Libertà fa rima con responsabilità

Desidero ringraziare di cuore chi mi ha dato la possibilità di prendere la parola durante la serata del 9 marzo: per me è stato un onore poter offrire uno spaccato, a nome di tutti i partecipanti al progetto, di quanto fatto in occasione dei nostri incontri.

Inizialmente ho pensato sarebbe stato davvero difficile restituire, in una sola serata, un lavoro di cinque giornate. Invece, penso che la restituzione si sia svolta in maniera efficace dando voce a persone che, nonostante le diverse esperienze professionali e di vita, sono accomunate dalla voglia di riflettere in ordine ad un tema comune e, soprattutto, legate da un unico comun denominatore: il rispetto per l’uomo in quanto tale.

Una domanda cui non riuscivo a trovare risposta all’inizio ma alla quale – grazie a questo meraviglioso percorso di scoperta dell’altro e di noi stessi – penso di poter rispondere ora, è la seguente: “Cosa significa per me libertà?”

Per me libertà significa “scelta responsabile”. Da oggi e per il futuro voglio scegliere, responsabilmente, di non accontentarmi della risposta più facile e conveniente, ricercando la mia verità. Mi impegno, inoltre, a cercare di condividere questa mia verità con chi ancora crede si possa distinguere rigidamente tra chi è dentro e chi è fuori, tra i detenuti e la società libera, tracciando una linea netta tra buoni e cattivi, aiutando l’altro a cogliere le sfumature.

Margherita Viglione, studentessa della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Rimettere il debito per guadagnare libertà

Vi scrivo per ringraziarvi per la bellissima visione dello spettacolo presso il carcere di Bollate, e tramite voi ringraziare anche e soprattutto le persone detenute, l’organizzazione del carcere, i membri della vostra associazione, i ragazzi universitari e i rappresentanti di magistratura e camere penali, i quali – con la loro partcipazione – hanno reso possibile l’evento.
Vi ringrazio anche come padre perché avete dato a mia figlia, Maria Bianca Valenti,  studentessa di giurisprudenza e scout, la possibilità di fare una bellissima esperienza nel gruppo di ricerca.

Aggiungo una breve riflessione sulle cose dette, che in sé  mi sono sembrate indimenticabili. Questa riflessione è nelle cose stesse che avete detto, non aggiungo nulla, salvo forse un punto alla fine.

  • Se ho capito bene, noi esseri umani ci inoltriamo nella strada che giunge al delitto quando in noi sorge l’idea di avere un credito nei confronti del nostro prossimo e dei mondi che ci circondano (aristotelicamente: famiglia, padre, madre, fratelli e sorelle, servi, vicinato, ‘polis’, popolo, stato,…).
  • L’idea di ‘avere un credito’, può sorgere in seguito ad accadimenti e sofferenze profonde che stravolgono il cuore umano (‘voglio riparazione’), o  al contrario può sorgere nel vuoto sterile dell’intelligenza (‘voglio realizzare la giustizia’) e persino nel e per il godimento dell’agiatezza (‘voglio di più’).
  • L’essere creditori e questa strada  su cui ci siamo inoltrati, ‘colorano’ il nostro essere nel mondo e gli incontri che facciamo: tutto ciò che ci viene incontro è sotto la volta celeste del nostro ‘credito’: tutto e tutti sono ‘debitori’. Da quel momento, nel tempo dell’avere un credito, tutto accade sotto l’insegna della domanda (rabbiosa, o vendicativa o bramosa): “chi sono, dove sono i miei debitori?”. Il delinquente risponde sempre: ‘eccoli i miei debitori: mio padre dissoluto e indegno, mia madre debole e incapace di difendermi e darmi ciò che chiedo, il mio vicino di casa che mi guarda di traverso,il portiere,  il parroco, i passanti, i ricchi, i politici, Dio che non ha pietà di me, etc.’
  • Una volta sorta l’idea di avere un credito, può venire intrapresa la strada che porterà al delitto, strada lungo la quale tutti ci si presentano come debitori … dunque quando e perché commettiamo il delitto? Lo commettiamo quando nell’aula del tribunale del nostro cuore e lungo la strada del crimine ad un certo punto ‘emettiamo la sentenza di riscossione del credito’ e la eseguiamo seduta stante. E’ in questo senso che il dr Aparo penso abbia detto che il delinquente commette il crimine per un senso di “giustizia”, per riequilibrare la bilancia tra credito e debito.
  • Al di là del cercare le prove del crimine, il crimine stesso è la prova del percorso che lo ha generato. Sorge un paradosso, cui penso il dr Aparo accennava: l’imputato qualora fosse ‘colpevole’ dovrebbe essere alla fine del processo ‘togato per essersi erto a giudice e per avere emesso ed eseguito una sentenza’: il colpevole è colpevole di essersi autoeletto arbitrariamente giudice ed esecutore di una sentenza. Il processo è in questo senso la ricostruzione e la lettura del disponsitivo e della sentenza criminale che ha generato il delitto. Il processo è lo specchio del processo interiore del delinquente.
  • E’ in questo senso corretto pensare, come diceva il dr Aparo, che il delinquente è un parricida e un matricida. Lui, lei sono parricidi e matricidi alla luce del loro pensiero che padre e madre sin dall’origine “avrebbero dovuto dare il credito che spettava al figlio”: per il delinquente, ma siamo tutti delinquenti in questo, sono il padre e la madre ad essere i primi debitori verso i figli.

