La lotta con il Leviatano

La lotta con il Leviatano
Alessandro Crisafulli

Non c’è dubbio: l’uomo ha la tendenza al tradimento. Spesso lo attua per negligenza, superficialità o perché assillato da incombenze che gli sottraggono tempo ed energie da destinare, ad esempio, al proprio figlio; altre volte tradisce inconsciamente, adottando un comportamento che ha origine dal tradimento che a sua volta ha subìto. Ma c’è anche chi tradisce colpevolmente, con spirito vendicativo, nella convinzione che è arrivato il momento di far provare agli altri le sofferenze che ha patito. Come dice il dott. Angelo Aparo, “In ogni criminale c’è un bambino tradito che desidera proiettare sugli altri il proprio dolore”.

Poiché quasi sempre il tradimento è stato perpetrato da persone dalle quali ci aspettavamo amore, protezione e considerazione, tornare a fidarsi è un’impresa titanica. Ritengo, infatti, che finché non si instaura un rapporto sempre più intimo e profondo con la propria coscienza, quella sorgente luminosa che in assenza di grossi traumi ci infonde la saggezza per discernere il bene dal male, sia impossibile liberarsi dell’impronta originaria del tradimento. Se si desidera trasformare i tradimenti, bisogna farsi coraggio e aprire le porte che da troppo tempo teniamo sigillate. I traumi dell’infanzia causano cicatrici indelebili che contribuiscono alla creazione di una personalità malata, incapace di affrontare le sfide della vita tenendo conto dei limiti necessari alla convivenza civile.

Non c’è bisogno di una laurea in psicologia per comprendere che tutto ciò che ci ha fatto soffrire e che non siamo stati capaci di elaborare, non è magicamente scomparso solo perché abbiamo fatto finta di nulla; quei dolorosi pezzi di vita violati sono finiti nell’inconscio, quel mondo sotterraneo e pericoloso che sembra abbia vita propria. L’inconscio è come una polveriera, basta un evento per innescare una reazione a catena in grado di provocare danni enormi.

Dopo molti anni di introspezione, ho imparato ad ascoltare il mio dolore; qualche volta, in un atteggiamento quasi masochistico, sono arrivato a crogiolarmi nella sofferenza provocata dai ricordi della mia infanzia, nella convinzione che questa fosse la maniera per depotenziare la carica negativa che è insita in ogni tradimento. Infatti, penso che solo dialogando con il male si possa trovare la chiave per rinnovarsi, ma per farlo occorre uscire dalla spirale distruttiva che il tradimento inevitabilmente porta con sé. Come affrontare, allora, questo Leviatano che ci impedisce di vivere in armonia con noi stessi e che quotidianamente esige che gli sacrifichiamo nuove vittime?

Come dice Jung: “Non ci si illumina immaginando figure di luce ma dialogando con le tenebre”. Tanto per iniziare, occorre divenirne consapevoli. Naturalmente non ci sono formule alle quali rifarci: ognuno deve seguire la strada che gli viene indicata dalla propria voce interiore. Personalmente, dopo aver rovistato per anni in solitaria tra le macerie del mio passato, mi sono reso conto che da solo non ce l’avrei fatta a superare i miei traumi: da soli si muore dentro. Pertanto ho iniziato a cercare alleati con i quali potevo condividere il mio fardello e, contemporaneamente, ascoltare le loro storie, perché è soprattutto grazie alle relazioni con gli altri che si può fare luce su episodi della nostra vita che, a causa della sofferenza che ci hanno procurato, vengono seppelliti nell’inconscio.

Avendo deciso di smettere di vivere con superficialità, ho incontrato molte persone disposte a questo salutare scambio. Sono certo, però, che  i primi  risultati  importanti  che ho raggiunto sono stati possibili grazie al profondo supporto che molti anni fa ho ricevuto da due psicologi, la dott.ssa Pasci e il dott. Giacci, i quali mi hanno tenuto per mano in questo necessario percorso a ritroso infondendomi il coraggio che mi ha permesso di rintracciare le origini del tradimento che ho subìto da mio padre, il quale non solo non voleva che nascessi ma è arrivato al punto di non rivolgermi, sostanzialmente, la parola finché non sono diventato un criminale…come voleva lui… Non è un tradimento questo?!

