenza l’importanza del rapporto genitori-figli e le possibili conseguenze sull’adolescente. L’adulto, che dovrebbe trasmettere valori positivi ed essere una guida per i ragazzi, viene invece vissuto come poco credibile e per nulla rispettabile. L’adolescente, non sentendosi accudito e sostenuto dalla famiglia, si lascia sedurre dalla mira del potere e dei soldi facili o, come diciamo noi, dal virus delle gioie corte, quando invece avrebbe bisogno dell’adulto per comprendere le proprie fragilità.

Sisifo, che ha osservato la scena di nascosto, incontra subito dopo Asopo in cerca della figlia e dopo una serie di reciproche accuse gli propone un compromesso: in cambio dell’acqua per il suo popolo, egli dirà al dio dell’acqua che la figlia Egina è stata portata via da Giove.

Tutto il dialogo è caratterizzato da un gioco di ruoli tra i due personaggi: Sisifo, travolto dalla rabbia per la trascuratezza di Asopo verso i cittadini di Corinto, ma anche dalla voglia di rivalsa e dalla sua stessa arroganza, cade in balìa del delirio di onnipotenza, supera i limiti arrivando a far inginocchiare la divinità ai suoi piedi, che per il bene della figlia si adeguerà alla richiesta dell’uomo.

Questa scelta è inconsciamente dettata da quello che è, come raccontano molti miti, il sogno di ogni uomo ed è, di sicuro, il delirio mai addomesticato di Sisifo: vivere senza limiti, raggiungere l’immortalità, poter decidere, come un dio, della vita e della morte degli uomini

Asopo viene indirizzato verso Giove il quale, accogliendolo con sufficienza, si inalbera quando viene a conoscenza dell’accaduto e decide, visti i problemi che Sisifo sta causando, di farlo uccidere.

Giove interpella il fratello Ade, dio degli inferi, che a sua volta, seppur titubante, si rivolge al suo braccio destro: Thanatos, il dio della morte, al quale comanda di portare Sisifo agli Inferi.

Viene quindi azionata quella che la celebre Hannah Arendt definisce “Catena di Comando”, basata sull’individuo che, succube della società, annulla la propria coscienza morale ed esegue quasi meccanicamente ciò che gli viene comandato.

La vita di Sisifo è ora nelle mani di Thanatos, che ha il compito di ucciderlo, ma che viene tuttavia ingannato e immobilizzato grazie alla furbizia con cui Sisifo circuisce e ubriaca il sicario.

Ma con Thanatos impossibilitato a svolgere il proprio compito, sulla terra non muore più nessuno; chiunque adesso diviene immortale! Giove viene immediatamente avvisato da Marte della gravità della situazione e, dopo una rapida consultazione fra i due, sarà lo stesso Marte a riprendere Sisifo e a portarlo da Giove.

A questo punto Giove, finalmente con Sisifo in suo potere, condanna l’astuto re di Corinto a spingere per l’eternità un masso su una montagna alta e scoscesa, che ricadrà giù ogni volta che arriverà in cima.

Così come avviene nei gironi infernali della “Divina Commedia”, dove le pene che affliggono i dannati dell’Inferno sono assegnate in base alle colpe commesse in vita, anche nel caso di Sisifo, la corrispondenza tra colpe e pene, fra peccato e punizione, pare essere regolata dalla legge del contrappasso: Sisifo, bramoso del potere di chi non muore mai, viene condannato a vivere in eterno una pena senza senso e senza fine.

Ma paradossalmente, quella che sembrava essere la fine della storia, prelude invece a un nuovo e inaspettato inizio: Sisifo, costretto a convivere con questa pena, inizia a dialogare con il masso (che nel nostro lavoro rappresenta la coscienza lasciata a tacere per lungo tempo). La comunicazione tra i due condurrà verso la crescita della coscienza di Sisifo e alla comprensione degli errori commessi.

La presa di coscienza costituisce il passo fondamentale affinché lo sbaglio non si ripeta. Ogni essere umano, infatti, ha la spinta a ripetere situazioni e/o azioni dolorose fino a quando non ne comprende il senso.