Concludo provando a rispondere alla questione della libertà. Cosa vuol dire ‘liberarsi’ ed ‘essere liberi’ in questo caso, una volta sorta l’idea dell’avere un credito da riscuotere, una volta acquisito il dirito al rancore e, infine, una volta scelta la via del crimine?

La giustizia criminale è meccanica e consequenziale, è necessitata dalla logica economica del dare – avere, è generata dalla legge della reciprocità. Credo che essere liberi e liberarsi sia invece una conseguenza della “remissione dei debiti”: ‘e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Essere liberi vuol dire liberarsi della e dalla reciprocità. Senza questa remissione dei debiti e senza questa dismissione della reciprocità, non siamo mai liberi.

La libertà è ‘libero perdono’. Ossia è il dono eccessivo e potente che ha la capacità e la forza di rimuovere l’idea originaria dell’avere un credito e dell’avere dei debitori. E’ un muoversi ricco e diverso nella logica del “credito”.

Grazie al perdono, ossia al dono eccessivo, noi non siamo più né ‘creditori’, né ‘debitori’, ma diventiamo quei ‘liberi’ che gratuitamente danno una misura abbondante di credito all’altro, al prossimo. Dando una misura di credito, attenzione, ascolto, permettiamo all’altro di non sentirsi mai ‘creditore’. E mettendo chiaramente di fronte all’altro la nostra libertà e la gratuità del nostro dargli credito, permettiamo all’altro di sentirsi libero di ricevere senza essere a sua volta ‘debitore’, nella speranza che l’altro divenga a sua volta un “perdonatore”.

Vi ringrazio per la bellissima esperienza, con stima vi saluto

Davide Valenti

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Responsabilità personale e collettiva

Ciò che mi ha subito affascinata di questo progetto di ricerca è la possibilità di dialogare con persone con un bagaglio professionale e personale completamente diverso, in alcuni casi addirittura antitetico (penso, ad esempio, a Marisa e Paolo Setti Carraro da un lato e ai detenuti del gruppo della trasgressione dall’altro). È questo confronto continuo tra persone con un vissuto così diverso, a mio avviso, ad avere attribuito un valore aggiunto alla nostra ricerca.

Una domanda che mi sono posta in passato e che è risuonata in me in occasione dei nostri incontri settimanali nel carcere di Bollate dopo avere ascoltato le storie di vita che alcuni detenuti coraggiosamente ci hanno raccontato è la seguente: “ma se io mi fossi trovata al loro posto, crescendo nello stesso contesto… insomma, a parità di condizioni di partenza… avrei agito diversamente?” Penso che si debba essere un po’ ingenui e forse anche un po’ arroganti per rispondere affermativamente a questa domanda, senza dubbi né ripensamenti.

Grazie alle sollecitazioni provenienti dalla lettura e conseguente discussione dei fratelli Karamazov – dove verso la fine del romanzo c’è quello che potremmo definire un “riconoscimento della responsabilità collettiva dei quattro fratelli” i quali, ognuno in modo diverso, hanno tutti contribuito alla morte del padre – in occasione del nostro ultimo incontro, un detenuto ha posto la seguente domanda: “ Abbiamo parlato della responsabilità del singolo ma che spazio trova la responsabilità della società nel processo?”

Tale quesito ha da subito provocato in me una serie di riflessioni. Nel processo penale – dove si accerta la responsabilità penale, la quale è, come noto, personale – la responsabilità collettiva trova poco spazio. Non penso che tale scelta debba essere necessariamente stigmatizzata: penso siano altre le sedi opportune dove stimolare questo senso di responsabilità collettiva (penso, ad esempio, alla famiglia e in particolare alla responsabilità dei genitori verso i figli; ancora, penso alla scuola).

Ad ogni modo, un riconoscimento di questa responsabilità collettiva, della società tutta, deve avvenire. Da questo punto di vista, tanto la storia dei fratelli Karamazov quanto quelle dei detenuti mi hanno portata a riflettere sull’importanza e la fortuna immensa che ho avuto io, in prima persona, di avere i giusti stimoli, le giuste possibilità e dei modelli positivi da seguire.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Margherita Viglione

 

Il paradosso del mucchio

Era il 18 marzo del 1904, 120 anni fa tra qualche giorno, quando alla Camera dei deputati Filippo Turati pronunciava il suo discorso: ‘Il cimitero dei vivi’.
Il cimitero erano le carceri, i sepolti vivi, i detenuti. Sono passati molti anni e sono cambiate molte cose, ma la cortina di fumo non è ancora del tutto stata dissipata.