Ho portato questo enorme macigno per una vita; il peso era così reale che sino a una decina di anni fa avevo un blocco al plesso solare. Naturalmente a quei tempi non ne ancora ero consapevole; tale disvelamento, come ho detto, non sarebbe stato possibile senza il lavoro, durato un anno e mezzo, fatto assieme agli psicologi, ai quali sarò per sempre grato. Solo successivamente sono stato in grado di mettere a fuoco anche i molti tradimenti da me commessi ai danni di un’infinità di persone alle quali ho tolto la gioia di vivere.

Ritengo che solo bonificando il tradimento una persona possa reinserirsi, come cittadino, nella società. Tentare di rielaborare il passato cercando di comprendere e, soprattutto, accettare i propri sentimenti e pensieri dell’epoca, è certamente un’impresa ardua, ma il sacrificio ne vale assolutamente la pena poiché in palio c’è la prospettiva di vivere un’esistenza all’insegna della costruzione e del piacere costante che da essa deriva.

Ma la svolta decisiva è certamente avvenuta nove anni fa, quando ho incontrato sulla mia strada quello che definisco il mio gruppo di appartenenza: il Gruppo della Trasgressione, il quale oggi per me rappresenta un’oasi di tranquillità in un deserto di incertezza. In questo gruppo mi sento libero di aprirmi completamente e, grazie al continuo stimolo dei miei compagni e, in particolare, del dott. Aparo, ho rintracciato vicende del mio passato che giacevano nei recessi più bui dell’inconscio. In questo gruppo ho maturato la consapevolezza che la perfezione non fa parte dell’uomo; anzi, è proprio grazie all’imperfezione che abbiamo la possibilità di crescere ed evolverci, perché accettandola ci predisponiamo ad includere nella mente le diversità che rendono ricco e variegato il nostro viaggio esistenziale.

Oggi sono cosciente che l’infanzia mi è stata negata; per sopravvivere a ciò mi sono costruito una prigione nella quale mi sono illuso di essere protetto: in realtà, ho solo seppellito le mie emozioni. Ma da quando ho deciso di riprendermi la mia vita, tutti i sentimenti che ho negato sono tornati in superfice, esigendo l’attenzione che non è stata loro dedicata a suo tempo. Continuare a negare questi bisogni sarebbe folle, perché perderei l’opportunità di continuare il cammino evolutivo che è alla base dell’esistenza e da cui scaturisce quella meravigliosa sensazione che mi fa sentire in armonia con tutto quello che mi circonda.

Io non sono padre, ma ritengo che questo cammino possa aiutare chi lo è a spezzare definitivamente la catena familiare, quella coazione a ripetere che ti zavorra e che inconsciamente ti porta a trasmettere ai figli i tradimenti subìti e i peccati commessi.

Anime verdi

Anime Verdi
di Mario Buda

L’anno scorso ho partecipato alla giornata di Commemorazione delle vittime delle mafie. Figure istituzionali, comuni cittadini e detenuti, siamo andati al microfono per leggere, ognuno di noi, 28 dei 940 nomi in elenco.

Sentire nominare, una dopo l’altra, le persone uccise da chi, come me, ha fatto parte di quelle mafie, è stato come ricevere una martellata in testa. E la martellata mi ha obbligato a scegliere da quale parte stare… se ancora dalla parte dei colpevoli o dalla parte di chi condivideva il dolore di quelle vittime.

Ho aspettato il mio turno e poi, senza remore o ripensamenti, ho letto i 28 nomi presenti sulla lista che mi era stata consegnata. Questo mio atto di pubblica partecipazione mi ha fatto sentire più pulito e più degno del presente che voglio vivere e del futuro che sto tentando di costruire.

Qualche settimana fa il dottor Aparo ci ha detto che il Rotary club Milano-Duomo vuole donare alla città di Milano 50 alberi, da piantare in parte qui, nel carcere di Opera, in parte nel carcere di Bollate e in parte al Coming out(1). Inoltre, ci ha chiesto di scrivere qualcosa circa una eventuale correlazione tra noi del Gruppo della Trasgressione e questi alberi.

lo ho subito percepito che il senso di questi alberi era da collegare a quella commemorazione e a quelle vittime e per questo propongo di intitolare qualcuno di questi alberi al nome di qualcuna delle vittime ricordate quel giorno.

Poi, attraverso la Direzione o attraverso il P.M. Cajani, sarebbe opportuno inviare una lettera alle famiglie di queste vittime, mettendole al corrente di questa iniziativa, nella speranza che accettino questa sorta di “mediazione penale”.

