<< Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio é discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla.
L’inferno dei viventi non é qualcosa che sarà; se ce n’é uno é quello che é già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo é rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non é inferno e farlo durare e dargli spazio>>
Calvino, Le città invisibili
Della serata del 16 marzo scorso, in carcere a Opera per “Lo strappo”, mi sono rimaste in mente tante piccole cose, immagini, frasi, domande, abbozzi di ragionamento.
– Gli occhi del detenuto dietro al computer e a sistemare l’audio (quando davano i croccantini al gatto, o mi dicevano che serate come queste erano importanti, o si scusavano che la tecnologia era un po’ quella che era)… a me sembravano occhi che ridevano.
– Una difficoltà tecnica che mi è sembrata emblematica: Alex che doveva leggere il testo della strage di Pizzolungo non aveva abbastanza luce per leggere; il mio microfono – quando dovevo recitare le parole di una vittima – si rifiutava di funzionare. Vittime ineffabili. Erano giorni che mi chiedevo quanto fosse difficile dare voce alle vittime, lì dentro.
– Il rammarico per la domanda di un detenuto che chiedeva conto della propria detenzione. Rammarico, perchè possiamo ipotizzare non lo sapesse davvero, o non avesse in mano strumenti per capirlo, o le persone a cui chiederlo non sapeva chi fossero o non gli davano ascolto… Rammarico perchè sembrava non avere gli strumenti per cogliere che era impossibile che quella sua domanda ricevesse una risposta in quella sede. Rammarico perchè, da quel che diceva, era probabile uscisse da lì a breve, e il tono con cui parlava in quel contesto non sembrava essere quello di una persona che avesse fatto bene i conti con la propria storia.
(Eppure, possiamo prenderla sul serio, quella domanda? Ha poi avuto risposta? E la risposta è stata capita?)
– La delusione nelle spalle di quel ragazzo che quando ha chiesto al magistrato cosa lo avesse spinto a intraprendere quella carriera si è visto negare la risposta. E io che invece pensavo che quella domanda fosse azzeccata e avesse assolutamente a che fare con lo strappo e la volontà di ricucirlo, avesse a che fare con quella cosa potente che è immaginarsi grandi (e mi sono sincerata – cuore di mamma dicono – che in separata sede abbia ricevuto una risposta da Franco Roberti mentre insieme uscivano dal carcere, e almeno questa so che è una parentesi a lieto fine).
– Con riferimento alle letture iniziali, e alla parte recitata schiena contro schiena fra vittima/carnefice: e al di là del microfono, della mia performance migliorabile… ripenso che nelle ore/giorni precedenti ero molto tesa al pensiero della possibile reazione dei detenuti, almeno tanto quanto ero tesa al pensiero delle vittime presenti in sala (Che moti dell’animo mi potrò aspettare? E se la nostra interpretazione risultasse inadeguata… addirittura offensiva? E la nostra scelta dei testi come sarà giudicata? C’è chi ha parlato addirittura di arancia meccanica… quelle letture, fanno troppo male? Troppo o troppo poco? Sono servite?)
– Ambrosoli che dice di non essere cresciuto pensando di essere una vittima, di aver cercato di evitare questo alibi. E il mio pensiero va alle guide che ha incontrato sul suo cammino. Chissà se saprei essere così brava…
– Ambrosoli che fra tutto quello che poteva dire sceglie di dire che si dispiace per non aver immaginato che uno dei detenuti avesse una figlia. Di aver perso una occasione di curiosità. Accidenti.
– la domanda “cosa me ne faccio della mia colpevolezza“, che un detenuto ha rivolto alle Istituzioni. Non ero nella testa di quel detenuto, e mentre la faceva mi ero chiesta se il sottotesto – il non detto – in quella affermazione fosse la denuncia “non ci vengono dati contesti in cui poter esprimere la nostra crescita“. Il magistrato che ha risposto “ad esempio la prevenzione al bullismo è una cosa bella per ricucire lo strappo” l’ha letta come domanda effettiva, non come domanda provocatoria. E se era una vera domanda, da un lato volevo rispondere che io ad esempio mi sono stupita/commossa quando mi hanno accennato del progetto di prevenzione al suicidio in carcere portato avanti dai detenuti, che mi è sembrata una idea bellissima, geniale, importante.
Dall’altro lato, quella domanda nella mia testa era subito diventata “cosa me ne faccio della mia consapevolezza“. E volevo rispondere: “eh, grazie. Sarebbe bello che qualcuno ci dicesse cosa dobbiamo fare da grandi“. Sarebbe tutto più semplice. Ma non è così, nemmeno per noi.