Quando mi chiedono: ‘che vai a fare in carcere?’ uso, di solito, rispondere con domande a mia volta. ‘Sai cosa succede in un carcere? Come vive un detenuto? Qual è la sua esperienza, il suo pensiero, le sue opinioni? Ma un carcere l’hai, in fondo, mai visto?’ a cui spesso non ricevo risposta.
L’indifferenza che aleggia intorno alla vita carceraria, soprattutto post condanna e pre-scarcerazione, è ancora fortemente palpabile.
Per abbatterla è necessario che l’interesse da fuori verso dentro, oltre che quello scontato da dentro verso fuori, cresca ed iniziative come questa sono fondamentali a questo proposito.

Da un punto di vista più tecnico, la risposta a cosa ci vengo a fare in carcere, è invece la seguente: ragionare sui temi, su lati, spigoli e vertici del crimine proposti dal capolavoro di Dostoevskij insieme a gran parte del sistema molecolare del crimine. Il sistema molecolare del crimine è uno schema che propone una visione grafica del crimine, con al centro appunto il crimine ed intorno ad esso, in orbite separate, gli atomi del reo, della vittima e delle agenzie di controllo sociale.
Ed è esattamente quello che abbiamo fatto qui, ragionando intorno ai concetti del credito (non nella sua accezione giuridica) e del controverso e sorprendete diritto al rancore, pensando alle diverse concezioni di movente e riflettendo sulla portata degli errori giudiziari. Con le vittime e gli autori di reato.

La questione diventa più spinosa e complessa, probabilmente, nell’interrogarmi su cosa farne dell’esperienza vissuta in questo progetto, delle conoscenze acquisite, dei concetti scoperti.

Nel parlare del credito, che abbiamo inteso come la condizione di un individuo che non ha ricevuto qualcosa che invece gli spettava come l’affetto di un genitore, il sostegno, un’infanzia normale, la presenza delle istituzione, la tragedia di un caro strappato via con la violenza; abbiamo riconosciuto che talvolta, in certe condizioni, nell’agire criminale una parte è giocata dalla corresponsabilità sociale. Tutta la società ha parte della responsabilità della genesi del crimine.

La domanda di un detenuto mi lascia riflettere, chiede:’ Noi abbiamo detto che c’è anche responsabilità sociale nel crimine, ma nel processo poi la responsabilità è solo la nostra.’ Certo, la responsabilità penale è personale. Responsabilità per il fatto commesso dal reo.

Ma l’impressione di star vivendo un paradosso, rimane. È paradossale la situazione di un diritto penale simbolico, che considera fatti, più che fatti commessi da persone, ma che poi ovviamente — come con sofferta ironia amava sottolineare a lezione il mio professore di diritto penale — infligge le pene alle persone e non alle loro condotte.

Ma se è vero che la corresponsabilità sociale esiste ed influenza le scelte ed i comportamenti di determinati soggetti, in che misura la possiamo effettivamente ritenere responsabile? Per capire come tenerne conto dovremmo riuscire in qualche modo a misurarne il livello, la quantità, la percentuale di influenza. Ma è possibile misurare una cosa del genere?
In che modo potremmo riuscire a dire che essa è stata determinante nella determinazione a delinquere in modo certo e condannarla oltre ogni ragionevole dubbio?

Mi viene in mente il paradosso del mucchio. Dato un mucchio di sabbia, se eliminiamo un granello dal mucchio avremo ancora un mucchio. Eliminiamo poi un altro granello: è ancora un mucchio. Eliminiamo ancora un granello, e poi ancora uno: il mucchio diventerà sempre più piccolo, finché rimarrà un solo granello di sabbia. Possiamo dire in quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Per gli antichi il paradosso stava nel mettere sullo stesso piano due concetti diversi, di tipo qualitativo da un lato, il mucchio, e di tipo quantitativo dall’altro, numerico, il singolo granello.

Possiamo dire che la corresponsabilità sociale esiste ed è partecipe nel crimine, ma non possiamo dire in che misura essa diventi determinante, non possiamo dire quando diventi un mucchio. Ecco un altro paradosso. Il sistema penale sembra esserne pieno. L’unico modo per escludere con certezza la presenza del mucchio è ridurlo alla singola unità, così come l’unico modo per escludere l‘incidenza della corresponsabilità sociale sembra essere combatterla incessantemente, fino ad eliminarla.

Del resto anche la nostra Costituzione impegna la Repubblica a ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[…]’ ed è nostro dovere civico impegnarci nello stesso senso.

Ed è qui che forse ho trovato la risposta ai miei interrogativi. Le consapevolezze acquisite in questo progetto devono essere liberate. Devono respirare e vivere. L’impegno è portare queste consapevolezze nel mio percorso, farle conoscere, darle uno scopo prima e dopo il crimine, durante il processo, durante l’esecuzione della pena. L’obiettivo è quello di riscoprirci uniti nella stessa comunità di destino, riflettere se stessi negli altri ed insieme fondare, non più solo la conosciuta responsabilità verso il fatto commesso, ma la responsabilità verso l’altro.
Il fine è quello di comporre una nuova modalità di risoluzione dei conflitti

Se mi chiedi cosa sono venuto a fare in carcere, la risposta è che sono venuto a risolvere il paradosso del mucchio.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

Non li aveva chiamati nessuno…

Un auditorium dalle alte pareti nere, privo di finestre e illuminato da numerosi fari dinamici sul soffitto.