Infine, se questi alberi saranno da frutto, proporrei di preparare dei cestini regalo con i primi frutti che gli alberi produrranno, inviandoli alle rispettive famiglie, proprio per dare un valore simbolico a questa iniziativa.

Sarebbe fantastico creare qui in carcere un giardino della commemorazione nel quale, il giorno della ricorrenza, parenti, istituzioni e detenuti che abbiano preso “coscienza della prossimità” possano dar voce alle vittime e a chi, uccidendole, aveva tolto la vita a loro e a se stesso.

Come dice un famoso detto ebraico:
L’immortalità consiste nel ricordo di chi ci vuole bene...
e fino a quando il nostro nome risuonerà nell’universo,
noi saremo realmente i
mmortali

  1. Gli alberi del Rotary Club Milano Duomo verranno piantati il 22/03 e il 04/04 nelle carceri di Bollate e di Opera e il 05/04 al Coming out

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La libertà? Piantala

La libertà? Piantala. Ecco gli alberi al carcere di Bollate

Venti nuovi alberi, il legame simbolico tra i detenuti e chi crede nella possibilità del recupero sociale: è l’ultima iniziativa del Rotary

di ROBERTA RAMPINI
Pubblicato il 23 marzo 2018

Bollate (Milano), 23 marzo 2018 – Albero come simbolo della vita. Albero come logo del Gruppo della Trasgressione. Da ieri l’albero, o meglio venti alberi, sono diventati il legame tra i detenuti del carcere di Bollate e chi dall’altra parte del muro crede nella loro rinascita alla vita, in questo caso il Rotary Club Milano Duomo. L’iniziativa rientra nella mission del Rotary Club di promuovere equilibrio e benessere e rafforza la collaborazione che da anni esiste fra Rotary Club Milano Duomo e il Gruppo della Trasgressione fondato nel 1997 da Angelo Aparo e attivo nel carcere di Bollate e Opera.

“Quest’anno la mission a livello internazionale ha come slogan “un albero per ogni socio” e noi abbiamo individuato delle aree dove piantumare gli alberi, due all’interno delle carceri e una oltre le mura – dice Paolo Briglia, presidente del Rotary Club Milano Duomo – l’iniziativa di questa mattina è la prima, ha una valenza ambientale e sociale, ci piace pensare all’albero come a qualcosa che rende più bello il mondo e come rifioritura di persone che nella vita hanno sbagliato”.

Gli alberi sono stati piantati nelle aree adibite al passeggio dei detenuti. Le buche sono state fatte dai detenuti, le piante di castagno, leccio, corniolo e ciliegio, sono state sistemate nelle zolle di terra dai soci del Rotary, da Andrea Pernice, Governatore del Distretto Metropolitano Milanese. Zappe per vangare, buche per piantumare e la lettura di alcune poesie scritte dai detenuti del Gruppo che parlano di errori, di alberi e di vite da ricostruire.

“Il Gruppo della trasgressione vive cercando di ottenere dal malessere, dal danno e dalla storia di ogni detenuto qualcosa di utile per la società – ha spiegato una detenuta – Chi ha avuto la possibilità e la fortuna di poter partecipare a questo progetto, dopo aver preso coscienza di sé partecipa a iniziative utili a prevenire e combattere il bullismo fra gli adolescenti. In questo modo si crea una possibilità di riscatto per chi, consapevole dei propri errori, ha ancora desiderio di rimettersi in gioco e di diventare una risorsa per quella stessa società che aveva ferito”.

  • L'articolo su IL GIORNO del 23/03/18
  • La targa

La consapevolezza del seme

La consapevolezza del seme
Carmelo Impusino

Sono il seme di un frutto cresciuto su un albero non tra i più sani, su un terreno duro, in mezzo alle tempeste… eppure esisto. Forse sono state le intemperie ad intaccarmi al punto da rendermi inservibile. Sono rimasto lì sul ramo, in attesa di quel destino che mi ha visto deteriorare e cadere inevitabilmente a terra. Ma ora che sono a terra vorrei liberarmi della polpa guasta che mi circonda. Desidero che la pioggia mi trasporti su un terreno migliore, dove mettere radici, germogliare, nutrirmi e crescere come un albero sano e forte. Desidero che tutti possano nutrirsi dei miei frutti. Vorrei essere più di un semplice seme. Vorrei essere una storia da raccontare… un riferimento sulla quale riflettere. So che posso esserlo.