Museo di Addis Abeba

Così come avviene tra Sisifo ed il masso, al Gruppo della Trasgressione il detenuto all’interno viene guidato ad interrogarsi sempre e questo conduce all’evoluzione e al conseguente sviluppo della coscienza. Questo processo introspettivo, che a volte somiglia alla “maieutica” di Socrate, porta il soggetto a dar luce a verità interne, del tutto trascurate all’epoca dei reati, e questo renderà gradualmente più leggero il masso, il peso della pena.

Quando si fanno le scelte sbagliate le conseguenze sono inevitabili, questo un detenuto lo sa bene. Frequentare il gruppo comporta un lungo percorso alla scoperta di tematiche molto complesse e importanti, quali: il potere, il delirio di onnipotenza, i limiti umani, la banalità e la complessità del male, l’arroganza e tante altre. I continui reati, governati dall’arroganza, fanno perdere il senso e la misura di ciò che si sta compiendo e allontanano sempre di più dall’altro.

Via via che si pratica il male, si produce un’assuefazione, ci si abitua ed è proprio quando il male diventa abitudine che diviene pericoloso perché non viene riconosciuto come tale. Si assiste quindi al passaggio dalla complessità alla banalità del male.

Approfondendo il mito di Sisifo e conoscendo il personaggio che io stesso ho interpretato diverse volte, ho riscontrato molte affinità caratteriali e comportamentali, che mi hanno portato a riflettere.

Parlando di scelte, spesso non ci rendiamo conto di quanto esse siano importanti, partendo da quelle più piccole, le cosiddette micro-scelte, apparentemente insignificanti ma che conducono verso le macro-scelte, che apportano profondi cambiamenti nelle nostre vite. Possono essere positive o negative e conducono a strade diverse. Esse definiscono in parte chi siamo, ma soprattutto cosa stiamo cercando. Proprio come Sisifo, molti di noi si sono fatti guidare dal proprio delirio di onnipotenza oltre i limiti consentiti, dimenticando la complessità dell’impasto che porta ciascuno a praticare il male, fino ad assuefarsi al suo esercizio quotidiano e ad anestetizzare la propria coscienza.

Passando attraverso l’illegalità, si entra in contatto con realtà difficili, fatte non solo di soldi sporchi e violenza, ma anche di povertà e costrizioni, circoli viziosi in cui si entra con relativa facilità e da cui poi difficilmente si riesce a venir fuori. Ciò comporta l’annullamento della coscienza, proprio come è successo al protagonista del nostro mito e da questo seguono comportamenti messi in atto per il gusto di sentirsi potenti e invincibili.

Tuttavia, prima o poi bisogna necessariamente fare i conti con i propri errori, poiché si arriva inevitabilmente al capolinea e sopraggiungono le conseguenze delle scelte fatte precedentemente.

A questo punto, sono possibili due opzioni:

  • la prima è quella di coloro che, nonostante gli sbagli commessi, continuano a non rendersi conto del male causato e, imperterriti, non appena se ne dà l’occasione, imboccheranno nuovamente le strade della criminalità, senza alcuna presa di coscienza;
  • la seconda riguarda coloro i quali, trovandosi di fronte al grande masso con cui scontare la propria pena e, seppur consapevoli di poter fare ben poco per rimediare agli errori commessi, decidono, come il re di Corinto, di intraprendere un dialogo con la propria coscienza, cercano di ricostruire la  propria storia, di conoscere le motivazioni che avevano indotto alle scelte fatte e di ridare vita ai valori messi a tacere già nei primi anni dell’adolescenza.

Il cambiamento è possibile e le Istituzioni svolgono un ruolo fondamentale insieme a tutti coloro che hanno a che fare con i tribunali e i luoghi di detenzione. Tuttavia è proprio il detenuto a dover compiere dei passi in avanti, che daranno poi il via a tutto il resto.

L’obiettivo del gruppo è l’evoluzione dei detenuti e per questo è necessario che ognuno di noi abbia dei punti di riferimento, “un posto sicuro”, delle certezze e buone relazioni: questo è ciò che con l’Associazione e con la Cooperativa Trasgressione.net si cerca di fare all’interno e fuori dal carcere. Si promuove la cultura, il lavoro, la comunicazione, si torna indietro, nel passato, al male per raggiungere le emozioni dell’epoca perché si ha bisogno di “sentire”, di immergersi nelle proprie emozioni e riviverle per potersi guardare dentro con persone che ti accompagnano nella tua evoluzione.