La disposizione delle sedie alla base del palco pianeggiante, mutava in alcuni momenti da quadrato a cerchio, pronta ad ospitare gruppi di persone estranee a quel mondo. Altre volte venivano poste al centro di un focolare che vedeva l’incontro tra autore e vittima di reato.

E sarebbe forse stata la curiosità beffarda di un momento a portarli lì dentro più e più volte. Chi da vent’anni, chi da pochi mesi o giorni, s’accingeva a invadere spazi che lo Stato riservava a coloro che magari, erano destinati a passarci il resto della vita in quel posto.

Un’esperienza di vita, che seppur non mai fine a sé stessa per alcuni quella diveniva totalizzante.

V’era il pretesto di un libro alla base e la volontà di capirne il contenuto, scrutarne i personaggi, i rapporti, i dissidi interiori e spirituali.

Uno psicologo a tratti simpatico, a tratti un po’ burbero, alternava momenti di ironia a riflessioni più profonde, sdrammatizzava la timidezza di studenti e detenuti miscelandola alla gravità dei loro reati.

Girovagava in cerca della parola altrui, rotolava seduto per terra ai piedi dei suoi interlocutori e li guardava fissi negli occhi, dimenandosi nella complessità dei loro concetti.

Legato da una stretta amicizia, se ne stava seduto invece, dopo aver dato inizio alle danze dell’incontro, un PM, anch’egli trasgressore di un modello che la società agognerebbe quale “persecutore categorico” del crimine.

Sembrava la personificazione di un’interpretazione estensiva dell’art 358 c.p.p, tanto era raro, laddove non si limitasse a compiere solo “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” ma che li proseguisse anche dopo averne e ottenuto l’irrogazione di una pena. Si trattava di un indagine diversa però, non più basata sul fatto di reato e della sua responsabilità, ma sulla persona condannata e ormai reclusa e i suoi possibili riferimenti con la società civile.

Cosa ci facesse un PM lì dentro sarebbe stato difficile capirlo, eppure insieme allo psicologo era l’autore di ciò che avveniva in quel carcere.

A trasgredire dalle regole sociali, non bastavano di certo loro. A sostenerli in questa loro “ricerca” c’era persino un sacerdote e due vittime di reato, esattamente coloro che in genere tessono dal dolore la bandiera del giustizialismo. Ebbene neppure loro rispettavano tale schema comune, al punto tale che improvvisamente finirono per trovarsi in triangolo tra scienza, norma e spiritualità. Qui l’oggetto dell’indagine li poneva faccia a faccia con gli autori del crimine, c’era da riflettere sul loro “diritto al rancore”, c’era da capire come negli anni le vittime avessero potuto travasare il dolore, la rabbia e lo strappo in un gesto d’amore, in una carezza verso coloro che quella sofferenza avevano causato.

Intorno a loro altri membri del Gruppo della Trasgressione, persone sagge e studenti pronti a dare i loro contributo sull’analisi dei rapporti familiari dei personaggi de “I fratelli Karamazov”. Nel cerchio del palco i detenuti si alternavano, propensi a riflettere su ciò che li aveva portati a delinquere, si sentivano in debito e in credito allo stesso tempo, spesso finivano per immedesimarsi nei personaggi. Era necessario tornare bambini, andare alle radici della loro esistenza e affrontare quei vuoti che avevano segnato le loro vite.

In platea altri detenuti sedevano, chi più in vista chi meno, qualcuno amava isolarsi in alto o cambiare spesso postazione, alcuni d’un tratto sparivano, altri giungevano ad assistere, quasi come se quello che avveniva sul palco con i loro compagni facendo da collante li attraeva, ma allo stesso tempo non era necessario mostrarsi interessati o rendersi partecipi. E chissà se in futuro qualcuno loro un domani si sarebbe seduto su quel palco a vivere in prima persona quell’esperienza.

L’umiltà, la genuinità, la necessità di operare senza manie di proselitismo, mi meravigliava e non poco. Non era il Gruppo a “vendersi” per farsi notare, ma erano gli altri, forse i più sensibili a sentirne il delicato suono di canto corale e armonioso.

In uno degli incontri, il caso fece sì che nel cuore dei lavori di condivisione il Gruppo fosse colto in “flagranza” da qualcuno che seppur lì di passaggio, né udì la voce. Si trattava del neo eletto Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che, nella fase conclusiva della sua visita al carcere, irruppe improvvisamente alle spalle dei partecipanti.

Nessuno li aveva chiamati! Erano le istituzioni a sedersi nella cerchia al fianco dei detenuti per assistere, per conoscere il tipo di attività, la delicatezza, l’umiltà e allo stesso tempo l’alto valore morale che tale “missione” poneva in sé.

Non erano più le istituzioni, seppur garantiste, a dover dare qualcosa ai detenuti, ma erano questi ultimi a presentarsi, a insegnare, a restituire qualcosa che forse non gli era mai stato dato e che, ciò nonostante, potevano condividere con orgoglio.

Era il frutto di un sostegno radicato della loro crescita, della volontà di ricucire lo strappo di un gesto immorale, che poneva quale fine ultimo l’approdo ad un autentico senso di riscatto sociale.