Ai confini del dolore

Lo Strappo, ai confini del dolore, dentro il carcere di Opera
di Max Rigano

“Quando uccidi qualcuno, muore anche una parte di te: sebbene, sentendoti Dio, ti è difficile ammetterlo. Ma è cosi”.

Alessandro Crisafulli è stato un uomo della criminalità organizzata del quartiere della “Comasina” a Milano. Ha una condanna: fine pena mai. Ergastolo. Al carcere di Opera c’è ormai da un decennio, e in galera da oltre 24 anni.

“Cosa direi al me stesso che 25 anni fa uccideva e spacciava? Più che altro lo ascolterei. Lo accompagnerei a vedere cosa si è perso della vita, per farsi ascoltare da una famiglia che era sempre rimasta in silenzio”.

Alessandro ha fatto un lungo percorso di psicoterapia. Ha guardato dentro il suo abisso “da cui non si riemerge mai completamente perché quando uccidi, una parte di te muore”.  Rivendica tuttavia il diritto a riabilitarsi attraverso il carcere, di riscoprire la vita proprio in un penitenziario. Visto che per lui la strada ha rappresentato le tenebre della sua esistenza. “Mi sono sentito libero per la prima volta in vita mia il giorno in cui mi hanno arrestato”.

Al carcere di Opera questa volta il Prof.  Angelo Aparo, psicoterapeuta che lavora nelle carceri da 38 anni, ha proposto un incontro dal titolo: “Lo Strappo, quattro chiacchiere sul crimine”. Un evento cui hanno preso parte detenuti, condannati di Alta Sicurezza appartenenti al Gruppo della trasgressione, nato grazie al lavoro del professore per far emergere il dolore profondo di coloro che si sono macchiati di reati gravissimi; magistrati, società civile, giornalisti, che si sono confrontati sul come agire per trasformare la pena non in uno strumento di vendetta ma di riabilitazione del reo. Ciò che la riflessione comune ha fatto emergere è che le categorie di bene e di male sono inficiate dal personale passato di ogni singola persona. L’aula teatro del Carcere di Opera, dove si tiene la serata aperta al pubblico, propone una parte di un lungometraggio curato dal giornalista Carlo Casoli, dal PM Francesco Cajani, dal sociologo Walter Vannini e dallo stesso Aparo sul ruolo del carcere nella psicologia del detenuto. Riflessioni fatte ad alta voce sulle esigenze che il singolo ha di vedere riabilitata la propria esistenza, acquisendo quello spessore morale di cui è di fatto stato privato in giovane età.

“Sono stato anch’io un uomo di mafia; ho ucciso” – dice ad un certo punto Roberto Cannavò, catanese ed ex appartenente a Cosa Nostra. ”Tuttavia nel sentire di dovere scontare questo male profondo, ho preso atto che io stesso sono stato vittima della mafia: quando avevo 12 anni mio padre fu ucciso per sbaglio dall’imboscata di una cellula mafiosa. Prima di diventare carnefice, sono stato anzitutto una vittima”.

Nessuno di questi ragazzi si atteggia. Ognuno di loro è consapevole di aver inflitto dolore al suo prossimo. Tuttavia è nella coscienza di ciascuno,  di aver compiuto atti tremendi.  Da lì si dispiega la possibilità oggi di poter andare nelle scuole e individuare “potenziali nuovi delinquenti” che potrebbero reiterare le istanze del male, rinnovando il proposito di uccidere. “Quando riesco a riconoscere uno di loro so che sto impedendo che il gioco della morte torni a mietere le sue vittime. Solo così sento di stare ripagando il mio debito. Evitando che altri facciano i miei stessi errori e provochino ulteriore dolore”. Sul palco insieme a Roberto e Alessandro, ci sono Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, assassinato dalla mafia, Il neo direttore del Carcere di Opera Silvio Di Gregorio, l’ex direttore Giacinto Siciliano adesso a San Vittore, Franco Roberti, già Procuratore Nazionale anti mafia, Paolo Colonnello caporedattore de La Stampa di Torino e appunto Alessandro Crisafulli, Roberto Cannavò e Adriano Sannino, tutti e tre appartenenti al Gruppo della trasgressione del Prof. Aparo.