Marcello Portaro, Katia Mazzotta e Angelo Aparo

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Il cineforum su “La banalità e la complessità del male”

Cibo a domicilio…

Cibo a domicilio per famiglie in difficoltà,
i “fattorini” sono detenuti in semilibertà

Il Gruppo della Trasgressione fondato 22 anni fa nelle carceri
ottiene l’incarico e una sede in via Sant’Abbondio

IL GIORNO – Andrea Gianni

Milano, 1 giugno 2020 – Dopo una frenata, c’è una ripartenza. In momenti di crisi, quando tutto sembra immobile, nascono occasioni di crescita. Detenuti delle carceri milanesi in regime di semilibertà o ex detenuti in libertà condizionale hanno ottenuto l’incarico di distribuire cibo a famiglie disagiate a Rozzano e Peschiera Borromeo, riuscendo a garantirsi uno stipendio minimo nei mesi dell’emergenza sanitaria. Un’occasione di incontro tra persone che stanno cercando di ricostruirsi una vita fuori dal carcere e famiglie fragili, che rischiano di finire ai margini.

Un risultato del Gruppo della Trasgressione, iniziativa creata 22 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, attiva nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore. Oltre all’aggiudicazione dei bandi per la distribuzione di cibo nei due Comuni dell’hinterland milanese, il Gruppo ha ottenuto una nuova sede a Milano grazie al bando di Palazzo Marino “Valori in gioco“. Si tratta di un appartamento in via Sant’Abbondio, zona Chiesa Rossa, che diventerà una base per le iniziative anti-degrado nel quartiere.

“Dopo decenni di sudore, paradossalmente, in un periodo terribile per tutti, il nostro gruppo raccoglie frutti sui quali avevamo quasi perso le speranze”, spiega Angelo Aparo, fondatore del progetto che all’epoca contò tra i primi partecipanti il manager Sergio Cusani, in cella per la maxi-tangente Enimont, e ha offerto un percorso di recupero anche a persone condannate per omicidi e associazione mafiosa. Percorsi fatti anche di incontri con le vittime di reati e di lavoro in aziende partner e nella cooperativa sociale Trasgressione.net, che vende e distribuisce frutta e verdura.
“Con l’emergenza coronavirus il lavoro della cooperativa si è fermato – spiega Aparo – e per fortuna abbiamo ottenuto gli incarichi a Rozzano e Peschiera che ci permettono di sostenerci anche economicamente. In questo periodo non possiamo più lavorare nelle carceri: abbiamo avviato iniziative alternative online come un cineforum sulla “banalità del male“ che coinvolge detenuti, magistrati, studenti e vittime di reati, in attesa di riprendere i percorsi”.

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Il Covid 19

Covid 19, che sgomento!
Un vero sfacelo,
l’unica nota positiva
è che c’è meno inquinamento
e che forse è più pulito il cielo

Quanta gente contagiata
tanta gente spaventata
tanta gente ci ha lasciato

Momenti difficili da superare
qualcuno solo in casa si è dovuto fermare
altri chiusi in convivenze forzate

Tante donne maltrattate
uomini impotenti davanti alle difficoltà
che pensano alla morte
per mantenere la loro dignità

Qualcuno, riuscendoci, si è dovuto reinventare
altri hanno smesso di credere e di amare

Io vivo in un’altra realtà, sono chiuso da un’eternità
altro che quarantena, sto scontando la mia pena
ma tra meno di due anni sarò fuori
e, se il vaccino non verrà trovato,
per non essere contagiato o contagiare,
i miei amici non potrò più riabbracciare

Che dolore, che sfacelo!
Mai una gioia, tanta noia
in carcere a morire di monotonia
e tutto trasformato in paranoia

Ma per uscire da questa agonia
basta avere fiducia e un po’ di fantasia

Se ti guardi attorno puoi osservare
che sono proprio tanti quelli
che non hanno mai smesso di aiutare

Medici e infermieri, guerrieri determinati
a rischiare la vita per il loro ammalati
e persino noi, nel nostro piccolo,
a portare frutta con la Squadra Anti-Degrado
a chi rischia di far sera senza aver mangiato

Ma se vogliamo andare avanti
è chiaro cosa c’è da fare
guardare in faccia la realtà
e camminarci dentro
ciascuno con la propria responsabilità

                                   Pino Amato e Angelo Aparo

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Sul Corona Virus in carcere

Buongiorno, sono Rosario Roberto Romeo e saluto tutto il gruppo. Lunedì scorso, durante l’incontro on line, una ragazza ha chiesto qualche testimonianza sulle conseguenze del corona virus all’ interno delle carceri per un eventuale progetto.