 Antonio Lucanto
(studente di Giurisprudenza Università degli Studi di Milano)

I Conflitti della famiglia Karamazov

Il mio viaggio, il mio compito

Sono salita a bordo dell’auto condotta dal Dottor Aparo e dal Dottor Cajani estremamente curiosa di quali mondi nascosti avrei conosciuto durante il viaggio e desiderosa di poter dare il meglio in un’esperienza mai vissuta prima d’allora.

Ho avuto la fortuna di vedere un angolo di cielo che rimane spesso ignoto ai più e mi ci sono tuffata, desiderosa di conoscerne ogni aspetto nascosto.

Ho sempre fatto a meno dei pregiudizi e dei preconcetti ed ero certa che entrare in contatto con la realtà di Bollate non mi avrebbe fatto cambiare prospettiva e i miei occhi sarebbero rimasti quelli di un osservatore che si arma di umiltà e desiderio di conoscere l’altro.

Sono abituata a non viaggiare leggera, sennonché questa volta la colpa non era dei vestiti, la valigia con cui sono partita era piena di Speranza e non per me, per donarla. Ho avuto l’ambizione e la pretesa di poter rappresentare speranza per chi il carcere lo vive tutti i giorni e culla il desiderio che <chi sta fuori> lo guardi con bontà e fiducia.

Dostoevskij è stato partecipe e protagonista dei nostri 5 incontri ed ha rappresentato l’occasione per confrontarci su crediti, pretese, dolori, rivincite e speranze.

Varco per l’ultima volta il cancello del carcere sussurrandomi che non sarà affatto l’ultima volta, mentre assaporavo il viaggio gettavo briciole per poter ripercorrere il sentiero più e più volte, perché si sa, un libro va letto due volte per essere capito e un viaggio.. che ve lo dico a fare.

Ho imparato a confrontarmi e a capire che ci sono sempre punti di vista differenti e che non sempre questi sono inconciliabili. Ho capito che la sofferenza riguarda indifferentemente chi commette, chi subisce e chi sta vicino ai due, ma che c’è sempre il sentiero giusto da percorrere, anche se nascosto.

Tornata dal viaggio trovo che il mio compito, il più bello e il più ardito, sia quello di raccontare, condividere e donare lenti diversi con cui scrutare questo pezzo di cielo, spesso oscurato dalle nuvole ma dietro cui si nascondono timidi raggi di sole che aspettano di poter tornare a splendere.

Martina Bianchi, studentessa di giurisprudenza

I Conflitti della famiglia Karamazov

Nessun bambino nasce cattivo

Non esistono risposte giuste o risposte sbagliate su un piano universale, eppure di fronte all’affermazione “nessun bambino nasce cattivo” penso sia molto difficile andare a dimostrare il contrario. Questo, almeno, è ciò che penso io.

Si potrebbe mai immaginare e prevedere che un neonato intento a guardarti e sorriderti con occhi grandi e luminosi, un giorno diventerà violento, aggressivo, vendicativo, pieno d’odio e di rancore? Proprio lui che in quel preciso istante sembra protetto da un’aurea angelica e pura. Qualcosa deve essere andato storto, qualcuno deve avergli fatto del male e deve aver tradito il suo amore. Si dice che l’odio non sia altro che un grande amore ferito e che gli adulti siano bambini feriti diventati grandi: alla fine siamo sempre noi, solo con qualche anno in più man mano che il tempo passa.

E allora quando ci viene chiesto come mai molto spesso capiti di provare una certa simpatia, e oserei dire anche tenerezza/compassione, verso una o più persone detenute, la mia risposta sta proprio in quell’affermazione iniziale. Nessun bambino nasce cattivo. Il lupo dorme dentro ognuno di noi, ma forse continuerebbe a dormire se nessuno si prendesse la briga di andarlo a svegliare.

Quando un essere umano viene cresciuto in condizioni estreme, come nel caso del nostro Smerdjakov, e quando fin da bambino è abituato a sentirsi dire “Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro. E non vuole bene a nessuno. Tu non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco cosa sei tu…”, quali sono le probabilità che cresca con un’immagine di sé stesso amorevole e positiva? Quali sono le probabilità che, quel mostro, lo diventi davvero?

Durante la conversazione tra Ivan Karamazov e il diavolo, quest’ultimo dice di essere sinceramente buono, ma che i suoi sentimenti migliori (ad esempio la gratitudine) gli vengono proibiti a causa della sua posizione sociale. Il suo compito è infatti quello di non mostrare e non esprimere mai la sua benevolenza, perché altrimenti tutto il mondo smetterebbe di esistere, si estinguerebbe. C’è bisogno del bene e del male per permettere l’esistenza della vita stessa. E chi meglio del diavolo può portare a perfetto compimento e realizzazione questo compito? Ma non era forse anche il diavolo il più bello e splendente tra tutti gli angeli? Mitologia a parte, si potrebbe azzardare che anche il diavolo in persona sia un bambino ferito?

A questo proposito vorrei introdurre un punto di vista secondo me molto interessante e diverso rispetto a ciò di cui si sente spesso parlare riguardo l’impulsività emotiva e all’impossibilità di autogenerare o meno le proprie emozioni.