Come sempre in questi casi, tra i detenuti presenti “iscritti” alla serata, ci sono anche gli ultimi arrivati. Coloro cioè che non sono ancora ammessi al percorso del gruppo della trasgressione, ma autorizzati ad assistere al loro lavoro. Al tentativo quindi di reintegrazione nella società civile che passa anche attraverso incontri aperti al pubblico, di questo tenore. Nelle ultime file, dove sono schierati in fila i detenuti con “minore anzianità” oppure non ancora considerati “pronti”, c’è fermento. Alcuni di loro hanno un atteggiamento di sfida verso le guardie penitenziarie. Che a loro volta non guardano sempre con comprensione il lavoro svolto dai ragazzi del gruppo. Questione di pelle. Alcuni dei detenuti il loro odio verso le guardie se lo sono tatutato: Acab (All cops are bastards) recita più d’uno sulle braccia o sul collo. Dentro serate come queste allora c’è anche l’intento di dare voce a quanto resta sopito nelle giornate interne al penitenziario tra il personale e i carcerati. La volontà cioè di creare un ponte attraverso l’ascolto. È una delle cose che mi colpisce di più: per un paradosso, vedo volti più distesi tra i carcerati che non tra i le guardie penitenziarie che sembrano più stressate. È l’effetto del processo di responsabilità. La guardia risponde di quanto accade dentro il penitenziario. Il carcerato invece finendo dentro, ha cominciato a scontare subito il suo debito. E dopo anni, è come se questo debito venisse “scontato” poco alla volta attraverso un cammino di coscienza. Come se lo stare dentro desse modo loro di pensare a quanto commesso. Mentre una guardia penitenziaria deve rispondere ogni giorno della responsabilità che ha di seguire i detenuti. Ma senza poter “pensare”. Eseguono degli ordini, delle direttive.

La serata è stato uno sguardo lucido sul dolore. Sulla consapevolezza del suo linguaggio che si esprime non solo in capo alle vittime della violenza criminale ma anche in capo ai suoi carnefici. Una serata umanamente toccante. Dove bene e male si sfiorano. E dove se ne esce tutti più arricchiti. “Sia chi se torna a casa a dormire, sia chi se ne torna in branda in cella”.

La vita continua, anche se non è più la stessa.

Lo Strappo, ai confini del dolore, dentro il carcere di Opera

Vai alla registrazione integrale della serata

Il motore ad anidride carbonica

Al Rotary club Milano Duomo

Il motore ad anidride carbonica
Ilaria Mortarini

Sono passati 15 anni da quando il dott. Angelo Aparo ha paragonato il gruppo di cui è fondatore a un “motore ad anidride carbonica”. Proprio come un albero, che per vivere assorbe ciò che è di scarto per l’uomo dando indietro ossigeno, il gruppo della trasgressione vive cercando di ottenere dal malessere, dal danno e dalla storia di ogni detenuto qualcosa di utile per la società.

Chi ha avuto la possibilità e la fortuna di poter partecipare a questo grande progetto, infatti, dopo aver preso coscienza di sé, e grazie alla collaborazione fra le scuole della provincia di Milano e il nostro gruppo, partecipa a iniziative utili a prevenire e combattere il bullismo fra gli adolescenti.

In questo modo si crea una possibilità di riscatto per chi, consapevole dei propri errori, ha ancora desiderio di rimettersi in gioco e di diventare una risorsa per quella stessa società che aveva ferito.

L’albero è il simbolo della vita ed è il logo del nostro gruppo, e oggi diventa dimostrazione di un legame tra noi detenuti e chi dall’altra parte di queste mura vuole condividere il nostro progetto e darci la possibilità di cambiare per sempre la nostra vita.

Grazie

Un commento su “Lo strappo”

Il Commento di Paola Tanara
(Giudice presso la Corte di Appello di Milano)

Ho visionato il documentario con gli occhi di un giudice del dibattimento penale avendo io svolto per molti anni tale funzione (e mai quella del Pubblico Ministero e del Magistrato di Sorveglianza) presso il Tribunale Ordinario di Milano (prima nella sezione che si occupa di violenze sessuali ed infortuni sul lavoro e successivamente in una sezione specializzata di criminalità organizzata) e per alcuni anni presso il Tribunale per i Minorenni di Milano.