Nella cucina della vecchia casa di mia madre, lei aveva appeso un sacco di frasi e foto che le piacevano. Frasi della Bibbia, poesie, cose così. C’era anche una foto di un muro, con una scritta che recitava: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo“. E lei che era una insegnante di italiano alle medie, mi diceva “sai, perchè questa frase è importante? Il primo vero ostacolo perchè il figlio di un bracciante diventi un imprenditore o un professore universitario, o qualunque altra cosa non sono i soldi, ma è l’immaginazione. Non si immagina in quel ruolo. Non si immagina diverso”. È l’immaginazione la risorsa più potente da sviluppare. E ripenso a Juri, che fa diventare i detenuti educatori e nel farlo regala una possibilità di “immaginarsi diversi” pazzesca. E come lui molti altri.
Quindi, in quel frangente, a Opera, pensavo che la mia risposta unica possibile e forse la più seria risposta a quella domanda sarebbe pertanto una domanda: “come lo sogni, tu, il tuo futuro, facendo i conti con quella colpevolezza li? A te cosa piacerebbe fare?”.
The future is unwritten, questa cosa io la voglio pensare. Ma non in maniera stupida, lo so che non ho più la stessa vita potenziale di un bimbo di 10 anni, o che un ergastolano ha una rosa ancora più ristretta di possibilità davanti a sè… eppure gli uomini “guidano da soli la propria canoa“. Quanto meno nei territori inesplorati del pensiero, della conoscenza, della parola, della relazione: il futuro non è già scritto.
E a me è lì a Opera era tornato in mente un libro che ho letto e riletto a mia figlia, un albo illustrato. Si chiama “Un piccolo passo” (Simon James, Zoolibri). Ne copio qui di seguito due pagine:
Io sono una fondamentalmente insicura, e se qualcuno oggi mi chiedesse come vedo il mio futuro, preferirei limitarmi ad una domanda più piccola. Hai provato a fare un passo?
– poi penso alla delusione/rabbia provata pensando a Carmelo, fra gli intervistati del documentario, che una volta uscito è tornato a spacciare, ed è di nuovo in galera. E vorrei sapere da lui, non da altri, il perchè. Quando si parla di spaccio, a me torna in mente la sig.ra Bartocci (che ha perso il marito… per due lire e quattro drogati…e che pensa che lì non si può recuperar niente), la sig.ra Fiorani (e lei che ha combattuto per anni contro la droga, e ha perso una figlia, quando ha incontrato dei ragazzi ha detto “i problemi vanno affrontati“), e poi mi viene in mente la riduzione teatrale che ho visto di Caracreatura di Pino Roveredo (e io mamma di bimbi piccoli mi chiedo come si fa a tenere i miei figli lontano da quello specchietto di allodole lì. Da quel dramma lì. Da quel disastro lì della droga e non mi so rispondere e dico che basta, basta. BASTA. Abbiamo bisogno di alleati).
Ecco. A Carmelo voglio chiedere anche quale contesto lo ha accolto una volta uscito di galera, se s’è l’è cercato lui. Era l’unico possibile? Ci sarebbero stati contesti diversi che potevano accoglierlo? E c’era un lavoro? Abbiamo bisogno di analizzare e capire bene il perchè, per sapere in che direzione lavorare.
– Poi, di tutto il lungo discorso di Lucilla, di Libera, mi è rimasto impresso il richiamo al “vedo sento parlo“. E subito penso al mio compagno, a una dinamica che c’è spesso fra noi, lui che si arrabbia perchè non mi arrabbio abbastanza quando vedo qualcosa di sbagliato. Viviamo in una società di pavidi, mi dice. Tu – mi dice – sei troppo pavida. Io lo guardo, che si incazza in giro per la città quando vede piccoli grandi soprusi quotidiani e il più delle volte gli dico stai attento per carità che tieni famiglia, e che io ci tengo a te, in giro ci sono troppi pazzi o criminali, oppure mi innervosisco che non può sempre guardare quello che non funziona e lui mi dice ti arrabbi con la persona sbagliata. “Io ho una certa pratica del mondo. E quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi, che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù, i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà. Che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre” (Sciascia, il giorno della civetta).
E sì, mentre Lucilla parla penso che davvero i beni più importanti da conquistare alle mafie sono le persone, siamo noi.
E allora. Uno due tre quattro cinque dieci cento passi…