Ultimamente ho avuto modo di leggere alcuni libri sul pensiero dello psicologo austriaco Alfred Adler e questo è ciò che ho interpretato e compreso. L’autore sostiene la tesi secondo cui il trauma non esiste in quanto appartiene al passato, che a sua volta non esiste, e le emozioni non sono reazioni istintive a un qualche stimolo esterno/interno, ma vengono autogenerate per raggiungere uno scopo del quale si è o meno consapevoli. Di conseguenza secondo Adler, un’emozione come può essere la rabbia, viene generata da un individuo principalmente allo scopo di poter dominare su qualcun altro, di sentirsi potenti.

Perciò in quest’ottica, se una persona ne aggredisce un’altra, ha bisogno di autogenerare rabbia così da riuscire ad avere l’energia e la forza necessarie per farlo e per raggiungere il suo obiettivo di dominanza. Secondo Adler io aggredisco, urlo e attacco perché voglio dominare su qualcun altro e mi servo della rabbia perché è l’emozione migliore per raggiungere il mio scopo.

Rispetto alla non esistenza del trauma, quindi, una persona non aggredirebbe perché ha subito un trauma in passato o perché non è stato cresciuto con amore in passato, ma perché sta continuando a ricercare quell’amore, quell’affetto e quelle attenzioni nel presente e si serve dell’emozione della rabbia per raggiungere questo scopo. In sostanza spera di ottenere quell’amore e quell’affetto, che pretende, servendosi della rabbia e della violenza. Forse Adler cambierebbe l’espressione “ho agito così perché i miei genitori si sono comportati in questo modo” (causa-effetto: eziologia) con “ho agito così perché voglio raggiungere questo obiettivo X nel presente” (azione-scopo: teleologia).

Mi sono trovato più volte a riflettere su quale sequenza possa essere più vicina al vero, se il rapporto di causa-effetto o quello di azione-scopo e ovviamente non ho una risposta conclusiva. Proprio per questo, al momento mi accontento di una piccola grande boa di salvataggio che Dostoevskij ci offre: “Una volta che gli uomini avranno rinnegato Dio, uno per uno (e io credo che questo periodo sopraggiungerà di pari passo con i periodi geologici), tutta la precedente visione del mondo verrà a cadere, senza ricorso all’antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e partirà tutto da zero. Gli uomini si uniranno per prendere dalla vita tutto quello che essa potrà dar loro, ma soltanto per la gioia e la felicità della vita terrena. L’uomo sarà sollevato da uno spirito di divina, titanica fierezza e apparirà l’uomo-dio. Quest’amore sarà soddisfacente soltanto per un attimo della vita, ma basterà la consapevolezza della sua fugacità per intensificarne l’ardore, che in passato invece veniva dissipato in speranze di amore eterno e ultraterreno…

Ma dal momento che, considerata l’inveterata stupidità umana, quest’era non arriverà che fra mille anni, colui che riconosce la verità sin da adesso può organizzare legittimamente la propria vita secondo i nuovi principi. In questo senso, “gli è tutto permesso”.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov

Siamo tutti un po’ Karamazov

Ogni giovedì ci sediamo tutti in cerchio nel teatro di Bollate, illuminati dai fasci di luce dei faretti che ti permettono di vedere tutti i volti di tutti i presenti e pronti per incontrare una nuova persona. Ogni settimana, infatti, abbiamo fatto la conoscenza di uno dei quattro fratelli Karamazov, sviscerando, analizzando e interrogandoci sui loro comportamenti, sul loro essere e sul loro animo all’interno del romanzo.

La prima settimana abbiamo parlato di Dimitrij e del suo credito verso il padre, la seconda settimana di Alesa e della sua spiritualità, lui orfano che ha trovato un nuovo padre nella figura dello starec Zosima e di Dio, la terza settimana di Ivan, della libertà e del diritto al rancore e, infine, la quarta settimana di Smerdjakov e dell’omicidio che ha commesso.

Durante gli incontri nella mia testa un’idea si è fatta strada, cioè che forse tutti noi siamo un po’ i fratelli Karamazov: ognuno di noi ha crediti verso qualcuno, alcuni vivono la spiritualità e si affidano a Dio, molti serbano rancore verso altri, alcuni sono impulsivi come Dimitrij, altri riflessivi come Alesa, altri ancora si tormentano come Ivan. Ma poi siamo arrivati a Smerdjakov, colui che ha ucciso il proprio padre. E lì tutto è cambiato.

E allora questa idea diventa una domanda: ma allora siamo tutti un po’ Karamazov? Forse no. Io non ho mai vissuto senza una madre e con un padre assente, niente di tutto quello che hanno passato i fratelli Karamazov ha che fare con me e con il mio vissuto, però con quello di qualcun altro sì. E quindi chi sono i Karamazov oggi?

In questo percorso i quattro fratelli sono stati impersonificati da quattro detenuti: Fabio, Salvatore, Giuseppe e Beqar. Tutti loro hanno raccontato la loro storia, il loro vissuto, che per molti versi è simile a quello dei quattro personaggi del romanzo. Poter dare loro un volto di una persona reale, che esiste, a cui posso sedermi di fianco e con cui posso parlare, mi ha aiutato a poter dare una rilettura del romanzo nella mia realtà e in ciò che mi circonda. Oltre a loro anche altri detenuti hanno raccontato della propria infanzia, di condizioni di disagio, di tossicodipendenza e di rapporti difficili soprattutto con la figura paterna, e quindi forse loro sì possono capire fino in fondo i quattro fratelli.