In tale veste, il documentario mi ha sollecitato alcune riflessioni, anche se non ho potuto non essere affascinata da quella parte corposa del documentario dedicata alla funzione rieducativa ed all’esecuzione della pena, rispetto alla quale la strada da percorrere da parte del “sistema”, mi pare, sia ancora molto lunga e difficile.

Il documentario ha il pregio di fotografare in modo sintetico, ma straordinariamente esaustivo, la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni, psicologiche, sociologiche, emotive, implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti sia antecedentemente, sia durante, sia successivamente all’agìto criminoso; scandaglia da un lato, le conseguenze dell’azione criminale nella vita sociale, ma anche e soprattutto nella vita personale della vittima, e dall’altro illustra, con encomiabile equidistanza, alcuni minimi comuni denominatori psicologici del reo rispetto ai suoi agiti, nonché alcune delle tappe più significative del percorso rieducativo dell’autore del reato.

Emerge un quadro articolato e dalle mille sfaccettature, emotivamente molto toccante, spunto di innumerevoli riflessioni anche “de iure condendo”, un quadro  che, come ben sottolinea il dott. Alberto Nobili nello stesso documentario, nel processo (e nel dibattimento in particolare) viene solo lambito (e, purtroppo, non sempre, attesa la non sovrapponibilità tra realtà e verità processuale), e comunque solo nei limiti dello stretto indispensabile per arrivare ad una sentenza il più possibile giusta e ad una pena equa rispetto alla “gravità del fatto”.

Ed è proprio quest’ultima espressione tecnico-giuridico, non di rado utilizzata in modo tralatizio per indicare esclusivamente il disvalore sociale di un agìto criminoso, che dopo la visione del documentario si arricchisce di significati spesso nella prassi giudiziaria non sufficientemente valorizzati.
Come in tutto ciò che ha a che fare con l’umano, anche nel crimine, ogni situazioni ha caratteristiche sue proprie: il legislatore ha opportunamente cristallizzato normativamente le varie tipologie di agiti effettuando una valutazione “ex ante”, della gravità delle medesime indicando i parametri da un minino ad un massimo della pena applicabile. Al giudice l’arduo compito di commisurare la pena nello specifico caso al suo esame, con un giudizio “terzo” discrezionale, ma rigorosamente verificabile alla luce dei parametri normativamente prestabiliti. Le tipizzate coordinate entro le quali il “giudicante” ha il dovere di muoversi per esercitare l’azione punitiva dello Stato, contengono molteplici sfaccettature e il giudizio sarà tanto più equo quanto più completo: una sorta di delicatissima alchimia nella quale debbono trovare spazio norme processuali, sostanziali, valutazioni sociali, sociologiche, psicologiche, prognostiche con un percorso argomentativo il più possibile chiaro proprio per garantirne la verificabilità.

Le interviste che si susseguono nel documentario, rappresentano in modo “plastico” tale complessità. Il documentario, strumento certamente preziosissimo nell’ambito di un percorso educativo alla legalità per i giovani – in quanto completo ed al tempo stesso intellegibile – ha anche il pregio, di stimolare la riflessione degli operatori del diritto e di coloro che gravitano nel “mondo giustizia”, spesso pressati dai tempi e dalla statistica, sul significato e l’importanza per la società di oggi e per la società futura, del delicato compito che sono chiamati a svolgere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze.

Paola Tanara

VOCI di SCOUT –  3 FEBBRAIO 2018

Chiacchierata aperta su “Scelte e Stupore”

“Carcere”. Freddo, buio, solitudine, dolore. Prima ancora di pensare ai “criminali” che avrei incontrato, quelle erano le parole che si affollavano nella mente. Appena entrate nell’edificio, le guardie, il cemento, le porte che si serravano alle nostre spalle hanno solo ulteriormente aumentato l’immagine stereotipata che avevamo del luogo e delle persone con cui avremmo di lì a poco condiviso il pomeriggio.

Qualcosa inizia a cambiare quando sui muri all’interno della struttura principale compaiono disegni, poster, tinture – troppo –  colorate, e la situazione si fa ancora più assurda quando varchiamo la soglia del luogo dove si sarebbe svolto il workshop e ci ritroviamo davanti una trentina di uomini sorridenti, accoglienti, sinceri. Il Dott. Aparo, che gestisce l’incontro, è un po’ un Akela, un lupo capobranco, e chissà come,  ha la lealtà e la stima di tutti i presenti.