Sono stato scarcerato da  Bollate il venti aprile e quindi la mia testimonianza può essere utile perché vissuta in prima persona.

Fino a quando ero ristretto non ci sono stati casi di contagio tra i detenuti, circolava la voce che alcuni agenti della polizia penitenziaria fossero stati colpiti dal virus.

Per noi gli effetti sono stati la fine di tutte le varie attività, sia quelle lavorative presso l’aria industriale sia quelle sociali presso l’aria trattamentale. Quindi un senso di grande solitudine, la mancanza di incontri a partire dalla scuola, ai vari gruppi terapeutici e alle varie religioni, anche l’accesso alla biblioteca era sospeso.

Praticamente, tutto quello che fa la differenza tra Bollate e altri istituti è stato azzerato con grande rammarico di noi detenuti, presi dall’aumento della noia e della tristezza.

Per quanto riguarda gli effetti di questa pandemia, credo che per tutti i miei compagni la mancanza dei colloqui settimanali sia il peso maggiore da sopportare. Per me è stata la più grande sofferenza, ho due figli molto piccoli e non abbracciarli per quasi due mesi è stato molto triste. Poi, ognuno di noi aspetta i propri familiari, l’unico vero legame con la vita esterna; il cibo portato ogni settimana è una grande gratificazione, ti fa sentire meno solo e ti aiuta per altri sette giorni.

Certo ascoltavamo i telegiornali, sentivamo il crescente numero dei decessi ma non potevamo capire la gravità della situazione. Può sembrare un paradosso ma il carcere è diventato quasi un’isola felice contro questo terribile contagio. Poi sono uscito, ho visto la città deserta, tutte quelle mascherine e ho capito quanto era grave la situazione.

Sono tornato libero dopo tre anni di detenzione ma non potevo portare i bambini al parco giochi o mangiare un bel gelato, per fortuna c’è stata una apertura e la vita è migliorata.

Tanti saluti, Rosario Romeo

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Joker

Joker è un film che ho amato. L’escalation delle azioni del protagonista, accompagnate dalla risata impossibile da fermare, danno realmente il senso del solco che progressivamente si crea quando si comincia a camminare in una direzione, fino a sentirsi obbligati, ogni giorno di più, a camminare solo dentro quel solco e in quella direzione.

La risata non si può fermare. Mamma l’ha chiesto: ha detto che ha una missione, portare allegria e gioia. La prima maschera che Joker indossa è questa. Non può esimersi dal farlo, anche se questo significa non avere un contatto con le proprie emozioni, disconoscerle a tal punto da non poterle neanche contattare.

Una maschera, una gabbia. Un luogo in cui rimanere chiusi: da iniziale protezione a prigione invalicabile.

La seconda maschera è quella che vediamo dipinta, la seconda maschera è Joker. Talmente connaturata con chi la indossa da non vederne più un confine. Quella maschera diventa la sua identità. Quella maschera è il suo volto, non esiste altro oltre essa. Tutto ciò che può emergere, nascere, affiorare viene filtrato da quella maschera, l’unica certezza della sua esistenza. Al di fuori di essa lui è vulnerabile. Senza essa è stato picchiato e maltrattato. Perché dovrebbe lasciarla?

Lasciarla significherebbe tornare vulnerabile,  significherebbe soffrire per i rifiuti subiti. Con la maschera i rifiuti sono cercati. Con la maschera crea quella distanza che gli serve per mantenersi vivo. La maschera È la sua identità. Lui È Joker.

La scena più bella del film dura una decina di secondi e spiega il disagio meglio di mille pagine di psicologia. È la scena in cui assiste allo spettacolo comico: lui ride quando gli altri non ridono e non ride quando gli altri ridono. Avvertire di non essere MAI in sintonia col mondo, di non avere affinità, di essere “fuori”, un outsider. Questo è ciò che accade quando ci si avverte incompresi, quando ci si percepisce diversi. Questo è il primo passo verso quelle maschere che rischiamo di identificare con noi stessi. Maschere rigide, con regole precise al di là delle quali non si può andare, al di là delle quali c’è la disintegrazione del sé.