Con questo non vorrei che passasse il messaggio che solo chi è dentro un carcere possa immedesimarsi in loro, perché sicuramente anche tra i miei colleghi universitari, tra i famigliari delle vittime, tra i pubblici ministeri e gli psicologi ci sono dei Karamazov. Ma allora ritorniamo alla domanda: per me cosa vuol dire essere un Karamazov oggi?

È difficile rispondere, ma mi sono rimaste impresse le parole del dott. Aparo che, parlando riguardo al grado di consapevolezza di chi compie un reato, diceva che, secondo lui, il grado di libertà (e quindi di consapevolezza) aumenta in proporzione all’amore che si è ricevuto. Allora forse per me un Karamazov è qualcuno a cui è mancata una qualche forma di amore e che però comunque ha diritto a vivere una vita, ha diritto a ricercare l’amore negli altri, ha diritto di affidarsi a Dio, ha diritto a essere arrabbiato e a serbare rancore per questo, ma allora in nome di ciò ha anche diritto a commettere reati, ad uccidere? No, e in questo a mio parere ne sono esempi e testimonianze preziose Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro.

Ma allora come biasimare chi agisce come Smerdjakov, chi commette un reato, sapendo quello che ha vissuto? Non lo so, ma proprio questo è l’impegno che mi porto a casa: a scuola e in famiglia mi è stato insegnato come comportarsi, cosa si può fare e cosa no, in questi cinque anni di giurisprudenza ho studiato cos’è un reato, come viene punito, quali sono le conseguenze e le implicazioni, tutta questa conoscenza è essenziale ed importante ma ciò che ho capito è che tutto questo dovrebbe essere accompagnato da una ricerca: una ricerca di chi sono i condannati, del loro vissuto, una ricerca per prevenire, dove è possibile, la commissione dei reati e, se già avvenuti, una ricerca per trovare dei modi di riparare a questi.

Marta Miotto

I Conflitti della famiglia Karamazov

Smerdjakov, l’ombra

Disprezzato da tutti e isolato, Smerdjakov, viceversa, ha differenti legami e conosce a sufficienza le persone che lo circondano.
Smerdjakov mi fa una certa simpatia.
Non perché ha ammazzato il padre o perché da piccolo impiccava gatti crudelmente. Questo meriterebbe una riflessione a parte.
No, lo immagino, come in un teatro, dietro le quinte, che conosce a menadito, diciamo così, le parti dei vari attori in scena.

Del padre, Fedor, che pure lo disprezza e lo umilia in continuazione, conosce praticamente tutto: la sua lascivia e voracità e le sue inclinazioni nascoste. Smerdjakov è l’unico a cui è permesso di entrare nella sua stanza. Fedor chiede addirittura la sua complicità su come avvertirlo segretamente quando la desiderata Grusenka si fosse fatta viva, cosa che aspetta con ansia e passione.

Con Alioscia, il seminarista devoto e guidato dal santo starec, Smerdjakov usa l’arma dell’ironia e del sarcasmo.
Il dissoluto, irascibile e passionale Dimitri, invece, gli fa paura e lo tiene a bada.
Solo Ivan ha la sua ammirazione: ha belle idee, le espone in modo razionalmente appropriato e lo ascolta incantato e questo basta a renderglielo accettabile, anche quando ne riceve maltrattamenti aggressivi.

Insomma, Smerdjakov conosce bene…i suoi polli, ma ne riceve oltraggio e rifiuto. Anzi, direi proprio che egli possa plasticamente rappresentare il rifiuto, il negativo, in fin dei conti l’ombra.
L’ombra.

Ora, non c’è dubbio, tutti, più o meno consapevolmente, hanno quel lato umbratile che non vorrebbero, che rimuovono bellamente o che proiettano sugli altri, ma di cui non è possibile liberarsi impunemente.
A meno che, con faticoso lavoro, non ci si abbassi a fare i conti con lei e non se ne veda la reale e inevitabile portata.
Non ci resta, allora, che guardare a Smerdjakov-ombra con occhi diversi e venirne a patti. Sperabilmente, per una maggiore propria completezza.

Piero Invidia

I Conflitti della famiglia Karamazov

Sentirsi in credito

Il primo giovedì di febbraio 2024, tra le 14:30 e le 17:30, fra le mura della Casa di reclusione di Bollate, durante il primo incontro del progetto “Essere oggi Ivan, Aleksej, Dmitrij e Smerdjakov. I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate”, sotto lo sguardo artistico di Andrea Spinelli (primo illustratore giudiziario italiano), muovendo dalla descrizione di Dmitrij Fёdorovic e del suo rapporto col padre, alcuni detenuti, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro (famigliari di vittime inno- centi della criminalità organizzata, rispettivamente, madre di Marcella di Levrano e fratello di Emanuela Setti Carraro), una sessantina di miei colleghi studenti universitari, altri membri della società civile ed io, guidati da Angelo Aparo (psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione) e Francesco Cajani (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano), abbiamo dato vita ad una discussione sul “sentirsi in credito”.