Dove sono finiti i criminali? Dove ladri e assassini? Questi uomini ci parlano di Stupore (e ne sanno più di noi che avevamo proposto il tema!) di famiglia, di amore, di coraggio di cambiare. Ad alcuni si incrina la voce, così che battono più forte i nostri cuori, altri si esprimono a sorrisi e qualche battuta sarcastica, si crea complicità… si può dire? Una piacevole e buona complicità.

Quasi ci dimentichiamo chi sono finché non iniziamo a parlare di scelte: le loro furono sbagliate, lo sanno e non si vergognano a dircelo. Dalla voce con cui raccontano si percepisce la consapevolezza e la volontà di essere persone nuove, di ricostruire la loro identità e la loro umanità. Mi sorprendo a pensare che mi sembrano uomini più liberi e consapevoli di quanto non si siano le persone là fuori, quelle che si credono libere.

Poi stupiscono noi, perché vedono cose che nel nostro tran tran quotidiano abbiamo smesso di guardare, le vediamo e basta, le diamo per scontate: il verde di un campo da calcio, il bianco sfavillante del Duomo di Milano, le luci silenziose del porto di San Remo, il crescere di un figlio, gli occhi commossi di una moglie. “Non ci si rende conto di ciò che si ha finché non lo si perde” ha detto uno di loro. Può sembrare banale, vero. Ma detto da lui mi è sembrata la cosa più vera che io abbia mai sentito… a che punto, mi chiedo, devo arrivare io per ricominciare a stupirmi della bellezza che ci circonda?

Le loro parole travolgono la nostra sensibilità… porterò sempre nel cuore e ringrazio colui che ha detto: non si può rinascere che attraverso il dolore. Noi che pensavamo di saper qualcosa di Stupore, che sulle Scelte avevano riflettuto, ci troviamo senza parole davanti a tanta limpidezza di mente e forza, forza di chi dal male (fatto anche e/o subito forse) decide di andare oltre, accettare, accettarsi, e pur stando obbligatoriamente fissi e fermi in un posto… andare avanti. Al momento di andare… Ho più di fiducia oggi nell’umanità, dopo aver incontrato voi, di quanta ne ho ogni giorno a scuola. Non riesco a salutarli! Vorrei dire: torno domani, credo in voi… e forse anche in me.

La trasgressione di vivere da detenuti

Il Gruppo della trasgressione, un laboratorio di confronto per cercare di riscoprire l’uomo dentro il carcerato,  di Giulia Virzì,
dal periodico MM, N° 19, 13/02/2018

«È come quando butti un sassolino nell’acqua… è come se ti buttassero dentro un sassolino. Poi quando vai su, in cella, rifletti sui tuoi sensi di colpa… ed è giusto che sia così perché non si può cancellare un passato come il mio. Però il Gruppo ti dà quella stabilità e quella forza che fanno sì che i sensi di colpa ti migliorino: sono la tua forza per affrontare la vita».

Adriano Sannino è in piedi da prima dell’alba. Come ogni sabato è andato all’ortofrutticolo all’ingrosso per comprare la frutta e la verdura da rivendere alla bancarella al mercato di viale Papiniano, uno dei progetti del Gruppo della trasgressione di cui fa parte.

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#Sbulla-Mi: entra in rete, fai la differenza

#Sbulla-MI, Istituto Galdus

Formare adolescenti più consapevoli delle proprie risorse, con un buon grado di autostima, capaci di relazionarsi positivamente con il gruppo e con i genitori: è l’obiettivo del progetto #SBULLA-MI che vede impegnati in rete esperti e professionisti al servizio dei giovani cittadini milanesi tra gli 11 e i 18 anni, in svariate e innovative attività destinate a mettere al centro la persona e le sue risorse, per contrastare il bullismo e il cyberbullismo.

Il bullismo è infatti un’emergenza che si stima abbia già toccato in Lombardia 71 mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni e in crescita da quanto attestano i numeri nazionali. Al progetto #Sbulla-MI, unico progetto finanziato da Regione Lombardia a Milano collaborano Fondazione Somaschi, Galdus, Il Gruppo della Trasgressione, I.I.S Oriani Mazzini, I.C E. Morosini e B. Savoia, I.C. Via De Andreis, Istituto La Casa, La Strada, Lo Scrigno. Il progetto parte a febbraio 2018, si conclude a dicembre 2018.

www.galdus.it       La prevenzione al bullismo

Il progetto col Piamarta     Torna all’indice della sezione