Le ore trascorse all’interno dell’istituto penitenziario sono state “animate” prevalentemente dalle narrazioni dei detenuti Fabio, Salvatore, Giuseppe e Stefano, che hanno condiviso col resto del gruppo verso chi e per quale motivo si sono “sentiti in credito” nel corso delle loro vite.

Il primo a prendere la parola è stato Fabio, che ha affermato di “essersi sentito in credito” verso la sua famiglia, in particolare verso il padre. Infatti, a partire da quando aveva all’incirca quattro anni, Fabio iniziò a sentirsi «accantonato» dai suoi genitori, poiché questi, dopo aver scoperto che il loro secondo figlio era affetto da Talassemia, iniziarono a riservare sempre meno attenzioni nei confronti di Fabio; dunque, questi iniziò a ricercare altrove qualcuno che fosse in grado di dargli il riconoscimento che pretendeva. Quel qualcuno Fabio lo ritrovò nel suo gruppo di amici, che, purtroppo, era formato da persone poco raccomandabili. Questo, unito al fatto che era «casinista dalla nascita», che voleva «fare un dispetto» al padre e desiderava affermarsi nell’ambito della sua nuova “famiglia”, composta da «idoli, perché rispettati e potenti», portò Fabio a commettere i primi crimini.

Successivamente è stato il turno di Salvatore, che, in breve, ha detto di aver iniziato a “sentirsi in credito” verso il padre dopo che quest’ultimo aveva deciso di abbandonare la famiglia, nonché di aver inflitto alle sue vittime il dolore che avrebbe voluto far patire al padre. Giuseppe, a sua volta, ha sostenuto di “essersi sentito in credito” per via della sua infanzia difficile, durante la quale la sua “famiglia naturale”, non in grado di soddisfare i suoi bisogni e desideri materiali, è stata surrogata da quella composta dai suoi amici criminali; il che lo ha portato a delinquere per prendersi ciò che non ha potuto avere da bambino.

Infine, Stefano, dubbioso tra “essersi sentito in credito” ed “essersi sentito in debito” nei confronti della vita, fra le altre cose, ha raccontato che il padre, gran lavoratore ma pessimo genitore in quanto assente e violento, gli mise la prima pistola in mano.

Dalle parole dei detenuti sembra emergere che, tra le possibili cause che hanno indotto gli stessi a perpetrare condotte criminose, vi siano la legittimazione derivante dal “sentirsi in credito” (in termini di assistenza sia morale che materiale) nei confronti dei propri genitori e la frequentazione di ambienti devianti.

Ora, come si può evitare che un soggetto arrivi a “sentirsi in credito”? Qualora non si raggiunga questo prima obiettivo, quali correttivi posson essere messi in campo?

Un ruolo fondamentale in dette questioni dovrebbe essere giocato dalle istituzioni, in particolare, da scuola e carcere, e, quindi, rispettivamente, da educazione e rieducazione, che, ahimè, non risultano essere temi di particolare tendenza. La stessa Costituzione, rispettivamente, al secondo comma dell’articolo 31 e al secondo comma dell’articolo 27, afferma che «[la Repubblica] protegge […] la gioventù» e «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Quindi, lo Stato dovrebbe guidare ogni consociato, libero o condannato in via definitiva, in quello che Angelo Aparo, durante l’esperienza “Essere Raskol’nikov oggi. Delitto e castigo al carcere di Opera”, ha definito “viaggio alla ricerca della coscienza”, offrendo sempre delle valide alternative alla devianza. In particolare, gli istituti scolastici e penitenziari, ossia i luoghi dove, rispettivamente, giovani e detenuti trascorrono gran parte del loro tempo, dovrebbero, per mezzo di collaboratori credibili e realtà come il Gruppo della Trasgressione, ricordare quotidianamente ai menzionati soggetti che la strada della criminalità, oltre ad essere un vicolo cieco, non è la sola percorribile.

Inoltre, è vero che (il richiamo va al primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale afferma che «la responsabilità penale è personale» e alle finalità della sanzione penale) la commissione di un reato deve far sorgere in capo a colui che lo commette l’obbligo, corrispondente al c.d. “debito con la giustizia”, di ripagare il torto subito dalla collettività, dalla persona offesa e dai famigliari di quest’ultima (senza dimenticare che anche le famiglie dei condannati possono patire sofferenze non indifferenti); ma è altrettanto vero che, in virtù di quanto sin qui detto, si possa concludere che la società, in quanto largamente disinteressata all’educazione e, soprattutto, alla rieducazione (elemento che mette in luce come il nostro paese sembri sostanzialmente ignorare il fatto che, ad un certo punto, i detenuti smettono di essere tali), oltreché verso quest’ultimi, è sicuramente debitrice verso sé stessa.

Credo che ognuno di noi dovrebbe pretendere qualcosa di meglio rispetto ad uno stato che, per dirlo con le parole di Fabrizio de André, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

G. R.

I Conflitti della famiglia Karamazov